E’ uno di quegli artisti che in teoria non avrebbe nulla da temere: profilo consolidato, il grande rispetto di tutti i colleghi e promoter internazionali, uno di quei nomi che metti in cartellone e sai che funziona e ti fa i numeri. Ma Sam Paganini è, era e sarà molto diverso dal dj-di-successo-medio che c’è in giro oggi: lo è per biografia (e qui spiega perché), lo è per indole, lo è per una tendenza al dubbio che in realtà lui utilizza come forza e risorsa. Al tempo stesso, ve ne accorgerete in fretta, non è uno che si tira indietro quando si tratta di avere delle opinioni forti e non allineate. In una delle intervista più puntute ed interessanti che vi capiterà di leggere quest’anno, l’artista veneto – ormai una stella su scala mondiale – si racconta, partendo dalla sua ultimissima, atipica mossa: la pubblicazione di un album, “Reflections”, nato da circostanze (per tutti) imprevedibili e che lo porta per una volta lontano dai dancefloor. Le circostanze sono quelle del lockdown, dell’esplosione della pandemia: ed è da qui che inizia la conversazione.
Insomma, quello che poi è successo tu in qualche maniera te l’aspettavi…
Sì. Perché non credo alle favole. Avevo subito notato quello che stava succedendo in Cina e avevo pensato “Ecco, questa toccherà anche a noi”. In fondo, i Governi alla fine hanno avuto quasi tutti la stessa strategia, tranne America e Brasile (con risultati per nulla buoni, guarda caso). Anche la Gran Bretagna inizialmente voleva evitare i lockdown, ma ha fatto marcia indietro molto in fretta. Quindi sì, la strategia prima cinese, poi italiana, poi di gran parte degli stati europei dei lockdown si è rivelata corretta. Dura, d’impatto, ma corretta.
Chi l’avrebbe mai detto che avremmo vissuto una fase che finirà nei libri di storia?
Già, è davvero incredibile. Ritrovarsi come nel mio caso a quarantotto anni a dire “Ma cosa sta succedendo? Ma che roba è?”… Credo che uno stop di questo tipo, lungo mesi, sia qualcosa di davvero incredibile. Le code davanti ai supermercati…
Ah figurati, io che sto a Milano me ne sono fatte parecchie!
Io sono stato un po’ più fortunato perché vivo a Treviso nella parte più sud, vicino al casello dell’autostrada e ad un centro commerciale: non essendo in centro, il bacino di gente che veniva a fare la spesa era molto limitato, quindi code vere non me ne sono mai fatte. Ma amici miei che vivevano in centro mi parlavano di situazioni ben diverse.
Il lockdown appunto è stato abolire ogni forma di movimento: per te, che comunque di abitudine e per lavoro viaggiavi continuamente, com’è stato affrontarlo? Hai dovuto cambiare la tua vita proprio radicalmente…
In realtà, io personalmente il lockdown l’ho vissuto benissimo. Negli ultimi cinque anni sì, tenevo una media di 250 voli all’anno: questa è la verità. Tempo per stare tranquillo in studio? Zero. E per me lo studio è stare nel “mio” mondo, rilassarmi… Capisci quindi che quando mi sono ritrovato all’improvviso ad avere tutto questo tempo a mia disposizione, egoisticamente parlando, per me è stato fantastico. Lo ammetto. Sentivo in tanti che si lamentavano per l’isolamento e l’impossibilità di muoversi, e io dentro di me pensavo “Mah, io finalmente a casa ci sto tanto bene…”. Poi sai, io e la mia fidanzata stiamo insieme da undici anni, siamo una coppia rodata, e quando vado in giro a suonare lei mi segue sempre: per noi non è cambiato nulla, passavamo tempo insieme prima e abbiamo continuato a passarlo adesso. Quello che è cambiato è che improvvisamente potevo permettermi di stare dodici, tredici ore di fila in studio al giorno, per giorni di fila. Senza ansie. Senza stress. Bellissimo. E “Reflections” è il risultato finale di tutto questo.
(continua sotto)
Insomma, un disco che non era stato pianificato. Su questo cosa ci torniamo sopra. Ma prima vorrei farti una domanda secca: senti, voialtri “dj da Serie A” non è che steste suonando troppo? Non è che eravate cioè finiti in un meccanismo che non eravate più in grado di controllare? Tu stesso mi parli di 250 voli all’anno e boh, sono veramente tanti… forse troppi? Ha senso?
E’ un tema fondamentale questo. Non sai quante volte c’ho ragionato su tutto questo, dicendomi “No, calma, qua bisogna rallentare”, o “Ma che senso ha girare tanto”. Però poi che succede? Succede che quando ti confronti coi colleghi che sono più o meno al tuo livello e guardi a loro e a cosa si dice di loro, ti rendi conto che appena qualcuno rallenta un po’ si inizia a dire “Ecco, lavora di meno”, “Ecco, sta perdendo posizioni”, inizia a girare questo tipo di percezione. Tutto questo è pazzesco. Ed odioso. Perché basterebbe rifletterci sopra: se sei dj e sei arrivato ad un certo livello, e quindi sei un privilegiato, guadagni molto bene, non hai preoccupazioni economiche, che problema ci sarebbe a fermarsi per due, tre mesi, a rallentare un attimo?
Già: che problema c’è?
Hai paura. Ora poi che regnano i social… figuriamoci: basta “scomparire” un attimo, ed ecco che sembri uno in difficoltà. Guarda Richie: lui ad un certo punto ha deciso di dedicare più tempo ad altre passioni, vedi la cosa del saké, e quasi subito il risultato successivo è che ha perso un po’ di terreno sul mercato. Questa cosa spaventa. E a me spaventa doppiamente, sarò molto sincero: perché io per arrivare ad un certo tipo di livello c’ho messo veramente una vita, non sono uno di quelli che a venti, trent’anni era già al top, che ha imbroccato subito la strada giusta; no, io ho passato veramente parecchio tempo a non essere sicuro di poter pagare l’affitto a fine mese e le bollette. E questa sensazione ti resta addosso. Quindi sì, anche se sono ormai un cinque anni che le cose mi vanno veramente bene, hai anche inconsciamente timore a mollare un attimo. “Reflections” è nato molto serenamente proprio perché all’improvviso tutti eravamo bloccati, tutti eravamo messi sullo stesso piano, tutti eravamo obbligati a stare fermi. Nessuno poteva dire niente su nessuno, e rimproverare niente a nessuno. E quindi, ho potuto con grande serenità dedicarmi a sviluppare idee che avevo in mente già da tempo, idee per cui continuavo a dirmi “Eh, quando riuscirò a fermarmi un attimo…” senza poi, ovviamente, riuscirci mai. Ora l’occasione finalmente è arrivata, forzatamente (…finalmente, o purtroppo). Non avrei certo mai pensato che sarei stato obbligato a fermarmi per una pandemia. Però ti dico una cosa: se qualcuno mi chiedesse “Ma tu tra dieci anni o vent’anni quando non farai più il dj come ti vedi?” la risposta è che mi vedrei esattamente in così, in studio, a fare musica libera, senza condizionamenti, senza pensare alla necessità di fare dischi che entrino in classifiche di settore. Una volta raggiunta la tranquillità economica, puoi ritrovare il piacere di fare musica con calma, coi tuoi tempi, senza regole predeterminate.
(Sam in studio; continua sotto)
Una condizione finale di grande privilegio.
Io mi considero molto fortunato. Sono tantissimi gli artisti in giro, tantissimi; ma quelli che hanno raggiunto una stabilità e un valore sul mercato di un certo tipo, non sono tanti.
Ti sei mai chiesto per quale motivo è capitato, da un certo punto in avanti, a te?
Molti ragazzi giovani mi chiedono pareri e consigli, a tutti loro dico sempre una cosa: le condizioni che c’erano quando ho iniziato io, quindi ormai trent’anni fa, non erano tanto diverse da adesso. Ok, c’erano meno artisti in giro, apparentemente meno concorrenza e più facilità a farsi notare, ma in realtà era molto più difficile raggiungere le persone. Dovevi mandare in giro delle cassettine, spendendoci tempo e soldi, sapendo che la maggior parte della volte non sarebbero mai state ascoltate. Oggi con la rete è tutto incredibilmente facile ed immediato. Sì, è vero che rispetto al passato ora è decuplicato il numero di persone che fa musica, ma una cosa è rimasta uguale: se una cosa è valida davvero, poi funziona. Punto. Quello che non devono fare paura sono le delusioni: sai io nei primi vent’anni quante ne ho avute? Se la tua passione è più forte delle delusioni che prenderai allora sì, riuscirai ad andare avanti. Non sai quante volte mi sono trovato in testa il pensiero “Basta, devo smetterla, devo cercare un lavoro normale, qui non sta succedendo nulla…”. Poi però ci rimugini sopra, tipo tutta la notte ad occhi spalancati nel buio, e arrivi a dirti: “No cazzo, questo è quello che voglio fare nella vita, e per riuscirci voglio provarci fino alla morte”.
Tra l’altro, “Reflections” per te è una specie di ritorno alle origini, visto che è un disco “scritto”, strutturato in modo abbastanza tradizionale (non techno, non dance) tra melodie ed armonizzazioni. Quando c’eravamo incontrati la prima volta avevamo parlato molto del tuo background musicale non-dance.
Sì. Sai, io sono nato a Vittorio Veneto e subito mi sono spostato in provincia di Belluno. Dove non c’era nulla. Ma nulla. Pensaci: in quarant’anni di storia, quel territorio non è riuscito ad esprimere nemmeno un club di riferimento, ti rendi conto? Sono cresciuto non avendo assolutamente nulla e nessuno con cui confrontarmi… e ora ci ripenso anche quasi con nostalgia, a suo modo è stato un periodo magico, un periodo di scelte folli ed irrazionali. Tipo quando, riuscendo non si sa come a mettere via da parte un po’ di soldi dopo le prime seratine a suonare, decidi di comprare un Akai S950, te lo ritrovi in casa e ti dici “E ora?”. Guarda, mi ricordo di quel momento come fosse ieri: emozionatissimo nel portarlo in casa, emozionatissimo nell’accenderlo, il campionatore… ma è bastato poco che poi arrivasse subito il panico. “Cosa me ne faccio di questo? In realtà non so nemmeno usarlo! Non ne ho la minima idea!”. L’incoscienza dei quindici anni, comprare una roba senza pensarci veramente. Poi sai come ho pensato di risolvere?
Come?
Ho chiamato un negozio di Ancona, Grisby Music, chiedendo “Ma non è che per caso avreste un manuale di istruazioni da mandarmi, per cortesia…?” (risate, NdI) Una situazione davvero surreale. Comunque ecco: io ho iniziato così. In più, come ci dicevamo un po’ di tempo fa quando ci incontrammo, i miei primissimi ascolti erano rock. Se avessi avuto delle persone con cui confrontarmi, lì dove stavo, probabilmente avremmo fondato una band. Essendo da solo, e scoprendo questa cosa della musica elettronica che potevi farla anche da solo, anzi, era pure meglio, ci sono entrato completamente dentro.
Se penso a quella zona geografica lì però mi vengono in mente realtà come prima la Cayenna e poi l’Hangar, a Feltre, dove c’era un focolaio di super-appassionati, magari sul versante più estremo, quello dei rave, degli illegali… Erano spazi occupati, molto legati alla controcultura.
Ovviamente ci andavo. Ma ero ancora più affascinato a quel tempo da quello che succedeva in un’altra provincia a Pordenone. Lì c’era un approccio molto più punk, nei suoni, ma soprattutto c’era un fervore incredibile.
Beh caspita, a Pordenone c’era l’onda lunga del Great Complotto, ci credo che ne eri affascinato.
Ma la vera epifania, ovvero quando ho veramente capito quello che volevo fare, è stato il Movida a Jesolo. Estate 1989. Ero ancora un ragazzino. Ci andai perché ero con questo mio amico che faceva il dj in un altro locale della zona, quindi insomma era ammanicato, e lui mi fa “Senti, ha aperto ‘sto nuovo posto, andiamo a vedere che roba è, non ti preoccupare per l’ingresso perché ci penso io, ho degli agganci”. Ricordo come fosse ieri il momento in cui sono entrato: improvvisamente, mi sono trovato immerso in una musica che non avevo mai sentito prima. Mai! Vedi, quelli erano ancora gli anni in cui regnava un certo tipo di dance, molto commerciale, molto anni ’80. Entrare in un post e ritrovarsi a sentire della, boh, acid, sentire cose mai sentite prima… ti assicuro che è stato sconvolgente. Davvero sconvolgente.
Ecco, questo è un punto interessante: all’epoca techno e house erano una esperienza profondamente alternativa e minoritaria in campo dance, erano qualcosa di “alieno”; oggi invece ne sono il mainstream, la regola assoluta, sono i generi musicali che dettano legge (e che fanno pure i numeri). Cosa abbiamo perso e cosa abbiamo guadagnato, in questa evoluzione?
Di sicuro abbiamo perso tanto. Ad esempio, l’emozione di entrare per la prima volta in un club che conoscevi solo per il passaparola delle persone: non c’erano siti, non c’erano foto, non c’erano video, non c’era nulla di nulla. Era tutto ignoto, misterioso, magico. Un’emozione completamente diversa rispetto a quelle che puoi vivere oggi. Sia chiaro: ci sono alcuni aspetti di quello che viviamo oggi che sono molto, molto migliori rispetto a quelli di venti, trent’anni fa. Oggi c’è una professionalità che un tempo ci si sognava, ci sono degli eventi pazzeschi ed incredibilmente ben fatti e spettacolari che prima erano semplicemente inimmaginabili, e questo un po’ in tutta Europa, non solo nei “soliti” posti, nelle solite capitali. Ma quando vai ad un festival, anche quando è il più spettacolare ed incredibile, in qualche maniera arrivi sapendo già cosa ti troverai di fronte, arrivi già “preparato”. E questo un po’ mi spiace, è una magia in meno. Pensa che io ancora oggi se so che vado ad un concerto cerco di non ascoltare il materiale della band in questione per riuscire, così, a farmi sorprendere quando li sento suonare sul palco.
Cosa possono fare gli artisti, per migliorare questa situazione e magari tornare ad immettere un po’ di magia in ‘sta faccenda?
Eh, cosa possono fare… intanto pensare a fare della buona musica (risate, NdI)! Allora. Mi è capitata una cosa molto strana, qualche giorno fa: in un momento un po’ di nostalgia e malinconia, stavo rimettendo a posto un po’ di cose molto vecchie dei miei archivi – sono abbastanza puntiglioso, tengo un po’ tutto quello che ho fatto e sì, mi piace averlo in ordine – e nel rimettere le mani su alcuni nastri fatti da me del 1991, 1992 mi sono messo a riascoltarli. Ne facevo uno al mese; dodici all’anno, quindi. Ho ascoltato quindi più di una ventina di cassette, tutte da un’ora, e… ci credi che in ogni singola musicassetta c’erano almeno quattro o cinque hit? Brani che risenti ancora oggi e dici “Ah, caspita, sì, certo, questa ancora oggi spacca tutto se la metti su”? Il paragone coll’output odierno del mercato è, onestamente, imbarazzante. Io non voglio sembrare e nemmeno essere troppo critico, ma temo davvero che della roba che esce oggi resterà molto poco, negli anni. E parlo nello specifico della musica da club. Abbiamo degli ottimi tool, questo sì, suonano da paura, ma appunto – sono tool. Non è come un tempo, quando prendevi le compilation Cocoon e andavi proprio a cercare questa o quella traccia; oggi è tutto più indistinto, più “medio”. Io ancora oggi cerco la canzone, cerco la traccia che abbia una sua narrativa interna proprio dall’inizio alla fine, anche perché nei miei dj set mi piace molto “rispettare” le tracce, suonarle il più possibile come sono dall’inizio alla fine. I tool ogni tanto li uso anche io, certo, ma sono solo momento di raccordo di uno o due minuti, non di più.
“Per essere artisti, non basta dirselo da soli”
A proposito di tool e dj set da costruire, per lavorare a “Reflections” – disco non da dancefloor – cosa hai dovuto intenzionalmente cambiare qualcosa nel tuo workflow creativo, qualcosa delle tue abitudini? O nemmeno c’hai pensato, e ti è venuto fuori così, in maniera molto naturale e senza pensarci?
E’ stato tutto molto naturale. Sai, prima, visto come è decollata la mia carriera negli ultimi anni, ogni volta che entravo in studio il tempo era poco, era contingentato. Sì, ci passavo metti due, tre giorni alla settimana, dal martedì al giovedì diciamo (perché poi arrivava il weekend e le date in giro), ma anche quando eri lì eri comunque distratto da mille cose: mail di lavoro da controllare, voli su cui fare un check, cose legate alla mia label. Il tempo realmente “buono” che rimaneva quindi era poco, e allora che fai? Lo utilizzi per qualcosa che ti serve qui&subito, ovvero le tracce da dancefloor, le tracce da suonare immediatamente per lavoro, per le date prossime venture. Ne fai un paio, diciamo tre, qualcosa insomma sufficiente per far uscire un EP; le testi in pista, pochi giorni dopo; le ritocchi poi dove ti sembra sia necessario, per renderle efficaci al 100%; se funzionano e quando funzionano, poi le fai uscire. Una routine alla fine abbastanza noiosa e prevedibile. Non ragioni – non ne hai proprio il tempo – come se dovessi fare una cosa ad ampio respiro, tipo un album, non ti ci avvicini nemmeno. “Reflections” invece è nato come dicevamo da una situazione dove, per almeno due mesi, non avevo nessun impegno, nessuna data in arrivo, nessuna traccia da pista da preparare. Ne ho approfittato pensando finalmente a scrivere una musica che andasse al di là di certe regole, che si prendesse il tempo per sviluppare armonie e melodie. Sono molto contento di fare questa intervista perché sì, sono perfettamente consapevole che “Reflections” è un disco che potrebbe anche non essere capito da molti miei fan. Sappiamo come sono… “Oddio, che fai, hai mollato la techno, ma com’è possibile, come puoi…”. Sappiamo che può funzionare così. Allora, c’è una cosa importante da dire.
(il primo video estratto da “Reflections”; continua sotto)
Vai.
Io, in questi mesi, sono stato molto lontano dai social per un paio di motivi. Per dire: ho visto molti colleghi che, soprattutto nelle prime settimane, erano diventati invece attivissimi, sempre pronti a fare dj set on line, post, video, eccetera – un grandissimi attivismo, una grandissima voglia di esserci, di farsi vedere, di far sentire il proprio punto di vista. Non li critico, ma non è stata la mia scelta. Il mio ragionamento è stato: è un momento di crisi, crisi vera per tutti, e allora preferisco mettermi in disparte piuttosto che stare lì a pubblicizzare me stesso, le cose che faccio, o provare a sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che nei club non ci sia più musica – perché in quel preciso momento, all’esplodere della pandemia, i problemi veramente gravi erano purtroppo altri, secondo me. Noi dj un minimo conosciuti poi dobbiamo sempre ricordarci che siamo dei privilegiati… qualche volta si perde di vista questo dato di fatto. Quando ci si diceva “Eh, ma la gente è a casa, ha voglia di sentirci, gli teniamo compagnia, hanno bisogno di noi!” beh, sarò sincero, mi sembrava più una scusa che altro. Non c’ho mai creduto troppo. In tanti mi hanno cercato, anche organizzazioni molto grosse, ma a tutti ho risposto “Non prendetela sul personale, non vi offendete, ma non trovo il senso di fare un dj set da casa”. Farlo per cosa? Qual era il fine ultimo? Fare pubblicità a me stesso o all’organizzazione che metteva su lo streaming? Non so se fosse così, ma di sicuro poteva dare l’idea di esserlo. E in un momento grave come quello dell’esplosione di una pandemia, beh, ho pensato fosse invece più opportuno il silenzio. Ribadisco: non critico chi ha fatto altre scelte. E’ perfettamente legittimo. Sto solo spiegando il mio punto di vista. Ognuno fa quello che ritiene giusto. Quello che ho ritenuto giusto io, è stato usare questo stop improvviso e collettivo per mettermi finalmente a fare musica come da tempo desideravo fare e, invece, non avevo proprio il tempo di fare. Non ci sono doppi fini, da parte mia. Non ci sono messaggi nascosti. Non sono io che voglio fare chissà che. Se capite le mie intenzioni, bene. Se non le capite, pazienza. Sarò molto onesto: in un momento diverso da questo che stiamo vivendo, con eventi davvero storici che per mesi hanno rivoluzionato la nostra quotidianità, un album come “Reflections” avrei avuto più paura a pubblicarlo. Ora invece era il momento giusto.
Aspetta aspetta: addirittura “paura”?
Sì. La realtà è che uno può dire quel che vuole, ma farsi scivolare addosso le critiche non è mai così semplice. Siamo umani, siamo artisti: ci piace ricevere dell’apprezzamento per quello che facciamo. Se dicessi “No, non me ne frega niente di quello che dice la gente su quello che faccio” sarei ipocrita. Io spero che “Reflections” piaccia. Magari piacerà ad un pubblico diverso da quello mio solito; e anche questo sarebbe un risultato interessante.
“In un momento grave come l’esplosione di una pandemia, ho pensato fosse più opportuno il silenzio”
Secondo te la techno in che fase storica è, parlo naturalmente di quello che si sentiva in giro prima del lockdown?
Credo ai suoi massimi. Anche perché oggi la parola “techno” racchiude in realtà molte cose. C’è quella originaria, quella di Detroit; c’è la techno che andava forte a cavallo del nuovo millennio, quella molto veloce, oltre i 135 bpm (che, lo ammetto, non ho mai apprezzato tantissimo); c’è poi quella stile Drumcode, che magari per i puristi non è manco “techno”, ma invece non bisognerebbe mai disconoscerne il ruolo e l’utilità, ad esempio quando riesce a traghettare chi si è approcciato alla musica da dancefloor con l’EDM e viene preso per mano a scoprire cose più “nostre”, in questo la Drumcode fa un gran lavoro, quindi anche lei non la criticherei, anzi. Insomma, c’è di tutto, ed è pure il positivo che ci siano sempre più protagoniste femminili nella scena, così finalmente si riequilibra un po’ il rapporto tra donne e uomini, che era completamente sbilanciato. Per quanto riguarda me, per quanto nei miei ascolti personali ci sia di tutto e nemmeno solo la musica elettronica, per quanto ancora oggi ascolti con soddisfazione jazz, ambient, blues, rock e quant’altro, posso dire che da dj ho sempre preferito avere una linea facilmente individuabile, riconoscibile, chiara. Chi arriva in un club sapendo che ci sono io in console, bene o male sa cosa aspettarsi. Negli ultimi dieci anni, la direzione è rimasta costante. E’ cambiato qualcosina, magari dieci anni fa si suonava a 128/130 bpm e oggi a 132, ma siamo lì. Tutto questo però suonando cose nuove, fresche, perché la moda del momento in cui vai a recuperare per forza e di continuo delle cose di anni e anni fa, mah, non mi appartiene. Se lo fa un ragazzo di venti, venticinque anni magari lo posso anche capire: certi suoni e certe tracce per lui sono una scoperta. Per me invece sono cose già sentite, già passate, già suonate, tornarci sopra mi dà ben poca emozione. Cerco quindi qualcosa di diverso, di nuovo; e se cerchi un minimo ne trovi a sufficienza, oggi. Basta impegnarsi un po’. E’ un po’ anche la linea guida che sta dietro alla mia label, la JAM.
Bravo che hai introdotto l’argomento label, stavo per farlo: che senso ha oggi averne una? Che soddisfazione dà?
Di sicuro ne dà zero dal punto di vista economico (ride, NdI)… però ne dà. Ho aperto la JAM per un semplice motivo: riuscire a dare vita a qualcosa con una sua identità, e con una precisa idea di qualità anche dal punto di vista del formato. Ad esempio, le mie release hanno sempre una copertina stampata, non si limitano alla classica busta nera o bianca; il vinile poi è a 140 grammi. Scelte che alzano moltissimo i costi di produzione, alla fine della fiera probabilmente nemmeno ci rientro, ma va bene così. Essendo io un privilegiato grazie alla mia carriera e al lavoro che faccio, sento il dovere di restituire qualcosa alla scena: contribuendo alla sua economia, immettendo un po’ di materiale che la faccia girare – e che sia comunque possibilmente di qualità, qualcosa di bello da vedere ed anche da suonare.
Insomma, del piccolo mecenatismo.
Esatto. Non puoi ragionare da mero imprenditore, su una cosa del genere. Non sta né in cielo né in terra, è un suicidio. Però, al tempo stesso resta una grandissima soddisfazione: a maggior ragione quando vedi che l’etichetta passo dopo passo cresce, aiuta degli artisti, i demo in arrivo diventano sempre di più ogni giorno (e questo significa che quello che fai è apprezzato e in qualche modo riconosciuto). Tra l’altro, fa pure piacere sentire che questi demo cercando molto di inseguire il suono di quello che stai facendo, è una forma di omaggio, lo so, anche se in realtà è forse la cosa più sbagliata da fare. Io cerco di dirlo ai ragazzi che mi scrivono mandandomi del materiale e a cui rispondo: “Mandami qualcosa di tuo, qualcosa di diverso, non mandarmi qualcosa che rientra nel filone di ciò che sto pubblicando ora“. Perché se mai decidessi di scegliere qualcosa di tuo da mettere in catalogo facendolo uscire, per un minimo di tempi tecnici questo avverrebbe non prima di due, tre mesi successivi al nostro primo contatto, e due, tre mesi possono essere tantissimi, quel suono lì che hai provato ad imitare settandoti sulle mie release potrebbe nel frattempo essere già diventato vecchio alle mie orecchie. Io cerco sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di fresco. Qualcosa che possa essere eccitante da suonare in serata. E cerco sempre di non ripetermi. Ma capisco che un ragazzino, che magari mi stima, sente le cose che faccio uscire e – come segno di omaggio e di apprezzamento e magari anche come modo di farsi notare – cerca di fare qualcosa di simile, come suoni. Ok. Lo capisco. Solo che non è il metodo migliore.
“Oggi c’è chi ha lo stesso successo a livello numerico dei, che so, Chemical Brothers, e tutto questo senza avere nemmeno un album alle spalle, solo qualche EP e sì, avendo una grandissima spinta sul web. Ti pare normale? Ti pare corretto? Non voglio far nomi; ma penso siano chiari a tutti”
A proposito di ragazzini e nuove abitudini, il fatto che una buona strategia sui social network sia diventata un fattore così importante è una notizia buona, una cattiva o semplicemente neutra?
Onestamente: non la vivo molto bene, questa cosa. Io, per mia scelta, non ho management, non ho un gruppo di PR media che lavora per me. Seguo tutto da solo. Capisci insomma perché ti dicevo che di regola anche quel poco tempo speso in studio era sempre interrotto da mille distrazioni e mille urgenze… le date, i voli, l’etichetta… Ad ogni modo: il fatto di usare i social per promuovere se stessi e la propria musica è una cosa che funziona, perché sì, oggettivamente è qualcosa in grado di cambiare gli equilibri e di creare dal nulla dei veri e propri fenomeni. Nulla da dire. Ma negli ultimi quattro, cinque anni si parla e si dà attenzione quasi più al gossip che alla musica, hai notato? A me questo fa male. Non è una deriva che apprezzo. Perché se ci pensi, un po’ di tempo fa c’era la musica, e c’era solo quella. Oggi c’è chi ha lo stesso successo a livello numerico dei, che so, Chemical Brothers, e tutto questo senza avere nemmeno un album alle spalle, solo qualche EP e sì, avendo una grandissima spinta sul web. Ti pare normale? Ti pare corretto? Non voglio far nomi; ma penso siano chiari a tutti. In tutte queste dinamiche, l’arte scompare. Non è un fattore. La musica che fai non è un fattore. Io credo che tutto questo sia a lungo andare molto, molto dannoso.
E’ una parentesi temporanea, una moda passeggera, o una dinamica da cui non sarà più possibile tornare indietro?
Io ho paura che sarà molto difficile tornare indietro. Io li uso i social, un minimo bisogna usarli per forza; a maggior ragione come quando nel mio caso non ti affidi ad agenzie di PR media, a management, eccetera… Insomma: in qualche maniera devi far sapere che stai facendo qualcosa, devi fare un po’ di comunicazione e promozione. Continuano a farlo pure i Rolling Stones, per quale diavolo di ragione dovrei non farlo io? (ride, NdI) Insomma, ci convivo con questa situazione, ma non posso certo dire di esserne un fan. Non lo nascondo. Non è una situazione felice. Poi guarda, anche per gli artisti non è facile farsi notare, non sono in una situazione semplice, non tutti sono Jeff Mills, Richie Hawtin, Aphex Twin – io per primo non lo sono – e quindi non tutti sono dei geni capaci di mettere d’accordo tutti con la sola forza di un album, senza bisogno di altro. Ma pure loro, sai: le ultime cose veramente rivoluzionarie loro di quando sono? Esattamente come nel rock, mi pare che anche nell’elettronica sia un po’ tutto fermo, ma forse semplicemente perché ormai sono state esplorate quasi tutte le vie. Certe volte l’unico modo per essere al cento per cento originale significa diventare semplicemente inascoltabili, ma non mi sembra proprio una soluzione, no? Svolti davvero quando riesci a fare qualcosa di nuovo, qualcosa di originale, ma lo fai così bene da riuscire a conquistare non solo la nicchia di appassionati ma un pubblico più generalista: ecco, il vero genio è chi riesce ad arrivare a tanto.
Ci riescono in pochissimi.
Avrei tantissima voglia – credimi, sono anni che lo sto aspettando – di sentire un album o una traccia che mi faccia dire “Cavolo, eccolo qua, ecco la cosa che segna uno spartiacque”. Quello che insomma mi era successo sentendo i Chemical Brothers, o i Prodigy. Progetti che arrivano dall’underground, ma che fanno qualcosa di così potente da poter contrassegnare un’era, cambiando le regole del gioco del momento.
Se ci pensi, temo che ormai non succeda da almeno vent’anni. Chiaro, dal 2000 in poi non è che siano mancate le hit o le mezze hit, ma nulla che abbiamo definitivamente generato nuovi alfabeti sonori.
Vero. Verissimo. Prendi anche l’ultimo album dei Daft Punk: bello, bellissimo, prodotto divinamente, c’è Nile Rodgers, c’è Pharell Williams, però lo senti e ti dici “Sì, ma Jamiroquai questo lo fanno da tempo e pure un po’ meglio”. Il che non significa voler abbattere la figura dei Daft, perché loro sono e resteranno per sempre dei giganti, quello che hanno fatto è nei libri di storia e sempre lì rimarrà. E verso chi fa la storia, è sempre necessario avere il necessario, profondo rispetto.
In generale però mi sembra che tu, rispetto alla scena del clubbing e della musica elettronica, ti senta comunque un po’ un outsider. Come se non volessi sentirtene protagonista.
Un po’ sì. Credo che sia per il tipo di corso, abbastanza atipico, che ha avuto la mia carriera. Onestamente: non conosco altri artisti che siano arrivati al “successo” – virgolette d’obbligo, via – così tardi come me. Credo stia tutto lì.
Nel senso: sei uno che si pone delle domande sul proprio ruolo e sul proprio privilegio e, in tal senso, si pone pure dei dubbi. Non sono in tantissimi a farlo, fra i tuoi colleghi di un certo successo.
Credo di essere semplicemente obiettivo. Anche perché senza obiettività so che non potrai mai andare avanti: non potrei progredire, non potrei fare delle cose realmente interessanti. Essere autocritici è fondamentale. Io lo sono a tal punto che negli anni ho accumulato un mare di progetti incompiuti o mai pubblicati nei miei hard disk, cose che magari non avevo il coraggio di far girare perché un po’ atipiche. Torniamo al punto: io ho iniziato a farmi davvero notare solo negli ultimi dieci anni, e anzi solo negli ultimi cinque le cose hanno iniziato ad andare davvero bene. Però ecco, questo significa che quando mi sono accorto che finalmente qualcosa si stava muovendo davvero, sono stato attentissimo a non sbagliare nemmeno una mossa: ho sofferto e fatto fatica per anni ad essere notato e ora che finalmente mi stava accadendo, di essere sull’onda giusta, non potevo permettermi di perdere il “momento”. Un conto è se hai vent’anni, ed hai una vita davanti a te; un conto è se ormai ne hai quaranta o giù lì e non potrebbe esserci il tempo per una seconda occasione. Quando ti ritrovi finalmente nella condizione di avere un minimo di visibilità, perché qualcuno di “importante” si è accorto di te, devi riuscire a catturare definitivamente e realmente l’attenzione del pubblico: eas quello lo fai lavorando in modo chiaro, costante. Senza mandare segnali contraddittori.
Ora ti puoi rilassare un po’ di più, dai.
Sì, ma l’autocritica resta importante. Io ogni volta che finisco una traccia, un progetto, mi faccio cento domande e faccio sentire il risultato finale a persone di cui mi fido. Molti ragazzi mi mandano delle cose che, sinceramente, non hanno né capo né coda: è chiaro che non hanno né la capacità di giudicare se stessi, né hanno avuto l’accortezza di confrontarsi con persone di fiducia sensate, in grado di consigliarle davvero. Ed è un problema. Per essere artisti, non basta dirselo da soli