Vi abbiamo già parlato di San Diego di recente, quando era ancora uno sconosciuto che aveva messo su Youtube quattro tracce che ci avevano colpito. Oggi esce il suo primo album, “Disco”, che contiene le quattro tracce con cui ci aveva rapito più altre cinque sulla stessa lunghezza d’onda: in particolare “Aquagym” ci fa letteralmente impazzire e, se dovesse proiettarlo verso un successo anche radiofonico e più ampio non ci stupirebbe per niente. Data la passione nei suoi confronti, non potevamo assolutamente lasciarci sfuggire l’occasione per un’intervista esclusiva con lui, in cui l’alone di mistero che circonda il personaggio rimane, ma siamo riusciti a gettare un po’ più di luce su uno dei progetti italiani più interessanti degli ultimi tempi.
Chi è la persona (o le persone) che c’è dietro San Diego?
E’ un progetto solista, ma devo ringraziare Francesco “Katoo” Catitti per tutto il lavoro svolto insieme in studio e fuori, fondamentale per questo disco. Ci siamo divertiti parecchio.
Raccontaci “Disco”: che disco è? A chi pensi che possa piacere?
Può sembrare scontatissimo ma “Disco” piace innanzitutto a me. L’intento era ed è di parlare ad altri e non mettere necessariamente la mia persona e il mio vissuto al centro, ma è da quando ho approcciato alla musica che desideravo pensare e creare qualcosa che mi soddisfacesse, che mi sarebbe piaciuto ascoltare da fruitore musicale. Questo appagamento può anche quindi arrivare a qualcuno che, come me, gode del risultato ottenuto. “E’ tutto quello che vi piacerà”.
La maggior parte delle tracce di “Disco” sembra ruotare attorno a un’idea sonora forte, penso ad esempio al lead principale di “Meteo” o alla voce femminile che dice “ore” in “Paperopoli”: da dove raccogli le ispirazioni per queste idee?
In alcuni casi le ispirazioni sono più che altro suggestioni figlie dei mass media con cui in Italia abbiamo convissuto nel corso degli anni, visioni sonore che quasi tutti hanno assorbito. Uno può averle ripudiate, amate o entrambe le cose, ed è proprio su questo eventuale dubbio che volevo andare a parare.
E più in generale, qual è il tuo background? Da dove arrivano le tue scelte musicali?
In questo caso arrivano da un mondo più concettuale che non da effettivi gusti musicali. Credo non ci sia un disco vicino alle mie sonorità che io apprezzi dall’inizio alla fine, al massimo singole tracce o canzoni ma non è questo il punto; i miei ascolti preferiti vanno dall’hardcore al jazz, per dire, ma trovo affascinante ed esplicativo (oltre che nelle mie corde) cercare di far passare una percezione direttamente dai suoni che la contraddistinguono, implicitamente, piuttosto che parlare di qualcosa trovando anticipatamente o successivamente il mezzo con cui farlo. È uscito fuori questo risultato, ed è stato spontaneo.
Sia dal punto di vista sonoro che estetico, è inevitabile associare il progetto San Diego al vaporwave, che in Italia sembra essere più vivo che mai e che proprio su Soundwall abbiamo trattato estensivamente: ti senti in qualche modo parte di questa scena? Che legame hai, in generale, con l’//a e s t h e t i c a vaporwave?
Il legame è indefinito. Non ho mai pensato di produrre musica vaporwave o di rifarmi ad una precisa estetica, ma del fenomeno apprezzo sicuramente il lato politico (quando c’è), etereo, viscerale, ed è comunque interessante esplorarne i meccanismi e le atmosfere. Non sentendomi parte di una scena, il mio può essere considerato più che altro un omaggio a posteriori.
Di contro, non possiamo fare a meno di associare mentalmente la tua musica anche a un certo tipo di indie italiano, soprattutto nelle scelte lessicali dei testi. Ci sono artisti italiani attuali a cui ti senti particolarmente vicino, a cui ti ispiri o con cui ti piacerebbe collaborare?
Ho stima di molti cantautori italiani contemporanei, volendone citare qualcuno in particolare ti direi di getto Iosonouncane, Giovanni Truppi, Cosmo. E poi c’è Paolo Conte, che appartiene ad un’altra categoria, e che è sempre attuale, forse proprio perché non lo è stato mai.
Parlando di testi, ho notato una certa tendenza ai giochi di parole nei tuoi testi, come “guardo il meteo e me e te siamo soli e nuvole”, o all’uso delle allitterazioni, tipo “non ho più niente da dire o da dare, nemmeno da piangere o da desiderare”, insomma i tuoi testi sono molto ben scritti e sembrano frutto di un lavoro certosino: è così, o escono di getto? Quanto lavoro di raffinamento c’è dietro?
Ti ringrazio, in realtà escono di getto, quasi a caso, o comunque inconsciamente. Mi piace molto giocare con le parole anche nella vita di tutti giorni, e spesso dal gioco nasce fuori qualcosa di senso compiuto che mai sarei risuscito ad esplicare in altri modi.
Ascoltando “Disco” ci siamo fatti l’idea che tu raccolga idee e ispirazioni dalle fonti più disparate: cosa fai quando non suoni o scrivi canzoni?
Il fatto è che lo faccio sempre in qualsiasi posto e momento possibile, anche il più estremo e fuori luogo. Appunto frasi e soprattutto registro continuamente melodie sul telefono, disinteressandomi totalmente di fare figuracce in mezzo alla gente o che comunque non sia il momento adatto. Quando ho un’ispirazione devo fissarla, l’idea di dimenticarmela per sempre mi fa stare malissimo. Quindi sostanzialmente non c’è mai un “non scrivere” e “non suonare” effettivo, ma quando sulla carta non lo sto facendo davvero, lavoro comunque nella musica.
Dalla fine di novembre porterai “Disco” in tour: cosa possiamo aspettarci dalle tue esibizioni live?
Cercheremo di proporre uno spettacolo che renda il più possibile a livello sonoro e di impatto; con me due grandi amici e musicisti, che seguono il progetto da quando è nato: Andrea Messina e Antonio Calitro.
Infine, so che subito dopo l’uscita del tuo primo album magari non ci pensi, ma cosa bolle in pentola per il futuro?
Ho già scritto altre cose, magari le mastico un attimo prima di decidere se sputarle o mangiarle.
[Photo credits: Maria Tilli]