Restaurazione. Non che ci fossero chissà quali aspettative, sia chiaro: Sanremo non diventerà mai l’Unsound o il Sónar, non è nemmeno giusto che mai lo diventi (anche perché lo diventasse, a primi ad esserne infastiditi sarebbero gli ultrà più intransigenti di Unsound e Sónar), per carità. Stupido chi lo spera, o lo pretende. Ma quello che è successo in questa edizione 2023 è un po’ triste, per certi versi anche inaspettato: una marcia indietro. Una incredibile ventata di “vecchiaia interiore”, che annulla completamente l’effetto positivo del ricambio generazionale. Che sì, c’è stato in questi anni, chi lo nega è in malafede: sono arrivati nelle ultime edizioni nuovi nomi, nuovi protagonisti, nuovi punti di riferimento. Oh sì. Solo che invece di cambiare loro Sanremo, la brutta notizia di quest’anno è che accidenti, è stato semmai Sanremo a cambiare loro. Niente rivoluzione, nemmeno riformismo, nemmeno moderata evoluzione: vince la restaurazione.
L’unica cosa che davvero è cambiata è che Sanremo, per mille motivi e per l’abilità professionale di mille persone, è riuscito a diventare rilevante anche per chi non frequenta più la televisione e vive e consuma cultura ed intrattenimento solo sul web. Questo sì, questo è successo davvero, ed è un risultato da non dare assolutamente per scontato. Il Festival rischiava infatti di diventare via via sempre più una crociera per anziani, un detrito del passato; una stella luminosa che diventa stella cadente prima e meteorite destinato a spegnersi poi. Era una creatura televisiva, Sanremo, anzi, era il suo massimo manifestarsi: è riuscito a mantenere le posizioni – i dati di share lo dimostrano – ma al tempo stesso pure ad espandere e consolidare il suo fascino dell’essere baraccone, storia popolare, caravanserraglio circense anche oltre i confini del catodo, entrando nei meccanismi dell’engagement, dei meme, dei tweet, dell’umorismo pronto-uso lungo lo spazio di un post o di una story.
Mica facile. Mica scontato.
Per un attimo si è pensato – e in questo tranello ha rischiato di cadere anche chi vi scrive – che questa capacità fosse dipesa anche dal rinnovamento musicale che c’era stato: dal fatto che si passava finalmente dai Minghi ai Coma Cose, da Barbarossa a Mahmood, eccetera eccetera; insomma, i personaggi che – anche non per colpa loro – venivano visti come mummie scongelabili una volta all’anno per esistere solo sulle tavole dell’Ariston erano sostituiti da chi era rilevante per davvero nel qui&ora, da chi nasceva dal basso, dal passaparola dei ventenni, dalle view su YouTube e dalla condivisione nelle chat, dalla forza di saper descrivere il presente e non invece regnare in un eterno regno del cantautorato classico e/o del pacchiano sentimentale senza tempo, spesso fusi insieme. Già: pensavamo che il Sanremo che riesce ad essere rilevante transgenerazionalmente e crossmedialmente fosse merito prima di tutto di questa cosa qua. Della capacità di essere attuale musicalmente, della voglia di essere sincronizzato con ciò che è nuovo, attuale, vitale. Un processo iniziato con Fazio, con l’edizione dei Subsonica e del maestro Gurian ancora senza capelli grigi, portato avanti con qualche stop and go, ma decisamente rinforzato nei primi anni dal regno Amadeus.
Sanremo 2023 ha sancito che tutto ciò era più wishful thinking che vera verità. Tristemente, era wishful thinking.
L’impressione netta, infatti, è che lo spirito e la dinamicità del contemporaneo, dell’attualità, del rinnovamento, del cambio di sensibilità e di generazione in questo 2023 sia andato a scagliarsi contro il monolitico iceberg di “Sanremo”, inteso come entità suprema ed immanente. Venendo, se non sbriciolato, almeno diciamo pesantemente trasfigurato. Dicendola in termini più semplici, e senza metafore: speravamo fossero le nuove musiche a cambiare (migliorare) Sanremo, che resta e resterà un gigantesco “focolare collettivo” attorno a cui riunirsi, discorrere e divertirsi, invece è Sanremo che ha sterilizzato (peggiorato) le nuove musiche.
Non basta infatti la spolverata di Dardust (che è bravissimo, meno male che c’è lui, sennò la situazione sarebbe davvero deprimente), o qualche altro isolato atto di (semi)coraggio artistico e sonoro: la verità è che Sanremo, quest’anno come mai, è diventato l’esatto contrario del ritratto di Dorian Gray. Chi in Sanremo ci entra, improvvisamente diventa vecchio: vecchio nei modi, vecchio nei riferimenti, vecchio nella paura di rischiare, vecchio perché preferisce guardare indietro che guardare avanti. Non era così nelle edizioni passate, o non era così marcato e pervasivo. Quest’anno, invece, è drammatico.
Ecco degli esempi, sotto forma di domanda. Perché Lazza abbandona del tutto l’hip hop, e si mette a fare una canzone al 100% sanremese nei contenuti e nelle aperture melodiche del cantato? Non è che sia una brutta canzone, anzi, è fatta gran bene; ma il dato di fatto è che una volta entrato a contatto con Sanremo, Lazza ha scelto di snaturarsi quasi completamente. Perché?
E poi ancora: perché Tananai, che pure ha imparato a cantare bene ed anche nel suo caso la canzone in sé non è male, quest’anno sembra lo zio di se stesso? Perché i Coma Cose, che amiamo e quest’anno meritano secondo noi il primo posto per stile ed intensità, più partecipano a Sanremo più si rifugiano nella canzone “classica”, lineare, senza giochi di parole generazionali e particolari? Solo un caso? Perché gli Articolo 31 non sfruttano la reunion e Sanremo per fare qualcosa di hip hop veramente – ce l’avrebbero nel sangue – ma tirano fuori una riedizione del repertorio più nazionalpopolare degli 883 di vent’anni fa? Perché Mengoni, che ehi potrebbe fare quello che gli pare tanto raccoglie elogi e gridolini in automatico, fa una canzone che se la ascoltate bene sembra di suo nonno e sarebbe cantabile tipo da Claudio Villa? Perché Mr- Rain sembra il parroco buono al Grest, che insegna tante cose buone ai bimbi? Perché Mara Sattei usa suo fratello e le sue sensibilità per cantare una roba melodrammatica che sembra fatta decenni fa? Perché Ultimo è sempre più Massimo Ranieri e Renato Zero, e sempre meno quello di Honiro? Perché Colapesce e Dimartino, bravi bravi anche quest’anno, nostri vincitori ex aequo con Coma Cose, sono sempre più Battisti e Modugno e sempre meno Pavement e Sufjan Stevens?
…e non facciamoci poi illudere da chi usa la cassa in quattro. Sanremo ha ammosciato completamente la competenza tecnica di Merk&Kremont, che per Paola & Chiara hanno tirato fuori il loro pezzo più vecchio, inattuale, pacchiano e poco tecnicamente rifinito. Sarà un caso? Levante invece ha provato a buttarla sulla dance epica, ma si è persa infilandosi in un ritornello forzato e lagnoso (musicalmente, eh, non per il contenuto) e, in generale, in una canzone senza grazia e senza carisma.
Il paradosso vero è che Giorgia quest’anno sembra la più moderna e contemporanea di tutti e tutte, quando in realtà il suo è un brano clamorosamente vintage, in cui Fish rispolvera il suo amore per un certo tipo di r’n’b primi anni ’90. Read my lips: primi anni ’90, aka trent’anni fa. Alla fine il pezzo più moderno è quello dei Cugini di Campagna: ma non è un problema, loro iconograficamente sembrano ancora conficcati nel passaggio tra anni ’70 ed anni ’80 quindi disinnescano ogni sentore di novità. Ma del resto la stessa Rappresentante Di Lista oltre la disco, una volta entrato a Sanremo (prima come protagonisti, ora appunto come autori), non ci vuole andare; e la disco, ricordiamolo, era la musica che ballavano i nostri genitori – e se noi la balliamo ora, è per citazionismo e retromania.
Ecco quindi che Sanremo 2023 si sta insomma rivelando un ritratto di Dorian Gray al contrario: chi vi si specchia, chi ci entra, diventa improvvisamente più vecchio. Più vecchio nel modo di porsi; più vecchio nello stile, più vecchio nel pensiero, più vecchio nella refrattarietà a rischiare e ad imporre la propria personalità.
Non è un bel segnale.
Non sappiamo se sia colpa di Amadeus – che per quanto giovanile resta un signore di sessant’anni, e comunque Morandi sembra più giovane di lui in spirito – o delle major che “suggeriscono” ai propri artisti di non far mattane ed accontentarsi dei maquillage di Dardust; non sappiamo se invece siano proprio gli stessi artisti e i loro staff ad essere drammaticamente privi di coraggio e di personalità: sentendo cioè che Sanremo è “l’occasione della vita” o comunque almeno quella “dell’anno” per dare una bella botta ai fatturati, vogliono scegliere la via più facile e sicura, “Non scherziamo, non corriamo rischi inutili, non buttiamo in vacca questa fantastica occasione”.
Ma d’altro canto, quando vedi pure Salmo prestarsi inspiegabilmente ad una pubblicità triste come quella di Costa Crociere, capisci che è un problema diffuso, quello della mancanza di coraggio e della voglia d’imporsi. Guardare ai ventenni? Inutile: diete infinite di “musica televisiva” come Amici ed X Factor, diventati il trampolino di lancio delle carriere molto più delle riviste specializzate (ormai inesistenti) e dei concerti di base (sempre più martoriati, in favore di festival e grandi eventi), hanno evidentemente fatto danni, tanti danni. Il già citato Tananai, Sangiovanni, gIANMARIA, Will, Sethu, Colla Zio: tutti bravini, simpatichini ed a modo, per carità, ma tutti precocemente invecchiati, e col coraggio di chi, in realtà, sta aspettando che arrivi una onorevole pensione, invece di essere lì a voler cavalcare i draghi e sovvertire le cose e le gerarchie.
No. Non è un bel segnale. È restaurazione. Quel che è peggio, pacifica ed esplicitamente voluta; non sanguinosamente imposta. Ahia.
Per tutto il resto, e per un piccolo libero sfogo di irregolarità, ci sono le rose martoriate e gli ear monitor di Blanco. Poco. Troppo poco.