E’ ormai entrata a regime “Blocco 181”, stasera in onda la terza e la quarta puntata. Sì: quella che da più parti era stata spacciata come la-serie-di-Salmo, visto che ormai l’MC sardo alza sempre più il livello della sfida e, apparentemente, non si accontenta più della musica (…o per la musica, vuole gli stadi: appuntamenti a San Siro il 6 luglio). Ma le cose non stanno esattamente così. Per i più distratti, ecco un agile sunto: su Sky, con un team di regia composto da Giuseppe Capotondi, Ciro Visco e Matteo Bonifazio e con nei ruoli principali Laura Osma, Alessandro Piavani e Andrea Dodero, è iniziata dal 20 maggio – con la cadenza iniziale di due puntate a settimana il venerdì, niente binge watching – quella che in effetti non è “la serie di Salmo”, lui non è né regista né attore principale. Ma in effetti in questa serie Salmo ci recita, ne ha curato la colonna sonora (e attenzione alla scelta della parola: “curato” non è casuale), c’ha messo comunque più di un opinione in mezzo.
Tant’è che alla conferenza stampa di presentazione di una settimana fa l’attenzione dei giornalisti presenti l’ha abbastanza monopolizzata lui, le domande erano quasi tutte per lui e, insomma, il “salmocentrismo” è stato abbastanza marcato. Lui non si è sottratto; ma al tempo stesso ha spiegato come tutto questo suo coinvolgimento nasca da una mancata partecipazione ad X Factor, eccallà X Factor (corteggiatissimo da Sky come giudice per il programma alla fine è riuscito a tenersene alla larga, ma è nata una buona amicizia in primis con Nils Hartmann, uno dei plenipotenziari di Sky Italia), e ha svelato come sì, il cinema l’abbia stregato, tant’è che sta lavorando da un po’ a quello che – stavolta sì – sarebbe davvero “il film di Salmo”. “E’ qualcosa di grosso, non vi posso anticipare nulla. E’ una storia che parte dagli anni ’90, nasce da faccende vere e, vedrete, creerà un casino”. Ok. Aspettiamo.
Intanto però c’è “Blocco 181”. Abbiamo visto le prime puntate in anteprima poco prima della messa on onda e, sì, ci siamo già fatti un’idea. Pascolando per il web troverete riassunti più circostanziati della trama e di chi fa cosa, tra i personaggi. Noi vi diamo giusto le coordinate: il tutto è ambientato a Milano, nel sottobosco della micro (e medio) criminalità, tra comunità latino-americane, ceppi calabresi, bassa manovalanza illegale locale; l’ambientazione principale sono le periferie (ma non manca di comparire anche la Milano-bene dei rampolli d’alta borghesia, e le zone franche del clubbing dove sul dancefloor mille storie si intrecciano); c’è la violenza, ma c’è anche la storia d’amore – con quest’ultima che però è parzialmente atipica (aka, il triangolo sì: “Jules e Jim” trapiantato nel ventunesimo secolo metropolitano ed incattivito).
(La bella gente di una brutta Milano; continua sotto)
Una cosa salta subito all’occhio, ed è importante, anzi, forse è proprio la più importante: era da un pezzo che Milano non veniva narrata così. Mentre scorrevano le immagini della prima puntata e ci dicevamo quanto fosse discretamente credibile tutta l’ambientazione e quanto certe periferie odierne di Milano siano assimilabili alle banlieu de “L’odio” ancora venticinque anni e passa dopo, ci siamo improvvisamente resi conto di una cosa: la Milano “maledetta” dello spaccio e delle gang è stata raccontata a profusione dal rap e dalla trap, sì, ma tutto ciò è diventato talmente un cliché e una coazione a ripetere che ormai manco ci fai più caso, ti sembra “normale”. Se invece sbatti in faccia anche con l’aspetto visuale cosa significhi tutta questa “maledizione”, e lo fai in modo sufficientemente credibile ed efficace (“Blocco 181” lo fa), cazzo se cambiano le cose. Oh sì: cazzo se cambiano le cose.
Alla fine rapper e trapper nati o trasferitisi a Milano parlano di spaccio e periferie, sì, ma ti dicono sempre – o ti fanno intuire – che il loro obiettivo alla fine è essenzialmente essere “famosi”, entrare nei “privé”, fare i soldi, sbocciare, scorrazzare in Lamborghini blu, eccetera eccetera eccetera. E’ proprio “l’aria che si respira”, nel music business milanardo più legato all’urban: dall’underground al mainstream. Tutti figli, fratelli o cugini poveri di Sfera Ebbasta (il quale resta l’unico, almeno per ora, ad aver tentato il salto di qualità diventando ricco&famoso davvero, o sperando di diventarlo: ma il “Famoso” di fine 2020 solo parzialmente all’altezza delle pantagrueliche aspettative e dei colossali investimenti e adesso l’EP per-sfondare-sui-mercati-esteri con Rvssian in cui pare più un Toto Cutugno trap, un Tiziano Ferro più fluido-colorato o una Laura Pausini meno simpatica, ecco, non depongono a suo favore, non depongono a favore di un suo effettivo spessore artistico sulla lunga distanza).
Alla fine rapper e trapper nati o trasferitisi a Milano parlano di spaccio e periferie, sì, ma ti dicono sempre – o ti fanno intuire – che il loro obiettivo alla fine è essenzialmente essere “famosi”, entrare nei “privé”, fare i soldi, sbocciare, scorrazzare in Lamborghini blu
“Blocco 181”, introducendo nella narrazione robuste dosi di realtà e soprattutto la variabile impazzita (presentissima nella vita reale…) del fenomeno delle gang latino-americane, dà invece una profondità incomparabilmente più alta e disturbante a questo tipo di scenario. Aggiungiamo: finalmente. Il nichilismo criminale non è un gioco, infatti. Fare lo spacciatore non è una rima. Prendere a mazzate le persone non è una vanteria. E con questo tipo di approccio e consapevolezza, “Blocco 181” ci catapulta clamorosamente agli anni ’90: ci catapulta a film come il già citato “La haine” di Kassovitz o a “Legge 627” di Bertrand Tavernier, stando sempre sul cinema europeo, film che a loro volta erano (parzialmente) debitori di avvincenti lungometraggi americani sullo spaccio nei hood newyorkesi (“New Jack City”, “Crooklyn”, o andando più indietro nel tempo e nella West Coast “Colors” di Dennis Hopper).
Dopo tanti teen drama fatti benissimo (“Skam” è un capolavoro), dopo un cinema italiano che ha (ri)scoperto la commedia piccoloborghese e ci ha inondati con commedie carine ed agrodolci negli ultimi anni, “Blocco 181” segna una cesura, esattamente come la cultura hip hop – ogni volta che ha agito nel reale e nel mainstream col machete, con decisione – ha sempre segnato una cesura. Non sappiamo in questo momento come sarà accolta la serie, se diventerà un culto o meno, se spaccherà anche su altri mercati televisivi o meno (i piani di Sky Italia sono molto baldanzosi, in tal senso), ma di sicuro vederne le prima puntata ha inciso sulla carne viva della nostra attenzione. Chiaro, ci sono ancora alcune cose perfettibili, ci sono delle recitazioni che potevano essere sviluppate molto meglio (ah, per la cronaca: Salmo non è il peggiore a recitare, anche se per ora nemmeno il migliore), ma nel suo complesso è una gran bella operazione. Arricchita, tra l’altro, da una colonna sonora piuttosto sugosa e convincente, a partire dal contributo cypresshilliano di Gué Pequeno in “Loco” che, signore e signori, spacca. Ma anche un Baby Gang viene contestualizzato a modo, per dire; e in generale Salmo, che è appunto una specie di “direttore d’orchestra” di questa soundtrack, dimostra davvero di saper “respirare” l’aria giusta con cui insufflare “Blocco 181”. Ha capito meglio lui Milano di altri, vedendola con occhi più cattivi e disincantati. E ha portato ad esempio Lazza a descriverla con notevole acume ed apprezzabile sincerità, togliendo merletti e sboronate inutili.