Ormai, già da qualche tempo, oltre a riportare in vita pezzi dimenticati del passato, le cosiddette “etichette di salvataggio” si sono attivate per pubblicare inediti, composti decenni addietro e mai dati alle stampe. È il caso della Minimal Wave, Medical Records, Dark Entries, VOD Records, Anna Logue Records, Peoples Potential Unlimited, Atemporal Records, Domestica e dell’attivissima Private Records che per l’occasione torna sulla musica degli Schaltkreis Wassermann. Dopo aver ristampato “Psychotron” nel 2012 (uscito esattamente trenta anni prima), la label berlinese mette le grinfie su un album che il duo di Basilea aveva prodotto in quegli stessi anni ma che è rimasto nel cassetto. Stilisticamente il lavoro si inserisce a pieno titolo nel minimal synth, descritto da Simon Reynolds in “Retromania” come «un filone apparentemente inesauribile di elettronica do-it-yourself dei primi anni Ottanta, low-budget e di norma pubblicata in proprio, spesso solo su cassetta, composto da gruppi che sarebbero diventati i Depeche Mode o i Soft Cell se fossero stati capaci di scrivere una canzone, oppure cloni dei Suicide, DAF e Fad Gadget». In questo caso però sarebbe un’ingiustizia parlare di clonazione. Agli Schaltkreis Wassermann (PJ Wassermann e la moglie Stella) spetta un posto più tra gli anticipatori che tra gli imitatori. Le loro ispirazioni giungono dal rock, dal blues e dal prog rock ma quando PJ mette le mani su un ARP 2600 cambia tutto. Il resto lo fa la predilezione per la fantascienza e non certamente a caso la loro etichetta (nata per autoprodursi) si chiamava Space-Records e il loro studio Space-Sound Studio, giusto per chiarire quanto fosse netta la propensione a fantasticare sull’onda di Isaac Asimov ed Orson Welles.
«La parola “spazio” può ricoprire molti significati. Quando ero ragazzino guardavo il cielo stellato e cercavo di immaginare la sua vastità e i miliardi di pianeti su cui poteva essersi sviluppata la vita. Da adolescente iniziai a leggere libri di fantascienza, spinto da mio padre che era un grande fan di quel tipo di letteratura, e “spazio” divenne sinonimo delle visioni fantastiche e talvolta libertarie ed anarchiche di scrittori come Robert Anson Heinlein, Alfred Elton van Vogt e Philip K. Dick. In seguito, quando la psichedelia entrò nella mia vita, “spazio” si trasformò nella parola in codice per “viaggiare”. Infine giunse il Roland Space-Echo Re-201, le drum machine Roland come “stazioni spaziali” ed altre leggendarie macchine che resero lo “spazio” la perfetta metafora per parlare di quel mondo» racconta oggi PJ Wassermann. «Negli anni è inevitabilmente mutata la nostra percezione di futuro. Nei vecchi romanzi di fantascienza il futuro era letteralmente pieno di libertà e speranze di un mondo migliore, anche se già ai tempi circolavano molte storie che suonavano come sinistri presagi su come le cose potessero prendere una cattiva piega. Quando il movimento della psichedelia fu schiacciato dai reazionari e da Reagan tutto sembrò andare nella direzione sbagliata. Negli anni Settanta la ExxonMobil sapeva già che un massiccio uso di petrolio avrebbe alterato le condizioni climatiche del Pianeta ma preferì tacere per non intaccare i propri profitti economici. Oggi ci troviamo in una posizione estremamente peggiore e purtroppo ci sono molte meno visioni di speranza. Con la militarizzazione della cultura sotto la guida dei Bush, la fantascienza ha finito col raccontare perlopiù storie di guerra, decorate dagli ossessivi effetti speciali di Hollywood volti a rendere quanto più fedele possibile il senso di distruzione».
Gli strumenti, per Wassermann, erano fonte di primaria ispirazione, non solo per i suoni che riuscivano a produrre ma anche per i design futuristici. «Nei primi anni Ottanta nel nostro Space-Sound Studio c’era un ARP 2600 col sequencer a 16 step, un ARP Avatar spesso usato come modulo sonoro, un Roland System 100m, una Roland TR-808 e il leggendario Sequential Circuits Prophet-5, tutto pilotato col Roland MC-4 MicroComposer. Quest’ultimo prevedeva che ogni nota fosse inserita attraverso tre numeri: uno relativo al pitch, uno per stabilire la lunghezza ed uno per la distanza dalla successiva nota. Insomma, un processo piuttosto noioso. Inoltre aveva solo quattro piste quindi eravamo costretti a mettere le voci e gli effetti su nastro e poi effettuare il mixdown sincronizzando l’MC-4 con la cassetta. Avevamo anche una serie di effetti, come il già citato Roland Space-Echo Re-201, un Roland phaser, flanger e vocoder, un compressore ed un equalizzatore dalle potenzialità piuttosto limitate che portava a risultati grossolani. A questi si aggiunsero il Marshall Time Modulator e l’Ursa Major Space Station ma non avevamo automazioni. Ciò significava attendere due o tre minuti mentre si eseguiva il mixaggio (col rischio di addormentarsi!) ed interagire con una serie di operazioni manuali. Ci tengo a precisare che non venivo affatto da una famiglia benestante, pagai ogni strumento grazie al lavoro svolto per colonne sonore e jingle pubblicitari. Purtroppo fummo costretti ad impiegare il 90% del tempo per questo genere di lavori e solo il rimanente 10% fu dedicato alla nostra arte. Tutti i brani furono prodotti nel nostro studio ad eccezione di “Fly With Us”, uno dei primi pezzi che scrivemmo, realizzato invece nello studio dell’Accademia Musicale di Basilea. Il manager dello studio e compositore David Johnson apprezzò molto il nostro entusiasmo e ci mise a disposizione lo studio durante le vacanze estive. Ci diede le chiavi della porta e noi finimmo col dormire in sacchi a pelo sul pavimento dello stesso studio. Dopo aver inciso “Psychotron”, nel 1982, noleggiammo un Fairlight CMI IIx per oltre cinque anni. Il costo? 1000 franchi svizzeri al mese (poco più di 900 euro attuali, nda). Col Fairlight realizzammo uno dei nostri più grossi successi commerciali, “Muh!” di Matterhorn Project, nel 1985. Era un progetto diverso da Schaltkreis Wassermann e per noi si rivelò un’arma a doppio taglio. Credo comunque che il Fairlight resti ampiamente sopravvalutato. Certo, resta il primo campionatore digitale ma con pochi secondi di durata e con una qualità sonora piuttosto scadente. Non potevamo permetterci un’interfaccia (da 5000 franchi svizzeri) per collegarlo al resto del nostro equipment, quindi realizzammo brani interamente col Fairlight ma all’orecchio di oggi non mi piacciono, suonano piuttosto “cheesy”».
Nel 1981 il singolo “Space Shuttle” finisce su CBS mentre nel 1982 “Psychotron” viene pubblicato dalla Mercury, etichetta del gruppo Universal: l’interesse di due multinazionali lascia ipotizzare un successo su larga scala per i Schaltkreis Wassermann, successo che però resta solo sulla carta. «Vivevamo costantemente nel dilemma se affidarci alla filosofia del do it yourself hippie/punk oppure lavorare con le major della grande industria fonografica che ci avrebbe garantito l’accesso ad una fetta assai più ampia di audience. Ai tempi non erano molti i musicisti che si dedicavano alla musica elettronica, infatti moltissimi ci ritennero dei folli a sprecare tempo dietro esperimenti simili, però nonostante tutto alcune etichette mostrarono interesse. Firmammo un contratto con la branch svizzera della Universal, la PolyGram, che ci convogliò sulla Mercury. Il mercato elvetico era piccolo e non molto importante, la casa madre non aveva voglia di pubblicare tutti i nostri lavori e in breve ci abbandonò. Ci riprovammo ripubblicando il disco sulla nostra etichetta (operazione atipica, solitamente si parte con l’autoproduzione seguita da eventuali ristampe da parte di case discografiche più grosse, nda), distribuita dalla Bertus olandese che però non ci pagò mai. Stessa sorte per il singolo “Space Shuttle”, stampato dalla CBS in Olanda ma destinato al mercato svizzero: non accadde nulla al di fuori della nostra nazione e non ricevemmo alcun compenso economico. Per molti anni abbiamo considerato “Psychotron” solo un sonoro flop. Non potendo contare su internet, non sapevamo quanto quel disco fosse stato apprezzato in Italia e in altre parti del mondo. Decidemmo quindi di accantonare il progetto Schaltkreis Wassermann e dedicarci a cose più commerciali, con Matterhorn Project. Col senno di poi fu un grande errore ma ai tempi eravamo molto scoraggiati. Qualche anno fa Janis della Private Records ci ha contattato chiedendoci di ripubblicare “Psychotron” e questo ha reso possibile un mio “reinserimento” nella scena contemporanea. Parte del merito però va riconosciuto anche ad Alex Gloor degli In Flagranti, che ha vissuto a New York per vent’anni facendo il DJ. Conosceva molto bene la nostra musica e quando tornò a Basilea, intorno al 2002, ci esortò caldamente di ripubblicare “Psychotron” su CD. Noi avevamo dimenticato quasi del tutto quel disco ed infatti in un primo momento mi mostrai parecchio riluttante, non mi piaceva affatto l’idea di perdere tempo con cose create trent’anni prima, ma poi mi convinsi. Probabilmente, se non avessimo seguito il consiglio di Alex, Janis non ci avrebbe mai scoperto».
Dopo circa quattro anni la Private Records decide di fare incetta dei brani inediti del duo svizzero e raccoglierli, insieme ad altri editi ma noti a pochissimi, in “SKW”, acronomizzazione di Schaltkreis Wassermann. Il disco vola nel cosmo sui suoni generati da strumenti ai tempi considerati “porte d’accesso” per il futuro. Inutile aggiungere che le parole intorno a cui tutto ruota sono proprio spazio e futuro, giusto per restare in tema con la fantascienza, e gli stessi titoli parlano chiaro come “Fly With Us”, immersa in atmosfere da guerre cosmiche, “Space Symphony”, in battuta rallentata, la rumorista “Lux” e l’imparentata “Space Lux” con dosaggio di melodia non così lontana da “Das Model” dei robot di Düsseldorf. In più di un’occasione PJ e Stella mostrano intuizioni che avrebbero meritato maggior attenzione, come l’electro funk di “Are They Really” o “Full Moon Night”, autentica robot synth music, di quella che negli ultimi quindici anni in tantissimi hanno cercato di riproporre (si pensi a DMX Krew, Alden Tyrell, Hong Kong Counterfeit, Keen K, I-f, The Hacker, Roland Sebastian Faber, Solvent). Non mancano spiragli su derivazioni kraftwerkiane (“Why”, “Time Is Tight”), kraut (“Arabesque”) e synth pop ma mai con l’apparato simil-canzone: pezzi come “Space Shuttle” e “Love In Space” (quest’ultimo con un piglio più euforizzato, quasi italo) sono vicini al mondo delle soundtrack (Vangelis, Jarre) e della library music, con nessun punto in comune coi riff da fischiettare o canticchiare sotto la doccia. Volendo paragonarlo a qualcosa italiana dei tempi tornerebbero in mente Donna Laser, Doris Norton, Sergio Ferraresi o gli Automat.
«Avremo ascoltato “The Man Machine” dei Kraftwerk almeno mille volte, per noi fu una vera rivelazione. Amavamo alla follia pure “Green” di Steve Hillage. Precedentemente invece mi ispiravo ai Beatles, Jimi Hendrix e Pink Floyd (nel 1979 infatti PJ, Stella ed Oliver Sacher incidono, come D’Gift-Lobby, il rockeggiante “Atom-Alarm”, nda). Mi considero un chitarrista che si ritrovò risucchiato dal vortice dell’elettronica, e la psichedelia ha sicuramente giocato un ruolo importante in questo processo creativo. Nei nostri ascolti c’era ovviamente anche tanta italo disco ma sfortunatamente nessun contatto più solido con la scena italiana. Eravamo due eremiti che vivevano in studio: durante la settimana lavoravamo su colonne sonore e jingle, nel fine settimana ci dedicavamo alla musica di Schaltkreis Wassermann, aiutati dall’LSD. Con “Love In Space”, prodotta intorno al 1986, tentammo di confezionare un singolo electro pop ma avemmo problemi tecnici con vari strumenti. Si prospettò un accordo con la WEA (ai tempi nel gruppo Warner Bros.) che ci mise a disposizione lo studio con Conny Plank ma purtroppo la cosa non andò per il verso giusto. La voce di Stella era meravigliosa ma lei aveva bisogno di trovarsi a suo agio per cantare bene, cosa che non avvenne affatto nello studio di Plank. Quel giorno lui sbottò dicendo che Stella non fosse una cantante ma non era vero, non era in forma al 100% ma soprattutto provava disagio anche perché Holger Czukay, i Rita Mitsouko ed Annie Lennox entravano ed uscivano di continuo dallo studio. Per Plank probabilmente eravamo solo due ragazzini che gli stavano facendo perdere tempo. Ero con lui nella monitoring room quando si lamentò della performance canora di Stella e in quel preciso istante capii che il progetto non sarebbe andato in porto. Il sogno di iniziare una carriera artistica internazionale fu distrutto in pochi minuti. Fu molto doloroso accettarlo. Poi paradossalmente i vertici della WEA trovarono migliore la mia registrazione del demo che quella realizzata da Plank: come spesso accade, non è facile ricreare lo stesso feeling cambiando studio, non solo per questioni tecniche ma anche per l’atmosfera, altrettanto importante. Plank avrebbe dovuto usare i nostri nastri ed elaborare il suono da quelli per evitare di perdere l’effetto iniziale. Tentammo quindi di finalizzare “Love In Space” in altri grandi studi ma gli sforzi non furono premiati. I suoni analogici non potevano essere “salvati” con la facilità odierna ed era molto facile che sorgessero problemi di varia natura. Non era semplice far funzionare tutte le macchine soprattutto per noi che, non potendo disporre di denaro per acquistare strumenti di un certo tipo, eravamo costretti a rapportarci con equipment semiserio e batterci costantemente contro distorsioni, rumori, sibili e ronzii. Prestavo moltissima attenzione al processo di registrazione ed oggi sono rimasto piacevolmente sorpreso dell’effetto che quei pezzi hanno a distanza di così tanto tempo. Lavoravamo con un control voltage/gate che si rivelò un sistema decisamente preciso in termini di sincronizzazione ritmica. Il protocollo MIDI arrivò dopo ma non mi è mai piaciuto, trovo assurdo che qualcuno lo continui ad usare ancora oggi. In tempi recenti, quando ho ripreso in mano i miei vecchi sintetizzatori, ho usato il MIDI e poi il MIDI to CV/gate, ma il risultato era terribile così ho deciso di tornare ad usare solo il CV/gate. Ora uso un’interfaccia Expert Sleepers senza MIDI e la sincronizzazione è perfetta».
Tra i brani di “SKW” c’è pure “Hyperspace”: se a partorirla in quegli anni fosse stato qualcuno di Detroit probabilmente sarebbe finita nella lista della “proto techno” e nessuno avrebbe mosso obiezioni di sorta. «Sono completamente d’accordo, e se vogliamo dirla tutta anche la terza parte del brano “Psychotron” (omonimo dell’album) è interamente inquadrabile in techno e forse pure psy trance. Basta alzare il volume della kick drum per ottenere l’effetto voluto. Pure “I Feel Love” di Donna Summer, prodotta da Giorgio Moroder, contiene elementi technoidi. Il mito che la techno sia nata solo a Detroit è un’idiozia, chiunque in quegli anni abbia posseduto un sintetizzatore analogico, un sequencer ad otto o sedici step, una drum machine ed un po’ di sostanze psichedeliche sarebbe giunto alle stesse conclusioni. La verità su Detroit è che quello fu il posto dove tutto assunse una dimensione più definita, adatta per decollare a livello internazionale» afferma drasticamente Wasserman.
Private recupera gli inediti ma non perde occasione per infilare nell’album anche quei brani che i due svizzeri pubblicano con le proprie forze nel 1981 prima di “Psychotron”, come “Sex Is Out, Ich Bin Geklont” e “Vierspur”. Ci si chiede quindi se esistano ancora altri pezzi mai dati alle stampe e PJ rivela: «in archivio ho tantissimi frammenti e bozze che attendono solo di essere “remixate”. Possiedo anche registrazioni di improvvisazioni in studio. Quando Private Records ha ripubblicato “Psychotron” si vagliò l’ipotesi di produrre nuovi brani esattamente con gli stessi strumenti di quel periodo che possiedo ancora. Solo il Prophet-5 sembra inutilizzabile. Ho impiegato molto tempo per ricreare il vecchio setup, adesso ho praticamente tutto nuovamente operativo. Negli ultimi anni ho composto molta musica, probabilmente potrei riempire due o tre album, ma ho trovato piuttosto complicato definire un suono contemporaneo convincente. Non voglio limitarmi a ricreare ciò che ho già fatto negli anni Ottanta, e tra l’altro sarebbe impossibile perché Stella, purtroppo, è mancata prematuramente nel 2011 a causa di un tumore. Comunque sto approntando nuovi live set che conto di portare in scena a breve. Suonerò vecchi brani (ma leggermente modificati) e nuovi, intervenendo con un Boss SY-300, un vocoder ed altri strumenti. Nell’ultimo decennio mi sono dedicato prevalentemente a musica psy trance e psy chill nel progetto Eternal Bliss, quindi per me non è così facile approcciare ad uno stile diverso. Attualmente immagino Schaltkreis Wassermann come un ibrido per fondere i vecchi sintetizzatori con la nuova tecnologia dei plugin, tenendo in vita lo spirito della psichedelia e della sperimentazione. Dal 2008 al 2010 ho fatto, insieme a Stella, un paio di live (uno di questi al Synch Festival ad Atene, con Beppe Loda) portando sul palco nuovi pezzi di Schaltkreis Wassermann, alcuni dei quali hanno riscosso ottime reazioni. Stella però non era convinta e mi ripeteva in continuazione che quella musica non fosse adatta al nostro vecchio progetto. A lei non piacevano i miei assoli di chitarra elettrica e per me era davvero triste, visto che sono un chitarrista ed è quello lo strumento con cui riesco ad esprimermi meglio, soprattutto in un contesto live. Quei brani, per cui realizzai anche dei visual da proiettare durante l’intero show, attendono solo di essere pubblicati, coprono circa un’ora di musica».
In questo live registrato ad Anversa il 24 ottobre 2013, PJ si lascia andare ad improvvisazioni di sciabolate acidule poggiate su un letto di psichedelia kraut che occhieggia ad Ash Ra Tempel e Popol Vuh. Il tutto ottenuto con varie macchine tra cui svettano un ARP Avatar ed un laptop Apple. Ieri ed oggi che si incontrano e si mischiano vicendevolmente. «Negli anni Ottanta non ho mai pensato a come potesse essere la musica del futuro, eravamo semplicemente entusiasti di tutte le possibilità soniche messe a disposizione dai sintetizzatori» conclude.
In “SKW” il tema dello spazio viene declinato in più varianti attraverso beat vintagisti, bassi arpeggiati, armonie cosmiche ed assoli virtuosi. Come al solito Private Records aggiunge al tutto vari bonus come poster, la riproduzione della lettera di accompagnamento usata per l’invio del demo nel 1980 ed un blotter che simula gli LSD, l’additivo che, pare, riuscisse ad aumentare la creatività e a cui PJ Wasserman ha dedicato una pagina del suo blog.