Questo è un piccolo miracolo. In anni in cui la gente trova stupido pagare l’informazione (al massimo paghi l’intrattenimento, quello sì), soprattutto in campo musicale, una realtà fieramente di nicchia e lontana anni luce da ogni logica commerciale come Norient è riuscita, con un crowdfunding, a raccogliere più di 100.000 euro. Ovvero, ha superato quello che era l’ambizioso, ambiziosissimo obiettivo, raccogliendo la cifra in questione (e superandola, pure) in due mesi. In due soli mesi. Coi soldi raccolti, ci sarà un re-launch di una piattaforma web che già da tempo è una risorsa preziosissima per chiunque voglia indagare le musiche iper-contemporanee del mondo in una maniera incisiva, approfondita, anche “politica” quando serve (perché la musica è una lama che incide sulla società, e anzi spesso ne anticipa le evoluzioni), pencolando tra elettronica, hip hop e pop ma portando sempre il lettore/fruitore a leggere cose che non si aspettava, nomi che non conosceva, scene che ignorava (o considerava solo in maniera superficiale, hipster, modaiola). Un approccio che è l’esatto opposto della comunicazione che “funziona” oggi: una comunicazione che sì, sguazza nella varietà e nell’orizzontalità, nel combinare cultura “alta” e cultura “bassa”; ma per proprio per questo improvviso moltiplicarsi di possibilità, la realtà dei fatti è che nei tempi odierni, forse più che nel passato, si fanno numeri sostenibili solo tirando in campo i soliti nomi, le solite situazioni, le solite musiche, perché quando ti metti a scrivere di qualcos’altro più “avventuroso” in termini di scelta di contenuto raccogli le briciole. Perché l’audience, avendo ora molta più scelta, è diventata parcellizzata come non mai.
Anche a noi come Soundwall per un sacco di tempo è stata fatta l’accusa di parlare sempre degli stessi tre o quattro, sempre delle stesse musiche, sempre di Loco Dice, Daft Punk o Four Tet o [altro nome a vostra scelta]: serviva a ben poco rispondere “Scusa, guarda il sito, leggi gli argomenti”, perché l’impressione che si parlasse sempre dei soliti nomi e dei soliti argomenti era data in primis dal fatto che gli articoli a fare i numeri migliori, quindi quelli a circolare di più e con più visibilità, erano quelli sui soliti nomi e sui soliti argomenti. E i numeri li fate voi, voi che leggete, voi che cliccate – voi che appunto magari vi fate sentire solo per dire “Eh ma basta con questa cosa, ha stufato” mentre invece non vi fate sentire (e non cliccate) quando entrano in ballo argomenti altri, musicisti altri, scene altre.
E’ un bel paradosso. Anche ora che in teoria ci sarebbe la libertà assoluta e l’assoluta possibilità di pluralismo, rifugiarsi nei soliti nomi hype del momento è necessario, per essere in qualche maniera rilevanti, a parte poche eccezioni (al di là di tutto, piacciano o meno certi toni e certi modi, il lavoro fatto in Italia da Noisey è stato spesso di altissima qualità e notevole valore ed ha “sfidato” davvero abitudini, convenzioni giornalistiche, luoghi comuni dell’informazione musicale). E per “essere rilevanti” intendiamo “Fare abbastanza numeri per interessare qualche investitore pubblicitario”, visto che in questo momento l’informazione è sempre più consegnata al destino di essere schiava inerte di chi decide i budget promozionali, cosa di suo rischiosissima. Perché ti leghi mani e piedi non più ad un editore, ma a come vengono decise le campagne di marketing e quanto tu puoi riuscire a rientrarci.
Certo: puoi anche fare le cose per passione, e basta. Puoi anche agire ad un livello per cui difficilmente intercetti gli investimenti promozionali (di un brand, di un festival, di chiunque abbia voglia di pagare per farsi pubblicità). Ma dopo un po’, lavorare gratis e sempre più nell’indifferenza, con numeri che via via si fanno sempre più stitici, smonta qualsiasi entusiasmo. E se non c’è entusiasmo, non c’è nemmeno qualità nel tuo lavoro, in quello che offri al lettore.
Una situazione molto critica. Di cui non si sta parlando abbastanza. Abbacinati dalla possibilità di avere l’informazione senza pagare nulla (secondo il principio del “Perché pagare per un magazine, quando su internet trovo le notizie prima e ogni tanto scritte pure meglio?”, nato non solo per scroccaggio ma anche perché i giornali non sono stati attenti ad investire sempre sulla qualità), ci stiamo portando da soli in una situazione preoccupante, in cui l’azionista principale del giornalismo e dell’informazione non è il lettore ma le mode e le campagne marketing. Poi chiaro: ci sarà il momento in cui una moda “alta” ed illuminata sarà parlare di artisti transgender, di cumbia digitale, di decostruzionismo noise post Throbbing Gristle, di queer hip hop. Ma vi chiediamo: avete notato come anche questi argomenti vadano “ad ondate”? Avete notato come dietro a questi approfondimenti ci sia sempre quel sentore di “fashionizzazione” delle istanze e degli argomenti? Avete notato che molti oggi vogliono parlare di Floating Points, di Arca e di Four Tet invece che di Sven Väth e Joseph Capriati solo perché fai più bella figura – e questo è un meccanismo da fashion – a parlare di Floating Points, Arca e Four Tet, e non perché invece ti piacciono davvero musicalmente di più?
L’informazione sta diventando non più informazione, ma rassicurazione
Se non l’avete notato, dovreste farlo. Perché è la chiave per capire tutta una serie di dinamiche. Perché cosa succede? Succede che parlando (o leggendo) di Floating Points, Arca e Four Tet tu ti “pulisci” la coscienza, pensi di dare comunque il tuo contributo a una fruizione meno superficiale della musica elettronica e del clubbing, ma ti fermi lì. Non vai oltre. Un tempo la dinamica dell’informazione era: “Leggo di cose che non so raccontatemi da gente che ne sa più di me, e ne godo”. Oggi sempre più è: “Leggo di cose che già conosco scritte da chi mi può rassicurare che ne so quanto lui e che sono figo quanto lui, e ne godo”.
Gli algoritmi – la vera dittatura senza volto della contemporaneità – premieranno sempre più chi segue il secondo approccio, non il primo, nel presentare e confezionare i propri contenuti ai lettori. Lo faranno in modo automatico, gli algoritmi. Non intenzionale. L’algoritmo non fa altro che piegarsi ai desideri dell’utenza. Ma in questo modo l’informazione non sarà più informazione – sarà rassicurazione. E se succede, è un casino.
Ecco perché siamo felicissimi che Norient abbia vinto la sua battaglia, nel crowdfunding. Nel loro piccolo, loro parlano esplicitamente di “Battere gli algoritmi” (“Defy algorithms with us!” è il primo claim che hanno usato per lanciare la campagna). E ora, con questo primo consistentissimo gruzzolo raccolto, hanno la motivazione e i mezzi per farlo con rinnovato entusiasmo. Se abitate a Berlino – sì, lo sappiamo che molti di voi che ci leggono stanno lì sotto l’occhio vigile ed aereo di Alex – magari fate un salto il 5 marzo alla Haus Der Kulturen Der Welt, quando ci sarà una prima presentazione ufficiale di questo “nuovo corso” di Norient interamente finanziato via crowdfuning: una nuova piattaforma web, nuovi contenuti, nuovi contributor, più argomenti, più indagini sul campo. Tutto su musiche che al 95% sfuggono a ciò che di solito si legge in giro: perché troppo di nicchia, perché troppo de-centralizzate rispetto ai grandi flussi dell’informazione e dell’industria, perché troppo poco di moda (magari di moda lo sono state, o lo saranno, o forse proprio non lo saranno mai). Insomma, quelle scelte che vengono fatte più dagli studiosi e dai cultori che da chi è attento ad imbroccare l’argomento giusto al momento giusto e a far vedere di aver “letto” ed indovinato, prima di tutti e meglio di tutti, la nuova moda, il nuovo suono vincente, il nuovo fenomeno sociale di cui tutti parlano.
Salvare e (ri)dare valore a tutto questo non è una sfida impossibile. Ma questo se, e solo se, chi legge e chi fruisce di musica e cultura decide di fare attivamente parte della sfida in questione. E avverte il pericolo che una informazione – musicale e non – in mano come sussistenza non al lettore ma in misura crescente alla raccolta pubblicitaria potenzialmente non sia più informazione, ma sempre più una forma raffinatissima, evoluta, aumentata di marketing. Adottandone le dinamiche. Facendocele sembrare “normali”. Per non dire necessarie.
Porsi questo dubbio, interrogarsi su di esso, è vitale. Non siamo contro il giornalismo che ha un rapporto stretto con l’hype, inseguendolo, indagandolo, raccontandolo: lo facciamo spesso pure noi qui a Soundwall, e ne siamo contenti. Ma fare solo questo, pensare che solo questo sia il modo di fare le cose, diventa un problema. Diventa un impoverimento collettivo delle conoscenze; o, se preferite, una “marketizzazione” di esse.