Magari non saranno stati 100.000 tondi tondi, ma la differenza col dato reale è davvero minima, risibile (…e forse nulla, considerando la serata d’apertura dedicata ai soli residenti): lì dove altri festival devono gonfiare i dati a dismisura per darsi la dimensione da evento enorme, Nameless con questa edizione 2022 ha fatto il botto. Tutti i critici e gli scettici sono stati zittiti. Di nuovo, il team che porta avanti il festival ha dimostrato di avere il polso della situazione, di conoscere il proprio pubblico: sia quello reale, quello già acquisito, che quello potenziale.
Certo: a voler essere tignosi, si potrebbe storcere il naso pensando a come quest’anno il mirabolante record di presenze sia stato raggiunto (anche) implementando il palco non-EDM, affidandosi soprattutto alla wave trap. Una wave che ha dimostrato, diciamolo senza girarci attorno, ancora limiti atroci per quanto riguarda la resa dal vivo. Ok lo spirito strafottente, ok la voglia di essere punk ed essere se stessi, ok che per ora il gioco funziona e la gente ti segue; ma quello che abbiamo visto dai vari Tony Effe, Rhove, Paky, Leon Faun e pure Geolier (questo il dolore più grande: perché sentendolo su disco Geolier ci è sembrato sin da subito uno con una marcia in più) è stato sconfortante, semplicemente sconfortante. Rap urlati, scomposti, fuori tempo, incapacità di chiudere una rima che fosse una o giù di lì. Ora, non per fare il professorino rompicazzo, ma ragazzi: in due anni di stop pandemico che avete fatto? Solo le story su Instagram? Solo le sponsorizzate? Allenarsi un minimo, ma davvero un minimo, no?
Per fortuna su quel palco lì Noyz e Massimo Pericolo hanno regalato emozioni (impressionante il rapporto che i due hanno cementato col pubblico), Gué se l’è giocata col mestiere, e poi abbiamo assistito a uno degli show più assurdi e al tempo stesso migliori degli ultimi tempi. In anni in cui il rappuso medio, soprattutto se non headliner, fatica a mettere insieme uno show che duri più di trenta minuti, quando abbiamo visto nel programma ufficiale che quel bizzarro ibrido di Nello Taver (un po’ rapper, un po’ entertainer, un po’ cazzone, un po’ genio) aveva assegnato novanta minuti secchi di slot avevamo pensato ad un errore. Invece: tutto vero. E in un caravanserraglio di gag, scenette, battute, giochi col pubblico ma anche – nota bene – momenti di solidissimo rap (ancora più scintillante se rapportato alla cialtronaggine ed inadeguatezza delle sedicenti trap star nazionali che lo hanno preceduto e seguito), il buon Nello ha tenuto il palco alla grandissima. Davvero: da tempo che non vedevamo un performer del genere. Ed è la dimostrazione che puoi anche diventare famoso grazie ad Instragram, ma se sei bravo sei bravo, sei sei una capra resti una capra, anche se sponsorizzata. E i bravi hanno più probabilità di durare nel tempo.
Per l’immediato, l’aura mondana dei trapper nostrani può bastare. Questo va ammesso. Ingrandire il palco rap/trap e renderlo grande tanto quanto il palco EDM non è stato un azzardo, l’affluenza di pubblico c’è stata, e c’è stata soprattutto per gli eroi nazionali (vivaddio: per i rapper consolidati, più che per i trapper hypati) visto che non è che Lil Pump (appena sufficiente il suo show) o Central Cee e bbno$ (non male, invece) abbiano sbancato. Ma in generale vuol dire che mettere oggi in cartellone una rappresentanza così robusta del suono urban attuale attira, fa vendere biglietti, piace. Il sospetto è che sia un fenomeno effimero: se questa scena non si mette di buzzo buono ad offrire degli show decenti (per dire pure Il Pagante, facendo il compitino, è sembrato di un altro pianeta: figuriamoci) ad un certo punto pure i fan hardcore più disagiati si stuferanno ed annoieranno, mentre invece quelli più tiepidi e casuali – che stanno dietro alla faccenda più come si sta dietro ad un incidente stradale: ti fa ribrezzo e un po’ paura, ma non riesci a smettere di guardare – se ne andranno proprio da un’altra parte. Con tanti saluti. E forse nemmeno quelli.
Ma ecco, non c’è stato solo il palco rap-trap-e-dintorni. Il pienone non è arrivato certo solo da lì. Per quanto riguarda il resto, partiamo prima di tutto dal “nostro”: la prima giornata del festival ha avuto una emozionante e musicalmente bellissima giornata dedicata alla memoria di Claudio Coccoluto, nello stage Molinari a forma di igloo (paradossale: era un igloo, ma dentro faceva un caldo infernale). SI sono alternati in console GNMR (un figlio d’arte che sta diventando ogni giorno sempre clamorosamente più bravo e tagliente), Giancarlino (per Claudio più che un amico), Luca Vera, Alex Neri e Ralf (che ha fatto un set durissimo e strepitoso, uno dei migliori che gli abbiamo sentito fare, e ne abbiamo sentiti tanti). Questa giornata da sola valeva il festival. Ma anche nei giorni successivi dentro l’igloo, musicalmente parlando, si è sempre stati bene: dal divertentismo fatto benissimo di Mazay alla classe misurata di Astrality (tenetelo d’occhio), passando addirittura per il buon vecchio Robert Owens (ci stava) o giovani leoni alla Havoc & Lawn (solidi), bisogna dire che non ci sono mai stati cali di tensione e lo stage ha sempre avuto un ottimo giro di aficionados, nonostante appunto l’ambientazione da sauna tropicale.
E il palcone EDM? Che poi è la ragione sociale originaria di Nameless Music Festival? Ora, si dice da un po’ di tempo che l’EDM sia morta. Vero? Falso? Mmmmmh: entrambe. Vero, se noti che ormai chi fa parte di quel giro lì o vira verso il pop (come fatto da qualche annetto a questa parte) o vira verso una tech-house fatta però à-la-EDM (ovvero tenendo i brani brevi e usando un sacco di trucchetti per richiamare l’attenzione, il che sarebbe una violenza al DNA del genere), e c’è addirittura chi fa entrambe le cose, i più paraculi, e di paraculaggine nel genere ce n’è tanta. Falso, però, almeno a giudicare da Nameless: tolta una minoranza di ceffi che erano al festival solo per la trap – e davvero, era una nettissima minoranza – aggirandosi per palchi, punti ristoro e quant’altro lo capivi che a NMF l’EDM conta ancora un sacco, gli artisti si conoscono, discutono, amano, apprezzano, valutano. Non sappiamo se sia una gigantesca riserva indiana o meno, sta di fatto che il buon vecchio Afrojack ha fatto uno show inappuntabile, potente e divertente; che Dj Snake è piaciuto soprattutto quando ha mostrato i muscoli, non inseguito i trend; che Tiësto invece è stato una brutta delusione proprio perché si è annacquato e, a furia di inseguire il successo, ha perso definitivamente se stesso; che Illenium ha soddisfatto; che il vero trionfatore del festival è stato Kayzo, uno che da sempre parte dalle radici EDM per violentarle a colpi di metal, punk, bass ed adrenalina e stavolta ha offerto al festival – che lo ama da anni, venendone riamato – uno show semplicemente cla-mo-ro-so, una delle cose più intense che chi vi scrive abbia mai visto in trent’anni di concerti. Roba ai livelli, come impatto visivo, degli ultimi ottimi show di Aphex (vedi Club To Club) o dei robottoni dei Chemical, e se siete un minimo avvertiti avete capito bene di che stiamo parlando.
(Lo stage EDM visto frontalmente; continua sotto)
Altre cose notevoli del palcone EDM: Riton fuori come una mina (ma con un set che nonostante tutto non è stato male), Topic molto meglio del previsto, e poi – Purple Disco Machine. Ok, il producer tedesco sarà pure un miracolato, perché grazie ad un singolo azzeccato un paio d’anni fa è stato proiettato dalle retrovie del clubbing allo stardom assoluto della dance nazionalpopolare, ma ha dimostrato di avere molta, molta personalità. Trovandosi infatti sul main stage, con quindi diecimila e passa persona assetate di EDM ed emozioni forti, non ha minimamente rinunciato alla sua identità musicale disco-house, e nel farlo è riuscito a trascinare tutti dalla sua parte. C’è da dire che il pubblico di Nameless è un pubblico molto bello, perché molto rispettoso con gli artisti: se una cosa piace ti dà il cuore, se non piace si allontana un attimo, senza fischiare o rompere i coglioni. Ma comunque, ha la curiosità di ascoltare. Il vero spirito da festival. Però ecco, Purple Disco Machine col suo suono complessivamente “morbido” e discoide poteva intiepidire l’atmosfera arrembante e svuotare il giga-tendone, invece è successo l’esatto contrario.
Ultima menzione comunque, per quanto riguarda lo stage EDM, obbligatoriamente per EDMMARO. Ora, l’abbiamo già scritto in passato, e lo riscriveremo pure in futuro: Matteo è un genio. E’ divertentissimo, è abile tecnicamente, è un drago nell’intrattenere, è una mente musicale affilatissima. Il fatto che si diverta a scherzare&cazzeggiare e ci sia sempre un humour crasso (ma spassosissimo) nei suoi set non deve arrivare a mettere in ombra i suoi enormi meriti da artista. A Nameless lo sanno: è uno degli artisti-bandiera del festival, come del resto lo sono Merk&Kremont (bravi anche loro, quest’anno anzi forse la loro esibizione migliore di tutte le edizioni, anche al netto della comparsata di Ghali).
Ecco, parlavamo di artisti-bandiera. Qui si torna al solito punto: Nameless Music Festival ha un’anima. Ha una storia, ha una identità. Ha un rapporto col proprio pubblico che è stato costruito edizione dopo edizione in maniera molto sincera ed intensa. E continua ad avere tutto questo, pur operando – non c’è nessuna vergogna nel dirlo e nel farlo – in ambito “commerciale”, vedi appunto l’origine EDM, vedi appunto l’attenzione accresciuta verso il fenomeno rap o trap. La verità è che ci sono contesti puristi&underground che sono molto più falsi e plasticosi di Nameless: quando metti piede dentro il festival, e non ti limiti ai pregiudizi barricaderi seguendo invece l’onda, lo capisci in maniera nitidissima.
Questa cosa è stata mantenuta anche quest’anno, e non era scontato accadesse: nuova location (grande il triplo, e meno romantica rispetto alla vallata incastonata fra le Alpi di Barzio), ambizioni aumentate. C’era il rischio di andare fuori giri, o anche solo di diventare un cinico divertimentificio votato alla fatturazione. Eccome se c’era. Ci sono state cose che non hanno funzionato benissimo, sia chiaro: il parcheggio in primis (deflusso, ma anche l’afflusso), le file per prendersi da mangiare (nei momenti topici in effetti un po’ troppo lunghe), ma nulla di drammatico. Per il resto la spaziatura dell’area è stata ottima, non si sono mai creati colli di bottiglia o assembramenti ingestibili, i set si sentivano bene (non benissimo, soprattutto nella prima giornata, ma poi bene: c’è stata all’inizio la volontà di autolimitarsi, per testare bene l’impatto acustico).
Nel solito lamentodromo facebookiano troverete chi parla di “disastro”, di “festival morto”, di “atmosfera bruttissima, molestie e violenza”: rispettiamo le opinioni di tutti, ma la miglior risposta sta nel fatto che i biglietti Early Bird per l’edizione dell’anno dopo messi in vendita come da tradizione il giorno dopo la fine del festival corrente stanno andando in questi giorni letteralmente a ruba, come mai successo in passato. Noi dal canto nostro possiamo solo dire che abbiamo sempre respirato, per tutti i giorni, ciò che ci ha fatto innamorare di Nameless come di pochi altri festival al mondo (nonostante siano ben altri i festival per cui la line up ci rapisce il cuore): gente presa benissimo, imbruttimento praticamente assente, equilibrio tra presenza femminile e maschile, facce giovani, entusiasmo genuino e non chimicamente indotto, un senso di rilassatezza perfettamente bilanciato con l’euforia. Chiaro, qualche ceffo un po’ così tra la gente c’era, onda lunga dell’apertura di credito trappusa, ma niente di che: era molto ma molto più patibolare in realtà il backstage, coi vari trapperini e trapperoni che si portavano dietro il loro codazzo di amici e, porca eva, ce ne fosse uno che avesse la faccia da persona presa bene. Cioè, parliamone: accompagni il tuo amico artista che sta spaccando, sei nel backstage di uno dei festival più grandi d’Italia, hai accesso al dietro le quinte del mondo musicale – cazzo, dovresti avere un sorriso a trentadue denti e la voglia di abbracciare il mondo! Invece nulla, si giocava a fare i guappi incazzusi, o comunque i sostenuti. Raga: anche meno. Ma per fortuna questa nube plumbea di malessere e disagio è rimasta limitata ad un’area circoscritta del backstage. Fuori, fra la gente normale, solo belle vibrazioni.
Nameless Music Festival ha un’anima. Ha una storia, ha una identità. Ha un rapporto col proprio pubblico che è stato costruito edizione dopo edizione in maniera molto sincera ed intensa. E continua ad avere tutto questo, pur operando – non c’è nessuna vergogna nel dirlo e nel farlo – in ambito “commerciale”, vedi appunto l’origine EDM, vedi appunto l’attenzione accresciuta verso il fenomeno rap o trap. La verità è che ci sono contesti puristi&underground che sono molto più falsi e plasticosi
Nameless non diventerà mai un festival “olandese”: con organizzazione tecnologica ed avanzatissima, con palchi faraonici, con gigantismi impressionanti. Anche nel momento in cui raduna 100.000 presenze in quattro giorni, mantiene quell’aria artigianale, calda, umana, “di prossimità”. Lo vogliamo così. E siamo anche contenti che nel 2023 difficilmente ci sarà la corsa a superare i record, visto che si tornerà a tre giorni invece che quattro, e significherebbe passare da 25.000 a 33.000 presenze giornaliere – improbabile, anche se non impossibile. Peraltro: anche se succedesse, la nuova area di Annone è forse meno poetica di quella di Barzio (anche se molto bella, e pure qui ti senti circondato dai monti, almeno da due lati su quattro) ma comunque fa già capire che potrebbe reggere tranquillamente un ulteriore ingrandimento ed un aumentato successo del festival. Questo è molto importante.
L’Italia ha due giganti, a livello di numeri, tra i festival di musica elettronica: Nameless e Kappa FuturFestival. Il primo ha superato se stesso, senza perdere nulla delle sue qualità più autentiche e profonde. Ora aspettiamo al varco il secondo, ma siamo molto, molto, molto fiduciosi. Lo sport di accogliere decine e decine di migliaia di persone in pochi giorni è uno sport complicatissimo, è la Formula Uno dell’eventistica musicale, e lo diciamo comunque da innamorati dei boutique festival (…che sono la vera specificità italiana). Gareggiare e fare bene, mantenendo la propria identità, è una vittoria coi controcazzi.