Ormai sono anni che uno non sa bene come approcciarsi a Björk. Probabilmente è troppo esternare il fastidio e la derisione (c’è a dire il vero chi lo fa, eccome, e anzi si è sempre in di più); anche se lei, tuttavia, ci mette veramente del suo per incoraggiare questa visione, questa reazione. Il punto è che ci mette e ci ha messo anche tante altre cose, che sono importantissime e che rischiano di passare sotto traccia a sbertucciarla, oggi, senza pietà: lei il coraggio artistico ce l’ha davvero, e la personalità per non farsi teleguidare dal pop e dal mainstream rifugiandosi invece in un modo di cui lei stabilisce i confini l’ha messo sul campo sul serio. Mica cazzi.
Nessun altro lo ha fatto, dagli anni ’90 ad oggi. Negli anni successivi si è impazziti per Drake e Beyoncé, per Justin e Kanye, per Eminem e i Coldplay, per Kendrick, Avicii e chissà chi altri; ma di tutti quelli che hanno avuto il merito di arrivare al top assoluto di popolarità con un atteggiamento e una musica un po’ edgy rispetto al pop zuccheroso, anestetizzato e buono-per-tutti, lei è l’unica – tra l’altro in un panorama appunto dominato da artisti black, perché il pop bianco al massimo si è inventato l’EDM che però è solo un pop tradizionale sotto steroidi e cassa dritta – ad avere sdegnosamente optato per una virata che l’ha resa nella posizione di perdere tutto, e di mettersi a margine di tutto, senza rendere conto a nessuno. Né discografici, né fan. L’unica. Chi è un po’ più giovane forse non si rende conto di cosa Björk aveva rappresentato ad un certo punto: un’icona generazionale da adorare davvero, in cui immedesimarsi visceralmente, il simbolo di come la musica mainstream potesse essere decisamente un posto migliore (e potesse esserlo grazie ad una ragazza, che guidava il gioco invece di esserne guidata: al massimo c’era qualche maschietto a darle una mano – ma li sceglieva lei, ed erano ceffi tipo Howie B, Nellee Hooper, gli LFO, i Matmos, i Plaid, dei colossali outsider insomma…). “Debut”, “Post” e “Homogenic” sono fra le cose più belle siano mai successe alla musica contemporanea. La dimostrazione che – almeno in quegli anni – essere artisticamente coraggiosi ed avere successo non era un ossimoro, ma una concreta possibilità.
E’ per questo il motivo che le abbiamo perdonato l’imbarocchimento autoreferenziale di “Vespertine”, l’inizio del declino. Ed è per questo che, in tutti i dischi successivi, abbiamo accettato che questo imbarocchimento autoreferenziale diventasse sempre più presente, sempre più pesante, sempre più cronico, sempre più snervante. “E’ una fase”, ci si diceva. “E’ un suo diritto”, si aggiungeva. “E’ l’ennesimo segno di come lei non accetti compromessi”, si concludeva, scuotendo alla fine il capo con moderata approvazione. Moderata, sì.
Ma dentro di quasi tutti c’era una vocina che diceva: “Sì, ok. Ma ha rotto il cazzo, accidenti. Ammettiamocelo. E’ diventata inascoltabile”.
…questa vocina sbaglia. Sbaglia, perché butta il bambino con l’acqua sporca. Il coraggio intellettuale di Björk, la sua voglia di essere se stessa, il suo coraggio nel non accettare compromessi (a costo di rischiare il ridicolo: ma il ridicolo è una parte integrante del rischio), la sua inesauribile curiosità nello scoprire e cercare nuovi stimoli musicali, è oro: lo era al tempo dei suoi grandi successi mainsteam, ha continuato ad esserlo anche dopo. E sì, lo è anche adesso. C’è una consistenza vera nella ricerca artistica di Björk, nei collaboratori di cui si circonda, anche nel modo talora pacchiano in cui si veste (ma è un modo per ribadire a chiare lettere che lei l’immaginario se lo sceglie, non se lo fa cucire addosso dagli stylist di successo di turno). Spesso si dice: “Sì, bella la sperimentazione, ma sarebbe bello se Björk tornasse ai dischi pop di un tempo”.
Beh: ci si sbaglia.
Perché il problema di Björk non è l’essere il più o meno sperimentale. E il singolo uscito in questi giorni lo dimostra chiarissimamamente. “Atopos”, che la stessa artista presenta come il “passaporto” di “Fossora”, il suo nuovo album di imminente uscita, riporta in realtà in carreggiata una Björk candidamente pop – ehi, la ritmica è un quasi reggaeton! – con però sempre una gran fragranza ed originalità (l’intreccio di suoni industriali thanks to Dj Kasymin di Gabber Modus Operandi e del sestetto di clarinetti ricorda i momenti migliori di “Debut”). L’intreccio, musicalmente parlando, è fragrantissimo. Dove sta il problema, allora?
Il problema sta nel fatto che Björk canta.
Oh sì.
Il problema sta nel fatto che Björk canta, e per mera pigrizia artistica – o mancanza di umiltà? – sono ormai due decenni che canta la stessa cazzo di canzone che non va da nessuna parte e che, soprattutto, si rifiuta di “ascoltare” dove sta e dove va la musica che scorre sotto di lei. Sta diventando, anzi, è da mo’ diventata davvero irritante questa cosa. Irritante. Fa tutto bene, Björk, fa delle bellissime ricerche e delle interessanti soluzioni; e poi però si mette a cantare e – signore e signori – con la sua voce rovina tutto, appiattisce tutto, riporta tutto alla solita formuletta del “folletto islandese” che ha la scusa della espressività folk primordiale. Ma la verità è che Björk da un ventennio e passa non si sta sforzando di curare le linee melodiche vocali, ma canta quello che le passa per la testa con un autocompiacimento che all’inizio glielo perdoni, vedi appunto “Vespertine” e “Medulla”, ma che ormai arrivati a vent’anni di autoindulgenza e solipsismo è diventato semplicemente atroce. E più è interessante quello che fa musicalmente, più risulta atroce la sua presenza vocale. Atroce, fastidiosa, snervante. Il vero problema di Björk non è insomma la ricerca artistica che fa (quando creare il suo mondo sonoro): è la ricerca artistica che non fa (quando canta).
Ed è un problema grosso.
Qualcuno che le vuole bene dovrebbe dirlo: “Hai stufato”. Spiegando subito dopo: “Hai stufato proprio con quello che dovrebbe essere il tuo dono migliore e quello per cui tutti ti lodano da quando eri bambina. E su queste lodi, sono due decenni che ti stai adagiando. Svegliati”.
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