Perché è così bello rivedere un vecchio amico? La risposta più semplice, che molto spesso è anche quella corretta, è che essenzialmente sembra come se non fosse passato neanche un giorno ogni volta che il destino vi riaccoppia. Anche se siete diventati persone diverse, magari impegnate in ambiti che poco coincidono con ciò che vi legava un tempo, finite inevitabilmente per tornare sempre un po’ indietro nel tempo. Come se, per qualche ora, nulla fosse cambiato. Senza però dimenticare di apprezzare come il tempo abbia comunque migliorato entrambi.
Ci si scambiano aggiornamenti su questo e quell’amico di cui si sono perse le tracce, ci si racconta di come scorre la vita di tutti i giorni. E poi, volente o nolente, si comincia a sfogliare l’album dei ricordi: le storie sempreverdi delle tante cazzate fatte insieme, dell’amico zimbello che è ancora uguale a quando era ragazzino, di quelle turiste tedesche conosciute al mare una vita fa. Insomma, sapete di cosa parlo. Quella sensazione di totale comfort che si prova solo in compagnia di chi ci conosce da una vita.
Ecco, se dovessi tramutare in musica questo tipo di equazione, i Chemical Brothers sarebbero forse il live che più vi si avvicina. Con Tom Rowlands ed Ed Simons ci si conosce, musicalmente, da almeno vent’anni. Più o meno da quando “Hey boy, hey girl” invase, con intenzione di restare, la mia tanto amata Dance Floor Chart su MTV. In quel momento, il mio principale ricettacolo di musica elettronica. Fu un immediato colpo di fulmine, proprio come era stato col video di “Around the world” the Daft Punk sulla tv di mia nonna qualche anno prima.
Guardando quella discoteca piena di sudore e gente scatenata con cui ancora non ero bene in grado di immedesimarmi. E la gente che diventava solo ossa tutto d’un tratto, coi due scheletri renderizzati un po’ a caso che scopavano sul water durante quell’ultima pausa che ancora oggi mi mette la pelle d’oca ogni singola volta. Fino a sfociare in un “HERE WE GO!” urlato a pieni polmoni e giù per un altro giro di giostra.
Ogni volta che ci si ritrova coi Chemical Brothers durante un loro show si finisce, per forza di cose, a pensare a tutti quei momenti in cui hanno fatto da colonna sonora a qualche momento della nostra infanzia, adolescenza, età adulta. Per questo la settimana scorsa ho deciso di andare a vederli due volte nel giro di quattro giorni. In due nazioni differenti. Questo pur sapendo che – con più che buona probabilità – avrei visto lo stesso identico show moltiplicato per due. Beh: come se ci fosse un lato negativo nel vedere due volte di fila un’opera bellissima.
Amsterdam è stata la prima tappa: l’ex Heineken Music Hall (oggi AFAS LIVE), dove avevo già visto i Moderat un paio d’anni fa. Pieno di gente, anche e soprattutto over 30, che ha voluto scacciare lo stereotipo – che però, come tutti, porta con se una punta di verità – secondo cui gli olandesi sarebbero un pubblico un po’ freddino. Giudicate voi.
Una serata magica ed un live ancora solidissimo, macchiati solo da un impianto a volte troppo schiavo delle basse frequenze che tendevano, ogni tanto, a coprire un po’ tutto, con risultati poco edificanti. Un problema che io ho imputato anche al fatto che, per un live di quelle dimensioni, molto del lavoro viene svolto ancora realmente live: e qualche volta ci sta che scappi la mano dei bassi sull’onda dell’entusiasmo.
Insomma, ero felice. Era il mio quarto live in quattro Paesi differenti dal 2011 in poi. E mi aveva lasciato senza fiato e con le gambe doloranti esattamente come tutti i suoi predecessori. Credevo però che, per quanto potesse essere diverso l’approccio del pubblico o l’impatto della location, lo show di Londra sarebbe stato – essenzialmente – una più che onesta fotocopia.
Come spesso accade, mi sbagliavo di grosso.
O meglio: lo show è stato assolutamente identico, chiariamo. Anche se mi ero un po’ illuso quando era stata annunciata in pompa magna questa data londinese – diventata doppia dopo l’enorme richiesta di biglietti – in cui molti credevano sarebbe stato presentato un nuovo album. La presenza di nuovo materiale nel tour di quest’anno e l’uscita del singolo “Free yourself” pochi giorni prima avevano amplificato le speranze. Così, purtroppo, non è stato. Ma quando gli inglesi giocano sul suolo amico, si sa, le regole tendono comunque a cambiare. E se c’è un popolo che difficilmente vi farà dimenticare di se durante una festa, nel bene e nel male, sono proprio gli anglosassoni.
Il resto l’ha fatto una venue fenomenale e gigantesca come Alexandra Palace, antico edificio poli-funzionale posto su una collina che si affaccia sulla City come un santuario in cima ad una vallata. Una sala infinita, colma di gente impazzita e variopinta, ed un impianto maestoso a coronare il tutto. Le premesse erano più che ottime, mentre la consueta “Tomorrow Never Knows” faceva da intro, come avviene da anni. Una volta partita “Go!” i visual erano talmente impattanti che la gente non poteva fare altro che guardarsi negli occhi stupefatta. E poi via con altri grandi classici come “Do It Again”, “Chemical Beats”, “Swoon” e “Star Guitar”. Mixati con qualche impercettibile sbavatura – e questo per me è l’aspetto numero uno per cui i Chemical Brothers sono ancora uno dei live più rispettati del circuito – che rendeva l’idea di quanto “suonato” effettivo ci fosse. In un momento storico in cui le esibizioni di una certa dimensione tendono sempre più al plug&play, cose come questa rimangono assolutamente apprezzabili.
Ma che i Chemical Brothers giochino secondo le proprie regole lo si capisce anche dalle tracce nuove. Che altro non sono che la naturale evoluzione dei suoni – limitarsi ad uno solo sarebbe anti-storico – che li hanno caratterizzati nel corso degli anni. Ed un altro grandioso valore è palesato dal non suonare mai come qualcosa di facilone e modaiolo. C’è sempre una considerevole dose di raffinatezza anche nelle epiche più zarre che fuoriescono dai loro macchinari. Non c’è niente che non sia esattamente quello che li rappresenta. E paradossalmente il fatto di aver compreso questa lezione dopo un paio di album molto controversi negli anni 2000 – dove invece un mezzo passaggio al pop aveva rischiato di costargli caro – ha aiutato a tenerne in vita ispirazione artistica e fan base. Senza assecondare i volubili capricci dell’opinione pubblica musicale.
Detto questo, il loro suono rimane fra i più magnetici che si possano trovare nel giro. Nella tappa di Amsterdam ho portato un caro amico con cui da anni combatto una guerra sanguinosa per riuscire a farlo divertire ad una serata di musica elettronica. Dove nomi come Masters at Work e Laurent Garnier avevano rovinosamente fallito, i Brothers hanno sonoramente trionfato. Perché il loro live rimane qualcosa di talmente trasversale e travolgente da rendere davvero naturale il coinvolgimento anche di chi magari è un semplice curioso con un paio di birre medie in corpo e qualche ora da perdere insieme agli amici un martedì sera qualunque.
A Londra, invece, il concerto lo avevamo regalato ad un altro amico, da poco papà, che è un enorme fan del duo londinese ma ultimamente aveva attaccato un po’ gli scarpini al chiodo in favore di doveri più impellenti. E vederlo scatenarsi sotto al palco dell’Ally Pally in mezzo ad una miriade di completi sconosciuti sono sicuro l’avrà riportato indietro di tanti anni. Quando forse c’erano meno soldi e sicuramente meno responsabilità. Ma la vita era semplicemente un grande carnevale pieno di luci e colori e cose nuove. Vederlo stremato e soddisfatto mentre dividevamo un panino dopo lo show mi ha fatto capire quanto ognuno abbia il diritto, ma soprattutto il dovere di ritagliarsi del tempo per tornare indietro nel tempo. E pensare, come se fosse seduto di fronte ad un vecchio amico, che per un paio d’ore possa sembrare tutto ancora come prima.