Sempre divertenti, i pregiudizi. Secondo i pregiudizi di molti, Soundwall non dovrebbe assolutamente occuparsi di una Deborah De Luca: zero proprio. No? Peccato che è già un bel po’ di tempo che ci vi scrive è molto intrigato dalla sua figura, e questo proprio per piglio analitico, non per chissà quale entusiasmo adolescenziale: può piacere o meno, può essere considerata degnissima o infima dal punto di vista artistico, può essere tutto quello che volete e vi garba, ma di sicuro è un “glitch nel sistema” – e soprattutto, questo lo troviamo molto significativo, è un’artista che nell’interagire pubblicamente non si nasconde dietro frasi di comodo e post inutilissimi ed annacquati sui social, come invece fanno praticamente tutti. No. Rischia. Si espone. Si schiera. Non cerca filtri. Così come senza filtri è il modo in cui si declina musicalmente: la sua techno fatta di cover in cassa dritta e cantati vari è per molti un abominio di faciloneria, intanto sta di fatto che ai suoi set chi ci va si diverte, si diverte proprio davvero. Così come è un dato di fatto che la sua è stata una crescita organica, nata sul passaparola e non con investimenti calibrati al millimetro e servizi fotografici sfavillanti. In una fase storica in cui troppi artisti davvero poco interessanti e poco personali nel modo di esporsi comunque sguazzano e prosperano passando per gran carismatici, anche nell’underground intellettualoso e non solo nel caravanserraglio mainstream-tamarro, Deborah De Luca è per quanto ci riguarda una figura maledettamente interessante e, sì, assolutamente positiva. Già: avercene.
Ed averla anche in Italia: perché il suo profilo è cresciuto tanto che ormai vederla dalle nostre parti è sempre più difficile, dato che è sempre più in giro per il mondo, e intendiamo non solo in Europa ma proprio in altri continenti. In attesa di un mega-evento nella “sua” Napoli ancora da annunciare mentre stiamo scrivendo queste righe ma in realtà imminente, la sua prima data a Milano dopo cinque anni – il prossimo 25 febbraio ai Magazzini Generali – è la scusa perfetta per far finalmente partire le rispettive delegazioni ambasciatrici, e combinare una intervista di quelle serie. Una intervista che, leggerete voi stessi, non delude. E che parte subito col botto. Dite quel che volete, ma per quanto ci riguarda ce ne fossero di più, di Deborah De Luca: avremmo un clubbing non sappiamo se migliore, ma di sicuro più caldo e più umano – e meno frigidamente, coreograficamente standardizzato. Come da troppo tempo sta invece accadendo. Se speravate di trovare una intervista-imboscata in cui “farla pagare” a questa impostora, beh, passate oltre.
Guarda Deborah, te lo dico subito: è un bel po’ che desideravo fare questa intervista.
Ah, sì? Perché non vedi l’ora di leggere un infinità di commenti da hater sotto un tuo articolo, giusto?
Brava! (risate, NdI)
Manco dopo quello che hai scritto su Anfisa avrai così tanto odio come sotto questa intervista, sappilo…
Benissimo. Allora ti chiedo direttamente: perché tutto questo? Perché la tua figura suscita queste reazioni? Perché, effettivamente, le suscita. Nulla da dire. Lo so.
Prima di tutto: perché sono una donna. Una donna deve combattere di più per avere il suo posto nel mondo, ancora oggi. E poi: perché non sono brutta. E questo in alcuni campi, come il mondo della techno, va a mio sfavore.
A tuo sfavore?
Sì. Perché ci sarà sempre qualcuno pronto a scrivere che ho qualcuno che fa le cose al posto mio, che ho i set premixati… Ecco, parliamo di ‘sta cosa dei set premixati, va’: più o meno un anno fa ho messo un edit di Kerri Chandler, mi pare “Stand By Me”, e ad un certo punto si vede che la voce si abbassa – per far partire il coro del pubblico, appositamente – ma io non sto toccando il mixer. Apriti cielo! “Ecco, ecco la prova, è tutto un premixato!”. Peccato che sia proprio l’edit che è stato costruito così, apposta. E non importa che sia intervenuto direttamente chi ha fatto, l’edit, a dire “Ma no, è fatto proprio così”: non gliene importava niente a nessuno. L’importante era aver trovato un pretesto per rompere i coglioni a me. Solo quello contava, non come stessero davvero le cose.
Sei vuoi aggiungo un altro punto che è, paradossalmente, “perturbante”, per quanto riguarda la tua figura: sei partita dalla gavetta, nel mondo della notte, e per gavetta intendo proprio che sei entrata nei locali facendo la barista e la cameriera prima, poi la ballerina/cubista. Cosa che ti viene rinfacciata, come se fosse un marchio d’infamia e la dimostrazione che tu non sei e mai potrai essere che una professionista seria. Lo trovo piuttosto bizzarro, e vedo di usare un aggettivo sfumato.
Già. Perché per un sacco di gente io già a dodici anni dovevi essere una collezionista di vinili e pensare solo a fare la dj, vero? Io invece sono orgogliosa del percorso che ho fatto. Sono orgogliosa che quando avevo vent’anni, e lavoravo nel modenese, allo Jam, come barista, a fine serata il proprietario mi dicesse “Senti, se ti allungo un 20 euro in più mi aiuti a pulire i bagni?” e io per questi 20 euro tiravo su pozze di vomito di lambrusco e tortellini (perché si sa, di là la dieta è quella) e lo facessi ben volentieri, perché per me quei 20 euro all’epoca facevano la differenza. Sono orgogliosa di aver fatto tutto questo. Tanto. Cos’è, sei credibile solo se a quindici anni sei un mega-intenditore che vive circondato dai suoi dischi? Io la musica la ascoltavo. La ascoltavo fin da piccola. Ma sai cosa? Non potevo permettermela! Il primo stereo l’ho avuto solo a diciassette anni: prima non me lo potevo permettere. A tredici, quattordici anni passavo le notti col mio registratore a cassette a premere REC quando c’era qualcosa in radio che mi piaceva, questo sì, ed è così che ho iniziato a formarmi. Devo vergognarmene? Non sono e non potrò mai essere una artista rispettabile per questo? E comunque: per fortuna mio padre era un collezionista di dischi. Quando mi senti fare gli edit degli Abba o di brani della canzone napoletana, è perché grazie a mio padre io con queste cose ci sono cresciuta! Ed è stato lui a passarmi la sua collezione. Sì: io sono cresciuta con la musica anni ’60, ’70 ed ’80 grazie a mio papà, e ne vado orgogliosa. E per quanto riguarda la musica dance, la folgorazione fu con Madonna, con “Like A Prayer”: è lì che iniziai ad interessarmi a quella che poteva essere considerata musica “da ballo”. È un problema? Madonna è un problema? Ma poi, fammi dire una cosa…
Vai.
Io rido, quando vedo parlare e sparare giudizi certi cosiddetti “intenditori” della musica italiana. Questi intenditori sarebbero quelli che dettano le regole di ciò che è bello, di ciò che è qualità? E allora – com’è la musica italiana di questi anni? Che evoluzione sta avendo, a seguire le loro linee? Siamo sicuri che questi “intenditori” la sappiano allora veramente così lunga? Per me gli intenditori di musica sono quelli che la ascoltano: punto. E io ho più di un milione e mezzo di ascoltatori fissi su Spotify. Reali. Piace quello che faccio? Bene. Non piace? Bene lo stesso, perché ci sono abbastanza persone a cui invece piace. Sto sul cazzo? Eh, pazienza. Anche perché magari sto sul cazzo semplicemente perché faccio numeri di un certo tipo, numeri a cui arrivano in pochi – e di sicuro non ci arrivano quelli che mi criticano più rabbiosamente. E se mi dici “Eh, ma io ho iniziato a dodici anni ad ascoltare jazz, o la techno di Detroit” che dire: bravo! Ma basta veramente questo a considerarti superiore? Poi, c’è un’altra cosa che mi disturba fortemente. A questo punto le dico tutte…
Ah guarda, sei più che benvenuta nel farlo.
Ci sono artiste donne che hanno fatto una carriera lampo; ma siccome non sono esteticamente avvenenti, “sexy” tra virgolette come posso esserlo io o come può essere Nina, a loro non viene rinfacciato nulla. A loro, niente; a me, danno di una che ha fatto carriera troppo velocemente, grazie a non si sa cosa. A me? “Velocemente”? Sono quindici anni che suono. Ho iniziato nel 2007. Quindici anni! Ho fatto la gavetta vera, altro che carriera-lampo… Il boom per me è arrivato – e so bene quando è stato, perché quell’anno ho potuto comprare casa – sei anni fa. Prima di allora, ho passato tutto il tempo a lavorare come una matta e, sai cosa?, a farlo senza nessuna agenzia, facendo tutto da me. Tutto da sola. Sono entrata in una agenzia solo quattro anni e mezzo fa. Ed è stata tra l’altro una resa: perché io da sempre sono stata contro il meccanismo delle agenzie, l’ho sempre odiato.
Sì?
Quando sono entrata in Analog, sono stata chiara: “Non fate cazzate, non fate giochetti. Non imponetemi a forza nelle situazioni. Non provateci. Odio queste cose”. È che semplicemente non riuscivo più a stare dietro a tutto quanto da sola: ad un certo punto è diventato necessario, avere l’aiuto di un’agenzia.
Ma tutti questi ultimi anni che stiamo passando a parlare finalmente di inclusività, di parità di genere, a fare tavole rotonde, discussioni, forum on line, stanno servendo a qualcosa? O invece è solo apparenza & pinkwashing, e nelle realtà dei fatti non sta cambiando nulla?
È sempre un modo di uomini, il nostro. Continua ad esserlo, c’è poco da fare.
Sì, eh?
Anche se la percentuale di donne per fortuna si è leggermente alzata. Sai però qual è la verità? Quando una donna si mette a fare un lavoro che di solito fa un uomo, fidati che lo fa sicuramente bene: perché ha dovuto faticare di più, per arrivare a fare quello che fa. Ha dovuto maturare più resistenza, più cervello, più cuore. E tutto questo lo dico credendo comunque nei ruoli, sì: un vigile del fuoco, mediamente è meglio che lo faccia un uomo; la baby sitter, una donna. Ma questo non significa che non possano esserci degli ottimi vigili del fuoco donna, o bravissimi baby sitter uomo, o che una donna per dire non possa lavorare come muratore facendo bene; ma sarebbe stupido non dire che di solito per fare il muratore è più adatto un uomo. Io sono contentissima che siano arrivate sulla nostra scena moltissime donne a spaccare il mercato. Peccato però che resti sempre quella roba implicita per cui una donna, per essere credibile, non deve essere figa. Non deve insomma essere femminile. Com’è possibile? Sai, con Nina (Kraviz, NdI) siamo molto amiche, ci sentiamo spessissimo, e io per lei ho una stima enorme: lei quando è arrivata sul mercato ha fatto il culo a tutti quanti, e lo ha fatto a modo suo. Ma sai perché lei sta avanti anni luce, ancora adesso? Perché ha sempre fatto quello che voleva. Fin da quando ha iniziato.
Cioè?
Aveva voglia di mettersi il rossetto? Se lo metteva, anche se a farlo si passava per “commerciali”! Aveva voglia di mettersi la minigonna? Idem! Per me il suo esempio è stato fondamentale, prima ancora che poi ci conoscessimo bene e diventassimo amiche. Perché io all’inizio avevo molta paura di mostrarmi – di mostrarmi per quello che ero davvero, intendo. Che è come mi vedi oggi, e come sono sempre. “Sexy”? Boh, guarda, è un aggettivo che mi sta pure sulle palle; di sicuro sono molto fisica, ma lo sono anche indossando una maglietta, dei jeans e della scarpe da ginnastica – e infatti mi vedi vestita sempre così, l’hai notato? C’è stato un periodo in cui continuavo a fare la guerra sui social: rispondevo alle persone che mi criticavano, mi incazzavo, volevo far valere le mie ragioni. Ma da quando ho imparato a conoscere bene Nina, non me n’è fregato più nulla. Ho imparato a viverla molto serenamente. Anzi: di più.
Di più?
Oggi quando vedo tutti questi commenti che partono dal presupposto che io sono troppo figa per fare il lavoro che faccio, la prima cosa che mi viene da pensare: “Ma dai? Grazie! Perché mi stai facendo un bellissimo complimento, sai?”. Perché bello mio, io non ho più vent’anni, ne ho quarantatrè. Prendi una ventenne qualsiasi nel centro di Napoli, e stai sicuro che molto facilmente sarà mille volte più figa di me! Le dai 300 euro, dille di fare finta di suonare, tanto oggi si può fare: dovresti ottenere già tutto, no? E allora com’è possibile invece che continuano a pagare me molto, molto, molto di più per suonare? Com’è che cercano me? Se bastasse la bellezza e stesse tutto in essa, non pensate che sarebbe più semplice ed efficace trovare una tizia più figa di me, che non ci vuole molto, e farla suonare a due lire, guadagnandoci infinitamente di più?
Ha senso.
Giusto se vedo dei commenti maleducati allora mi diverto, ogni tanto, a distruggere chi li fa tornando battagliera, quella che ti risponde diretto. Se uno arriva da me ed inizia a sbraitare “Fai schifo, non piaci a nessuno” è bellissimo poter rispondere “Ah sì? Il mio conto corrente dice il contrario”. Non me la prendo più, ho imparato anzi a divertirmici sopra. Perché ho visto che sotto i post di tutte queste dj che sono un minimo piacenti – Peggy, Nina, eccetera – c’è sempre, sempre, sempre una marea di insulti. Insulti che guarda caso non vedo mai, e che soprattutto non vedo con questi toni, sotto i post dei dj uomini, vecchi o nuovi che siano (…e soprattutto quelli nuovi magari sono talmente cresciuti nell’era del digitale e dei software che i CDJ manco sanno usarli bene… Ma a loro nessuno viene a dire “Usi i premixati, non sei capace”). E poi ancora, “Sicuro che c’hai il ghost producer” lo scrivono sempre e solo alle donne, l’hai notato? Ma dai! Cari miei, se sapeste quanti dj uomini usano in lungo e in largo i ghost… Ma non farmi parlare, oh, sennò finisce a botte.
Vabbé: prendi Martin Buttrich. Credo che lui abbia scritto praticamente per chiunque. A partire dagli uomini, anzi, direi soprattutto quelli.
Bravo! Bravo! Volevo proprio farti quel nome lì. C’è gente che è vent’anni che si fa fare i dischi da lui; eppure, prende gli stessi soldi che prendo io, per suonare. E nessuno gli dice un cazzo. Tra l’altro spesso dischi pure abbastanza loffi, eh; e tu invece rompi il cazzo a me, che sforno una hit dietro l’altra? Ma che davvero? La mia versione di “Children” ti potrà anche fare schifo, ok, ma intanto ha tipo 7 milioni di play su Spotify. La gente, quando mi viene a sentire, conosce le mie tracce. Le chiama, le richiede. Quanti personaggi così tanto celebrati e così tanto considerati hanno una fan base così attenta ed appassionata, per le cose che producono loro in prima persona?
Ecco. Non hai l’impressione che ogni tanto gli eventi “nostri”, quelli techno e house insomma, siano ormai diventati un po’ una messa cantata dove la gente non si diverte davvero, ma recita il fatto che si stia divertendo?
Quando suono io, metto una techno che è divertente, che è melodica. Non suono treni che non finiscono mai, per intenderci. Io posso mettere una roba pesante, e subito dopo però gli Abba; e di sicuro, metto un sacco di produzioni mie, che creano sempre un certo tipo di identificazione col pubblico. Ad ogni modo: sì, è vero, ogni tanto quando arrivo a suonare in un posto noto che chi suona prima di me o dopo di me più di una volta non guarda la pista, pensa solo a se stesso, anzi, a quello che secondo lui è giusto per se stesso. Col risultato che la gente si annoia, lo vedi proprio. Boh, certe intro di sette minuti senza cassa… o certi treni infiniti, come si diceva… Non sei al Berghain, capisci? Io ho una routine: di solito i primi tre, quattro pezzi che metto sono sempre gli stessi, lo faccio perché ho bisogno di ambientarmi, di partire con dei riferimenti sicuri prima di sentirmi a mio agio, perché ancora adesso un attimo prima di salire su una console ho il terrore tipo “Oddio, non ci sarà nessuno”, “”, quindi quel quarto d’ora “sicuro” mi serve per rilassarmi; e poi, da lì, inizio a suonare sul serio, stando molto, molto attenta ad interpretare la pista e a farla divertire.
Ma c’è tanta differenza tra il pubblico italiano e quello di altre nazioni, nel comportamento, nel modo di vivere il dancefloor?
In Italia, purtroppo devo dirlo, si va molto più per il “personaggio”. Molto, molto di più. Sì, diciamolo: da noi si è un po’ persa la cultura musicale. E guarda eh, già mi immagino uno che legge e inizia a dire “Ma proprio questa si mette a parlare di ‘cultura musicale’, ma stiamo scherzando! Questa qua! Questa che mette le canzonette napoletane!”… Sì, care teste di cazzo, proprio io! E penso proprio di poterlo fare, perché invece di fare il solito brano preconfezionato che esce sulla solita etichetta che va tanto di moda, io faccio qualcosa di completamente diverso, con dei suoni che non sono i soliti – e metto insieme della roba che voi nemmeno vi sareste sognati. Io prendo “Ragione e sentimento” di Maria Nazionale, e la faccio ricantare ad una amica mia: falla tu, una cosa del genere! Può piacerti, può non piacerti, ma prova a farla tu, invece di propormi per l’ennesima volta la solita marcetta che è uguale a quella che fanno e suonano già tutti.
E le cose che fai, piacciano o non piacciano, in effetti funzionano. Numeri alla mano.
“Prumesse” di Franco Ricciardi ha milioni su milioni di play su Spotify: che lo vogliate o meno, questa è la realtà. Che poi, sai perché mi diverto a fare questi esperimenti, a scegliere queste soluzioni che so che a molti fanno storcere il naso? Perché mi piace rompere il cazzo alla gente. Mi piace rompere il mercato. E mi piace che la gente si divida, accidenti se mi piace: non voglio mettere d’accordo tutti. Zero. Se sei uno che mette d’accordo tutti, fidati, vuol dire che c’è qualcosa che non va.