Nel nostro mondo, molti girano attorno alle cose. Edulcorano, silenziano, non dicono le cose come stanno, fanno passare solo messaggi euforici di trionfo, entusiasmo, vittoria. Una linea che è stata portata avanti praticamente da sempre: e se all’inizio, quando in Italia il fenomeno dei dancefloor in quattro quarti è esploso (coerentemente col resto d’Europa, ma ogni tanto anche in anticipo, prima e meglio), la cosa poteva essere comprensibile, da molti anni a questa parte la storia della club culture in Italia è fatta sì di grandi ascese e trionfi, ma anche di crisi prolungate e battute d’arresto. Però guardatevi attorno: quasi mai leggerete nero su bianco che qualcosa è andato male, qualcosa non ha funzionato. Se è vero che da un lato è bello che tutti ci si senta partecipi e si faccia il tifo per il successo collettivo della scena (…ma è veramente così?) nascondendone i lati meno vincenti, dall’altro proprio la superficialità e la monodimensionalità della comunicazione rischia di essere una zavorra. Ed attenzione: vale anche per chi, dal balconcino dell’underground, gufa contro tutto quello che reputa troppo mainstream, sputtanato e commerciale. Anche questa è monodimensionalità, e bella ottusa – oltre che un cattivo servizio all’informazione.
Ad ogni modo: ci sono due eventi per cui abbiamo speso recentemente belle parole, questo e questo, e vi diremo – entrambi hanno dimostrato di meritarle, le belle parole in questione. Perché musicalmente, ma anche a livello di atmosfera, è stato tutto decisamente all’altezza. Per quanto riguarda Capriati & Friends il padrone di casa ha tirato fuori uno dei migliori set che gli abbiamo mai sentito fare (techno ma “espressivo” e coinvolgente), il momento della “All Star” partenopea con Parisio, Markantonio, Madonna, Capuano è stato tanto emozionante quanto esaltante (e si è “respirata” davvero la specificità della via napoletana alla techno, disegnata ancora negli anni ’90 ma ancora attualissima), Ralf molto bravo, GNMR pure, Silvie Loto e Cassy assolutamente appropriate, e il fatto di stare in un posto iconico come lo Stadio San Paolo, pardon, lo Stadio Diego Armando Maradona è stato un valore aggiunto pazzesco. Ma davvero pazzesco. Chi c’era, lo sa.
Su Polifonic a Milano invece possiamo dire che è stata una delle migliori concentrazioni di qualità che abbiamo sentito da tempo a questa parte in ambito di “clubbing intelligente” in una forbice che va dalla techno di Mills e Surgeon (bravissimo quest’ultimo, un set intriso anche di electro e drum’n’bass davvero me-ra-vi-glio-so) al balearicismo di Troxler e Palms Trax (molto bene quest’ultimo), ma con in mezzo qualcosa di molto, molto, molto significativo: il fatto che ci fossero tanti talenti italiani (citiamo Simone De Kunovich, Nicola Mazzetti e Dirty Channels a rappresentanza di tutti, ma il dato di fatto è che il deejaying in Italia per il clubbing di qualità ha raggiunto un cazzo di livello altissimo), e il fatto che ci fossero molte ragazze, in una suddivisione della line up quasi 50/50, fatta non per opportunismo ma per convinzione e conoscenza delle doti giuste – e infatti il risultato è stato qualitativamente ottimo. Davvero: il primo Polifonic milanese è stato un seminario di come va costruita una line up oggi, se vuoi affrontare con classe e visione aperta (e competente) ciò che è club culture oggi, dando il giusto rilievo a chi per anni è stato sottostimato (i local heroes, le ragazze in gamba).
Tutto bene, tutto bello? Tutto benissimo, tutto bellissimo? Torniamo a casa felici e via verso le prossime avventure? No. Parliamoci chiaro: a Napoli, per Joseph Capriati & Friends, sono arrivate molte meno persone del previsto. A occhio un 5/6.000, a fronte di aspettative che moltiplicavano almeno per tre queste cifra. Vero che c’era il biglietto alto (ma l’evento con la beneficenza come causa, con l’Unicef a fare da garanzia: meglio spendere per queste cose o pagare 20/25 euro un drink?), vero che l’evento è stato annunciato tardi (per le difficoltà di mettere su un evento in uno stadio, con vari permessi e contropermessi), ma resta di fatto che la cornice di pubblico è stata deludente, al di là del fatto che chi c’era ha fatto sentire il proprio calore per tre, rendendo comunque la serata davvero intensa nonostante gli ampi spazi vuoti.
A Polifonic, per certi versi, è andata ancora peggio: a occhio un 2500 persone la prima giornata (poi in realtà, col circolo e ricircolo durante la giornata, si sono superati nettamente pare i 3000 sfiorando i 4000), il sabato, quasi la metà invece il giorno successivo. Col risultato che, per creare un minimo di effetto-massa, la domenica si sono chiusi in anticipo i due set minori (costringendo ad esempio Surgeon a suonare due ore prima rispetto a quando annunciato, di fronte a un centinaio scarso di persone) per convogliare tutti davanti al Main Stage, così, beh, almeno Seth Troxler aveva il bagnetto di folla davanti. Il fatto che il festival sia stato prodotto molto bene (impianti ottimi, allestimenti belli, un uso intelligente degli spazi, nessuna manchevolezza nell’organizzazione artistica) ha reso ancora più amara questa bassa risposta del pubblico. Per l’ennesima volta si è dimostrato che a Milano pensare di andare “contro” la Design Week (o, a seconda delle prospettive, “cavalcarla”) è qualcosa che non paga. Ci si è scontrato contro Elita, che infatti ha chiuso, ora è toccato al primo Polifonic milanese, e si è capito che la città è talmente drogata di eventi gratuiti in quei giorni che – se c’è da pagare – si fa di nebbia, e dal canto loro i tantissimi turisti / addetti al settore stranieri presenti si sono adeguati all’andazzo, decidendo anche loro di non spendere quattrini per andare a vedere un festival coi controfiocchi, tanto la città è già piena di eventismo a costo zero.
Due anni di stop pandemico hanno fermato un certo tipo di forza d’inerzia e di rendita di posizione nel mercato del dancefloor, forze e rendite che prima sembravano invece inscalfibili
Ma non è solo questo. Non è solo questione di Design Week o, nel caso di Capriati &Friends, nel fatto del poco tempo per promuovere la data (…e forse è stata anche promossa non benissimo: lo si è fatto troppo in modo “alto” istituzionale, probabilmente poco in ambito “basso” e “di strada”).
La verità è che certi nomi del clubbing “nostro” – anzi, praticamente tutti, anche quelli più collaudati e collezionisti di trionfi – ad oggi, anno 2022, non danno più la garanzia di riempire, di vendere insomma un certo numero di biglietti. L’onda lunga durata quasi due decenni in cui il mercato techno/house ha continuato a crescere è dopo la pandemia in una fase di stanca, se non addirittura di risacca. Se l’artista X prima vendeva di sicuro 2000 biglietti (o 5000, o 10.000), ora è cara grazia se ne vende la metà; se l’artista Y prima garantiva 700 persone, ora sappi che ne garantisce poco più di un terzo, a stare larghi. Prendiamo ad esempio il caso di Mills, un nome al di sopra di ogni sospetto e di ogni critica (anche perché continua a fare set di qualità e proporre progetti di spessore): un tempo eri praticamente sicuro che sparavi il suo nome in cartellone ed accorrevano in migliaia a sentirlo, oggi queste migliaia possono all’improvviso diventare centinaia. E non è solo questione che “…i vecchi miti hanno stufato, sono fuori tempo, non stupiscono più”: anche chi è diventato un leone ad Ibiza o nei mega-festival, o chi comunque ha uno storico collaudato negli anni, oggi non dà nessuna garanzia di sbancare il botteghino. Ma proprio nessuna. Due anni di stop pandemico hanno fermato un certo tipo di forza d’inerzia e di rendita di posizione nel mercato del dancefloor, forze e rendite che prima sembravano invece inscalfibili.
Le agenzie di booking e i management (e qualche volta pure gli artisti stessi, diciamolo) stanno facendo finta di non vedere questa cosa. Accidenti, sì. In pochi hanno iniziato ad abbassare i cachet; quasi tutti partono da richieste che sono quelle che si potevano fare quando tutto era in costante ascesa e crescita (o sembrava essere tale…), e fanno molta fatica a capire che – se invece non abbassano la cresta – a breve o se ne vanno a suonare per i soldi della criminalità organizzata (che sia di Stato o privata) e per i petrodollari arabi, o hanno sempre più sulla coscienza un sacco di promoter sull’orlo della bancarotta se non oltre. Il sistema industriale attorno a techno e house continua a comportarsi come se tutto stesse crescendo, quando è vero il contrario, almeno nella cara vecchia Europa.
Fa rabbia che questo accada in un momento in cui la qualità media della musica è piuttosto alta. Chi prima suonava benino oggi suona infatti molto bene; chi prima era noioso come la morte (ma incassava) oggi si sta sforzando di suonare meglio e più vario; ed anche chi è sempre stato snobbato – perché poco bravo sui social, perché troppo buono, perché visto solo come resident o poco più – ora sta iniziando ad avere finalmente i propri spazi, grazie al fatto che i promoter più avveduti hanno imparato che la qualità musicale la trovi ascoltando la musica, non guardando la lista della spesa dei cachet o i follower su IG. La musica techno e house è insomma in salute molto più ora di quando invece, fino a pochi anni fa, mieteva crescite su crescite, guadagni su guadagni.
Forse il punto sta proprio nel fatto che quando hanno iniziato a girare tanti soldi e sempre in crescita, si è messo da parte lo spessore artistico e il contenuto per pensare invece a massimizzare il business. Una dissennatezza, uno spreco – e oggi stiamo iniziando a pagarlo. In differita.
Siamo infatti convinti che se oggi il mondo techno e house sono a sorpresa in calo come popolarità e partecipazione (a parte episodiche eccezioni), è proprio perché per anni sono state vendute come situazioni “bellissime” e “vincenti” delle serate o giornate nei festival che invece erano musicalmente proprio piatte, mediocri, e la gente più che divertirsi davvero si sentiva obbligata semmai a “esserci” – per sentirsi parte anche lei di questo fenomeno scintillante&vincente della club culture, che tanta gioia e tanta euforia distribuisce, per questo, mica per altro. Mica per la musica cioè e la felicità vera del ballo e dello stare con la gente, se non in minima parte. Ora piano piano stiamo iniziando a pagare questo disallineamento. Stiamo iniziando a pagare anni, anzi, decenni di crescita “drogata”: dove anche l’euforia e la felicità sono diventate merce e marketing, invece che sentimenti sinceri. Il risultato è che proprio ora eventi belli, dalla qualità musicale alta e dallo sforzo organizzativo notevole, stanno iniziando a prendere delle batoste che sembravano impossibili fino a tre, quattro anni fa, lì dove invece in passato eventi massificati e senza cuore invece andavano sempre bene, perché tanto bastava mettere in campo l’aura di questo o di quello, di Ibiza o di Berlino, che tutto s’aggiustava e trionfava. L’amara verità è questa. Vediamo che altro ci dirà quest’estate; ma i primi segnali sono chiari, e vanno proprio in questa direzione.
La verità è che certi nomi del clubbing “nostro” – anzi, praticamente tutti, anche quelli più collaudati e collezionisti di trionfi – ad oggi, anno 2022, non danno più la garanzia di riempire, di vendere insomma un certo numero di biglietti
Che fare? Prima di tutto, non abbattersi. Secondo di tutto, continuare a credere nella musica (o riprendere a farlo), perché a vedere il bicchiere mezzo pieno va detto che questa montante disaffezione significa anche che chi è abituato da anni a fare set col pilota automatico intascando poi migliaia se non decine di migliaia di euro a serata vedrà ora progressivamente minata ed a rischio questa propria rendita di posizione. Terzo di tutto, infine: se si è pubblico ora si torna un po’ più ad avere il coltello dalla parte del manico, finito infatti il tempo in cui siamo considerati una massa di pecoroni a cui basta che servi il nome X o Y e tutti accorrono, inizia piuttosto la fase in cui il promoter deve tornare a studiare, a dimostrare di avere gusto, capacità di ricerca, senso di innovazione e coraggio, perché altrimenti i numeri a fine serata o a fine evento lo bastonano. Le scelte “in automatico” non bastano più.
Non siamo ingenui, sappiamo cosa succederà: all’inizio questo improvviso senso di incertezza e di contrazione convincerà molti dell’industria ad andare invece proprio solo sui nomi cosiddetti “sicuri” (aka, i soliti noti e per questo anche i soliti sempre più strapagati); ma ben presto si capirà che ciò che prima era “sicuro”, oggi è molto meno “sicuro” di prima. Anzi: inizia a essere dannoso. Oh yes. E a questo punto riusciranno a stare a galla solo gli artisti (e i loro team) che avranno la capacità di scuotersi, di smettere di fare solo il compitino e di cercare solo il successo facile e l’incasso veloce, quelli che non si abbatteranno se la ruota non gira più liscia e scintillante come prima ma, dedicandosi alla musica e al migliorare se stessi come artisti, troveranno l’energia giusta per continuare a fare bene le proprie cose ed essere felici nel farle. Joseph Capriati a fine serata era molto felice: ne aveva ben donde, ha creato un evento splendido. I vertici di Polifonic hanno diffuso dei bei ringraziamenti via social, dicendo che il Polifonic milanese è stato un momento importante: sono titolati a farlo, eccome, perché hanno offerto un festival di qualità musicale eccelsa e che per giunta ha valorizzato bene il prodotto locale e la componente femminile non col protezionismo, ma con la competenza di saper chi chiamare, di saper chi mettere sul piedistallo come protagonista. Insomma: due eventi che sotto molti punti di vista sono stati un flop, in realtà più di altri e meglio di altri hanno mostrato la via su come supereremo la crisi che sta arrivando (e che in realtà per qualcuno c’è da più di qualche anno, per quelli che stanno ai piani bassi e non sono nell’aristocrazia mondana del clubbing).
L’importante è non fare gli struzzi, mettendo la testa nella sabbia; l’importante è non essere ciechi ed arroganti, pensando che se ti è andata di lusso finora, beh, allora sei tu che sei intelligente e sono gli altri che sono scemi, quindi continuerà ad andarti bene ancora ed ancora, al di là di queste momentanee turbolenze. No: non sono momentanee turbolenze. Zero. Sono nodi che stanno venendo al pettine, investendo tutti, investendo colpevoli ed innocenti, furbi ed ingenui, bravi e meno bravi.