Prima della consacrazione di Kendrick Lamar come il più grande liricista vivente, un altro rapper sembrava dover ereditare quel titolo: Earl Sweatshirt.
Negli anni attorno al 2010, Earl era l’astro nascente di quella che era la crew più forte del mondo: Odd Future. A soli sedici anni con il suo primo mixtape aveva ottenuto fama e successo, era diventato il pupillo di Tyler The Creator e sembrava avere tutto il futuro dalla sua parte. Ma la madre aveva altri progetti per lui, e lo spedì in un collegio per ragazzi problematici. Da quell’esperienza l’ancora giovanissimo Earl ne uscì cambiato, e i suoi dischi successivi (“Doris” e “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside”) sono la riprova dell’abbandono di quello che sembrava dovesse essere il suo naturale percorso verso il mainstream, per avviarsi in un sentiero di chiusura sempre maggiore su stesso.
A causa di queste vicissitudini personali – a cui se ne aggiungono altre tra cui problemi di abuso di droga, un rapporto complicato con il padre morto qualche mese fa e, dulcis in fundo, la morte dell’amico Mac Miller – quel ruolo ora sembra quanto mai lontano da lui e, nonostante ne abbia le capacità, Earl non sembra neanche interessato ad inseguire il titolo di re della scena.
Non fosse così non avrebbe rilasciato a tre anni dal suo ultimo disco, un lavoro come “Some Rap Songs”: sintetico, sporco, minimal, controcorrente. Già il titolo è una dichiarazione di intenti ben precisa, a Earl interessano poco i convenevoli e le apparenze. Il titolo del disco (che letteralmente significa “qualche canzone rap”) e la cover (una fotografia di una figura in movimento) sono quanto di più anti-pop pensabile. Danno l’idea di raffazzonato, di improvvisato all’ultimo istante giusto per buttare fuori qualcosa. Attenzione a non confondere questa scelta estetica con quella adottata da Salmo per il suo “Playlist”, perché non sono la stessa cosa. Nel caso di Salmo la cover è stata selezionata come mossa contro intuitiva: dal momento che tutti si aspettavano qualcosa di elaborato, lui è andato al minimo. Nel caso di Earl si tratta di una dichiarazione di intenti: “se il criterio per avere successo è l’estetica, io sto dalla parte opposta”. Un pensiero coerente con il titolo del suo precedente lavoro: “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside”.
“Some Rap Songs” è un album ridotto all’osso, fondamentalmente semplice nella sua struttura, ma estremamente denso a livello di contenuti. La durata complessiva del disco si attesta intorno ai venti minuti, che per tredici tracce significa una composizione che mediamente non supera neanche i due minuti a canzone.
Detto ciò si può notare come la scelta dei dischi brevi sia stato un filo rosso di questo 2018, quasi una nuova tendenza di mercato per andare incontro agli ascoltatori, sempre connessi ma sempre distratti. Si tenta quindi di far accadere tanto in poco tempo, che sia sulla lunghezza minima della canzone, o sulla riduzione all’essenziale del disco. “Whack World” di Tierra Whack è forse l’esempio più eclatante, con un disco di quindici tracce da un minuto ciascuna; ma anche il buon Kanye West (di cui si può dire di tutto, ma di certo non è scemo) ha optato per dischi brevi nel suo mese di iper produzione: cinque dischi da sette tracce ciascuno.
Passando alle tematiche, “Some Rap Songs” è un disco molto personale, dove l’autore si mette a nudo all’interno davanti al suo pubblico parlando dei propri demoni: la depressione, la famiglia (il rapporto con la madre; ma anche e soprattutto con il padre, attivista e poeta sudafricano di cui viene anche ripreso un componimento), la fama, la dipendenza dalle droghe. Questa mole di lavoro viene gestita dall’artista in modo essenziale, con canzoni brevi e molto incisive, un strofa e il ritornello, oppure poche frasi ripetute per tutta la canzone. Earl si dimostra ancora un abilissimo narratore, e un liricista formidabile (a dimostrazione che le speranze riposte in lui non erano casuali): giochi di parole, incastri, flow diversi, dimostrano massima abilità sul beat. Le produzioni seguono la medesima logica, campionamenti essenziali e loop per tutto il pezzo, di modo da lasciare spazio all’autore e al rappato. Il ritratto che ne esce fuori è quello dell’essere umano oltre l’artista, del ragazzo di ventiquattro anni più che della rapstar.
Yeah, I think I spent most of my life depressed (Most of my)
Only thing on my mind was death (On my)
Didn’t know if my time was next (Next, yeah, yeah)
“Some Rap Songs” si attesta di sicuro tra i migliori dischi di questo anno ormai agli sgoccioli. Si tratta di un lavoro coeso e compatto, lontano da ogni logica commerciale, che predilige la destrutturazione del classico pezzo rap per avviarsi su strade più sperimentali, e non convenzionali. È facile immaginare che possa essere il classico disco adorato dalla critica, ma meno apprezzato dai fan.
Earl è la prova che il rap fatto bene non passa mai di moda, e che mentre la bolla di hype attorno alla trap sta per esplodere, con il movimento (americano) che si sta avviando (forse) verso una fase manieristica della sua parabola. Per l’hip hop più classico potrebbe essere arrivato il momento di riprendere in mano le redini del gioco. Di certo con un Earl in più sarebbe più facile.