E’ stato un po’ il botto di Capodanno, almeno per chi segue le faccende di club culture sul web e ad esse si appassiona: il post in cui Radio Slave – che ironicamente usa la definizione “my New Year message” – spiega come diventare un dj professionista nell’anno domini 2018, quali cioè sono i criteri e le mosse da seguire, ha avuto un successo strepitoso. Per chi non se lo fosse ancora letto, eccolo qui:
Bello? Brutto? Condivisibile? Non condivisibile? Ipocrita? Tardivo? La discussione si è subito accesa, tra gli addetti ai lavori qui di casa nostra. Il punto è che a furia di accenderla in certe maniere, ‘sta discussione, si rischia di bruciare tutto quello che di positivo può portare (che è tanto). E sarebbe un problema. Yes.
Prima cosa da tenere a mente: come lo stesso Radio Slave ha più volte sottolineato nei commenti, è un post nato prima di tutto come divertissement, non come le tavole della legge con voci da seguire&venerare. Quindi ok: si può anche dire (eccome, se si può…) che Radio Slave per primo negli anni ha fatto il furbo e ha lanciato / si è potuto giovare del successo di artisti che qualche scorciatoina l’hanno usata, ok; così come si potrebbe dire “Bei discorsi, ma iniziamo a fare dei nomi: sennò sono parole furbette al vento, messe lì tanto per fare bella figura”. Vero? Vero. Tutto questo però è un modo per tramutare tutto nella solita gara di tifoserie su social: ci si concentra sulla figura di Radio Slave (…è buono o cattivo? E’ un eroe o è un opportunista?) e ci si accanisce a dibattere su questo, senza prendere veramente il meglio che potrebbe scaturire da una riflessione su quanto ha scritto e sul perché l’ha scritto.
Perché pure Radio Slave sa di essere (o almeno di essere stato) parte del problema. Ma guarda un po’, anche la stragrande maggioranza chi lo critica per pentimento tardivo, beh, magari in passato o in molti casi addirittura proprio nel presente si è fatto o si fa andare bene l’attuale sistema del clubbing: lo ha fatto criticandolo a parole ma cercando di sfruttarlo – aka guadagnarci qualche soldo sopra – nei fatti, oppure anche solo andando a ballare ad una serata di Innervisions o Four Tet, giusto per parlare di artisti ipermediatizzati, invece di privilegiare almeno una tantum Nas1 o Herva. I numeri parlano chiaro.
Se usate il post di Matt Edwards come una clava, per dire “Io ‘ste cose le dico da sempre, solo mo’ arriva questo”, o per affermare “Senti chi parla, lui che ha lanciato la Kraviz”, o per tirare fuori cose tipo “Sì, fa il saputello, ma tre giorni / tre mesi / tre anni fa l’ho sentito suonare, usava le chiavette e faceva schifo, ha fatto un set piattissimo”, ecco, magari serve per fare bella figura rispetto a voi stessi ma è complessivamente inutile rispetto alla cosa che più dovrebbe starvi e starci a cuore: riportare un po’ di calore, buon senso, spontaneità ed umanità dentro l’esperienza del clubbing. Un’esperienza che sta mostrando la corda per vari motivi – e uno di questi l’ha descritto con chirurgica efficacia Matteo Cavicchia qui da noi un paio di giorni fa, in un articolo da leggere e rileggere.
In questo momento, in questo preciso periodo storico-artistico per la club culture, meglio essere ingenui e costruire che essere intelligentissimi e picconare
Non è il momento per fare la gara a chi è più pulito, più underground, più incorrotto. Anche perché, sinceramente, forse qualcuno di veramente “pulito” esiste: ovvero chi non si è avvicinato nemmeno per un attimo all’organizzazione di serate e/o all’appassionarsi di musica elettronica, ed è vissuto in un grotta (o nella bolla della discografia di Dario Baldanbembo o Fra’ Cionfoli) negli ultimi vent’anni. Stop. Anche le situazioni più sotterranee ed apparentemente anticommerciali oggi, volenti o nolenti, hanno a che fare con trend e mode, con periodi, con criteri sul proprio successo che esulano dalla musica in sé (la gente viene da me perché piace quello che propongo, o perché venire da me fa figo, o perché a venire da me ti sfondi senza problemi a basso costo? Dove sta la verità?). Non parliamo poi delle realtà più canoniche, più linearmente imprenditoriali: quelle dove si fa sì cultura e si propongono cose più o meno di qualità, ma dove si cerca di rispettare le leggi vigenti, si sta alle leggi di mercato sui cachet e si prova al contempo a far quadrare i conti a fine mese. Con tutto quel che ne consegue.
Ma quindi?
Bisogna essere realisti. E, al tempo stesso, bisogna essere idealisti. Cosa significa? Significa che da un lato immaginare, anzi, pretendere l’immediato avvento di un Eden, di una club culture incontaminata accessibile solo ad “eletti” che si basa solo sul valore di un determinato tipo di musica – partendo però dal presupposto che questo valore sia oggettivo, misurabile con precisione, e che ti consenta di dire “Questo sì, questo no” – è a essere gentili un po’ drastico, ad essere invece cattivi proprio dannoso: perché fa passare l’idea che esista una Polizia Del Gusto, tipo qualcosa che decide cosa è bello e cosa no, cosa è giusto e cosa no. Una prospettiva preoccupante, se chiedete a noi. Di sicuro, un approccio dogmatico e poco realistico. Anche perché il gusto collettivo e il concetto di qualità non si formano secondo parametri oggettivi&immutabili messi in fila uno dietro l’altro, ma è piuttosto il risultato di una equazione dalle moltissime variabili – fra esse, anche la sostenibilità economica di quello che si fa, la capacità di comprendere o anticipare le variazioni del gusto collettivo, fare la cosa giusta al momento giusto. Perché se proprio vogliamo parlare di “parametri oggettivi”, l’unico parametro oggettivo sarebbe quello del riscontro numerico: quanto si guadagna, quanto sei popolare, quanto vendi. Ma abbiamo ripetuto più volte – e più volte ripeteremo – che la cultura ha dinamiche e leggi che sono diverse da quelle dell’economia e dell’aritmetica, visto che è una sfera che tocca il pensiero e l’emotività, entità di per sé incommensurabili, non riducibili a numeri.
Al tempo stesso bisogna essere idealisti. Basta cinismo, per favore. Basta “E’ tutto un magna magna”, basta “Sono tutti corrotti”, basta “E’ un sistema che premia solo i paraculi”, basta mettere l’accento solo ed esclusivamente (ripetiamo: solo ed esclusivamente) sui lamenti e sulle critiche. Perché a far così si passa per intelligenti, indubbiamente; ma non si costruisce un cazzo. A far così, ci si concentra su quanto puzza il culo a Matt Edwards (e magari su alcune cose gli puzza pure, chi dice di no), ma non ci si concentra su come un suo post nato per gioco in realtà aiuti anche ad introdurre dei bei criteri di selezione per capire cosa merita di essere sostenuto e cosa no, da cosa bisogna mettersi in guardia (i meccanismi di promozione facili ed “opportunisti”) e da cosa no, cosa implicano lavoro e passione reali e cosa invece solo fame per il successo istantaneo (un esercizio, questo, fon-da-men-ta-le). Ma soprattutto, a far così, a fare solo quelli capaci di criticare e decostruire tutto ciò che fanno/dicono terzi pensando alle varie dietrologie possibili, ci si autoassolve e ci si deresponsabilizza. E’ un modo per tirarsene fuori – sono sempre gli “altri” i corrotti, sono sempre gli “altri” quelli che spingono gli artisti paraculati e/o disonesti, sono sempre gli “altri” che fanno le serate coi nomi di gente che non è “vera”: ah sì? Davvero? Davvero davvero?
Basta cinismo, per favore. Basta “E’ tutto un magna magna”, basta “Sono tutti corrotti”, basta “E’ un sistema che premia solo i paraculi”, basta mettere l’accento solo ed esclusivamente (ripetiamo: solo ed esclusivamente) sui lamenti e sulle critiche
Sinceramente, a furia di puntare il dito si è perso la capacità di analizzare la realtà per quello che è (ricordandosi che sono possibili contesti diversi, dinamiche diverse, soluzioni diverse) cercando di tirarne fuori il meglio, cercando di evidenziarne il lato positivo. Vale per chi punta il dito contro chi è troppo commerciale e ne vorrebbe la morte, vale per chi punta il dito contro chi alza un sopracciglio sulle derive dove il commercio e i numeri sono gli unici giudici e ne vorrebbe la scomunica e l’irrilevanza. Stiamo perdendo il gusto della pluralità di opinioni e posizioni.
Il tutto con una conseguenza imprevedibile. Col risultato cioè di spianare così il terreno proprio ai peggiori, gli unici in grado di stare a galla quando al mare si sostituisce il fango: quelli che in silenzio e senza mai dichiararlo massimizzano le “leve” alternative alla musica per rendere il prodotto clubbing qualcosa di appetibile&compensibile (le mode, le chart, RA, questo, quell’altro, il pierraggio selvaggio: la fuffa astuta, insomma). Come mai? Perché proprio le persone che più dovrebbero essere appassionate e più dovrebbero essere coinvolte nel sistema clubbing, partendo dall’amore per la musica, perdono invece troppo tempo a dibattere al proprio interno su questioni machiavelliche e dietrologiche… facendosi una guerra che manco a sinistra del PD si litiga così tanto, quando in teoria si è tutti dalla stessa parte. Mentre noi si litiga, chi è più sveglio e pensa al soldo comunica messaggi semplici. Sbagliati, furbi, paraculi, disonesti, ma semplici. E quindi efficaci.
E allora. Bisogna essere idealisti: ritrovare il gusto di proporre, innovare, riportare al centro del discorso la musica, anzi, le musiche (con la consapevolezza che la bellezza pura & riscontrabile oggettivamente in musica non esiste). Ok. Ma bisogna anche prendersi meno sul serio: perché stai parlando di musica da ballare. Non stai salvando persone da morte certa con un’operazione a cuore aperto in una tenda di fortuna sotto un bombardamento in Afghanistan. Bisogna poi crescere, e ricordarsi che una volta che non ci si fa mantenere più dai propri genitori l’infanzia finisce e oplà, ci si confronta finalmente col mondo reale – quello in cui anche la migliore delle idee non deve farti ricco, no, perché non è quello il punto, ma deve comunque avere una sostenibilità economica e giocare con i fattori ambientali che questo comporta, le dinamiche imprenditoriali che non sono mai del tutto eludibili (anche quando fai i free parties tekno). Ma resti idealista: non sarà questo a fermarti dall’avere nuove idee, entusiasmi, passioni, amori musicali.
Scegliamo quello in cui credere. Facciamolo, ci mancherebbe. E’ importantissimo. Scegliamo un clubbing dove torna in primo piano la musica, dove chi cerca scorciatoie promozionali viene preso in giro e – in ultima analisi – snobbato, dove la gente si diverte, dove chiunque è benvenuto, dove chi dimostra interesse per strade meno battute e meno commerciali guadagna dei punti in più nella considerazione generale (senza che questo significhi irridere e detestare chi la musica non la “sente” come te). A occhio, Matt Edwards col suo post ha voluto fare esattamente questo. Siamo con lui.
E’ proprio a furia di intelligenza&cinismo che noi appassionati più interni al settore ci siamo costruiti un pubblico di riferimento che segue soprattutto le mode
A non criticarlo e a non fargli le pulci, prendendo solo il lato “positivo” del suo post, passiamo per ingenui? Pazienza. In questo momento, in questo preciso periodo storico-artistico per la club culture, meglio essere ingenui e costruire che essere intelligentissimi e picconare. Perché è proprio a furia di intelligenza&cinismo, oh sì, che noi appassionati più interni al settore ci siamo costruiti un pubblico di riferimento che segue soprattutto le mode (perché vuole far vedere che “ci sta dentro”, che “ne sa”, che ci parla insomma da pari a pari), che è più attento alle chart di RA che alle proprie sensazioni, che preferisce il nome rivelazione del Dekmantel o dell’Unsound o del Sónar al dj sotto casa per quanto bravissimo egli sia. Già. A furia di essere intelligenti&cinici&supercompetenti, ci siamo un po’ complicati ed inquinati la vita da soli. E’ il momento di riaggiustare un po’ la mira, il tono, la prospettiva.
E prenderla con più scioltezza.
Perché se il clubbing è in relativa crisi è anche perché chi il clubbing lo fa, ecco, sta iniziando a diventare davvero troppo pedante. Per anni c’era motivo eccome di essere pedanti, oh sì: dovevamo affermare le radici e i confini della club culture, dovevamo farne capire l’importanza storica e la necessità di conoscerne le dinamiche (tanto diverse da quelle del rock ma anche da quelle della discoteca alla Vanzina & Claudio Cecchetto…), dovevamo far presente la ricchezza di un certo tipo di galassia socio-artistico-musicale in una nazione dove, per anni, la disco dance era una roba per qualunquisti disimpegnati (quando andava bene) se non addirittura per reazionari e fascisti (quando andava male), con una successiva evoluzione in “musica per drogati”. Venire fuori da tutte queste trappole non è stato semplice, anzi, forse non ne siamo ancora venuti fuori del tutto, ma moltissimo è stato fatto, e se moltissimo è stato fatto è stato anche grazie alla pedanteria, al voler spesso e volentieri rimarcare dei perimetri ben definiti su cosa è club culture e cosa no, su come funziona, su che senso ha.
Ora sotto certi punti di vista certi problemi sono stati superati. La dance è diventata un alfabeto comunemente accettato e comunemente compreso (o almeno intuito). Adesso la vera sfida da giocare è più sottile, anzi, le sfide sono due: la prima è quella di autoregolamentarsi al proprio interno, capendo chi fa le cose con coscienza e passione e chi invece solo per cavalcare il tentativo di gratificazione immediata; la seconda è quella di far sì che questo autoregolaramentarsi non vada a scapito del far capire all’esterno che club culture è prima di tutto un contesto di inclusione, condivisione, di espressioni artistiche curiose e coinvolgenti, di libertà, di playground in cui è possibile esprimere il meglio di sé uscendo dalla dittatura del sistema-lavoro codificato e delle sue regole.
A furia di prendere troppo sul serio le classifiche, le decisioni o le non decisioni redazionali di Resident Advisor e i post di Radio Slave facendone guerre di religione e/o campionati di dietrologia, ce ne stiamo dimenticando, concentrandoci sui problemi sbagliati. Occhio.