Abbiamo appena pubblicato un articolo che parla di una “fotografia” di una scena italiana, quella fatta soprattutto di cervelli in fuga: eccolo qui. Ma se per vedere quella istantanea, una fotoritratto di artisti che si sono fatti un nome su dimensioni tendenzialmente più berlino-europee, bisogna aspettare fino a metà aprile, per capire cosa sta succedendo in Italia – qui&adesso, e fra quelli che (ancora) non hanno levato le tende – non bisogna andare molto lontano. Bisogna andare verso “V”, la sontuosa per quantità (trentatré tracce) uscita in questi giorni su input della White Forest, che con questa release celebra il suo quinto anno di vita.
Raccolta sontuosa per quantità, ma notevole anche per qualità. A furia di vivere solo sull’immediato di internet e dei social, di questa uscita nelle nostre timeline se ne è parlato tantissimo al momento dell’annuncio e della messa on line (della trentina e passa di artisti coinvolti, ne conosciamo moltissimi di persona e molti sono feature regolari nel nostro diario quotidiano facebookiano, idem i loro seguaci più accaniti), ma da lì in poi non abbiamo visto molti pareri, recensioni, giudizi ponderati. Non è un discorso che vale solo per “V”: siamo entrati sempre più in un circolo vizioso per cui un annuncio del disco vale più di un giudizio ragionato sul disco stesso. Anzi: il giudizio ragionato manco interessa più farselo, l’importante è essere stati “sul pezzo” ed essere stati informati che c’era una nuova release interessante lì in città, di cui parlare con gli amici più hipster e/o più esperti per accenni e giudizi rapidi, non con ragionamenti più elaborati e complessi.
Non è sana per un cazzo, ‘sta cosa. Non è sana, perché ad esempio di “V” rischia davvero di passare in secondo piano quella che è l’anima musicale del tutto. Un’anima dove da un lato i singoli artisti riescono ognuno (ovviamente) a mantenere la loro identità; dall’altro però ascoltando tutte e trentatré le tracce si ricava una singolare impressione di coesione, di “comune sentire” sicuramente involontario ma non per questo meno avvertibile.
Ci sta: perché la White Forest pesca in un bacino ben preciso. Pesca nel bacino che non ha mai avuto la voglia, le palle, il coraggio, il cinismo per provare ad entrare nel giro-che-conta della dance (quello sull’asse Berlino-Ibiza, per intenderci), ma al tempo stesso non è mai stato a proprio agio coi dogmatismi più o meno modaioli più o meno commerciali dell’hip hop (paradossale per una cultura nata sul campionamento e sulla contaminazione di generi che non c’entrano fra loro, ma ormai sono decenni che l’hip hop è uno dei contesti più reazionari ed internamente omologati su come fare musica; ogni tanto arriva qualcuno o qualcosa ad immettere nuove declinazioni produttive, che sia Kanye o che sia Future per citare gli ultimi, ma da lì in poi sono sempre in altri trecento che le adottano e spazio per voci originali ed atipiche ce n’è pochino, sia nel mainstream che nell’underground).
Siamo entrati sempre più in un circolo vizioso per cui un annuncio del disco vale più di un giudizio ragionato sul disco stesso
Dove pesca allora? Beh, sicuramente come attitudine in quello che un tempo si chiamava IDM: elettronica che nasce come dance (house, techno o hip hop che sia) ma che programmaticamente si deforma, si piega, si contamina, esplora, sorprende. Nasce da quanto hanno fatto label come Planet Mu ed Hyperdub: perché quest’ultima è quella che ha lanciato Burial, e lo spettro del producer inglese – chiunque egli sia – aleggia in moltissime tracce di “V”. Qualche volta in modo esplicito (vedi Jaynes e la sua “Untitled Episode”), altre volte molto più in filigrana. Però c’è. Costante.
O in realtà, quello che c’è un senso di fragile cupezza, di poca fiducia. La fotografia che “V” restituisce è una fotografia piuttosto bella e affascinante ma, in qualche modo, poco assertiva. Non c’è un “suono” forte. Non ci sono colori forti. Non ci sono sicure e sguaiate sicurezze: non c’è la predatoria euforia di plastica che contrassegnò l’Italo Disco, non c’è l’hip hop che va in classifica ora, non c’è la routine dei forti e dei sicuri (quelli che, andando avanti col pilota automatico, sanno che il mercato e il pubblico li premieranno). La tracklist di questo compilation è costruita benissimo: infatti proprio l’iniziale “Tempo” dei Kassiel, una traccia veramente bella, è altamente simbolica. Batteria elettronica lo-fi mixata bassa, architetture ritmiche accennate ed incerte, interventi melodici dal suono sgranato e disturbato. E’ un brano che riesce a trasmettere al tempo stesso bellezza, malinconia ed insicurezza. Ma anche scorrendo le tracce, quello che non manca è sia la qualità (un sacco di gran belle idee) sia il senso di incertezza. Documentato anche dalla ritrosia che quasi sempre si ha nel comprimere e pompare le frequenze (cosa che fa l’hip hop italiano di successo oggi) ma anche nell’usare soluzioni svergognatamente pop (cosa che fa l’hip hop italiano di successo oggi, pt. 2).
Il pop affiora magari nelle striature depechemodiane di “Metamorphosis” di A Copy For Collapse, ma è declinato con una venatura di neuro-tristezza new wave. Andando su altri territori, il meglio del clubbing che piace-alla-gente-che-piace si sente tutto in “Future Trunks” di Broke One (che traccia!) ma pure lei, eh, non è una di quelle tracce che ascolti e balli mani in aria. Chissà, forse non è un caso che gli statement più forti ed assertivi arrivino probabilmente in due tracce (il remix di “Fantino” di Capibara fatto da SPLENDORE, la chiassosa “Modestino” di Enea Pascal) che sono fatte da gente che è ben coinvolta nel caso-“Cosmotronic”: quello che Cosmo ha creato (disco, serata mensile ad Ivrea, ora un tour particolarissimo fatto sia di live che di dj set, senza soluzione di continuità, per cinque, sei ore…) è una delle storie di successo del nuovo indie italiano, è insomma una nave che veleggia a gonfie vele.
In generale però né la White Forest né gli artisti che compaiono in “V” possono dire di navigare su navi che veleggiano a gonfie vele. Non lo diciamo per sminuirli, no. Anzi. In un mondo normale, questo disco dovrebbe ricevere molta più attenzione; in un mondo normale, quasi tutti i producer che figurano in tracklist dovrebbero avere abbastanza mercato e attenzione dal pubblico per vivere solo delle loro produzioni o dei loro live o dj set; in un mondo normale, quasi tutto dovrebbero avere un discreto nome anche all’estero. Come ce l’hanno ad esempio tutti coloro coinvolti nella raccolta della Stroboscopic Artefacts che citavamo ad inizio articolo, in uscita a fine aprile.
In Italia in qualche modo si dà per scontato che se fai musica di qualità, se hai talento e non ti vuoi svendere, devi essere – come dire? – un loser un po’ malinconico
La morale, allora, potrebbe essere preoccupante. La morale potrebbe essere che ancora adesso l’Italia è la periferia dell’impero: non riesce ad essere centrale nelle dinamiche del sistema legato alla musica elettronica (se non per quando è vacca da mungere, quando cioè vengono chiesti fee altissimi per artisti che a Berlino o a Londra suonano per due spicci e che comunque quando vanno in giro per il mondo – tipo Est Europa – si accontentano di meno). Di più: l’Italia continua a non essere un valore aggiunto. Questo nonostante si sia in un paese dove la musica c’è, circola, si vive, si respira, viene ascoltata. Ma in qualche modo si dà per scontato che se fai musica di qualità, se hai talento e non ti vuoi svendere, devi essere – come dire? – un loser un po’ malinconico. Almeno, nell’elettronica più creativa – e “V” è un ricettacolo di elettronica creativa – è così. La cosa viene vissuta come ingiusta, ma viene anche vissuta con fatalismo e rassegnazione. L’hip hop a lungo si è sentito un brutto anatraccolo schifato da tutti – “In Italia non si capirà mai la musica black” – e poi guarda invece cosa è successo, a furia di lavorare, insistere, costruirsi una fan base, credere in se stessi.
Vogliamo tanto che, fra cinque anni, quando la White Forest farà uscire “X”, nella sua tracklist ci siano moltissimi nomi che non devono più tenere la musica come hobby, ma rappresentino invece una presenza importante e consolidata nel panorama nazionale. Invece del sorriso del cazzo e artificioso di Sfera Ebbasta, sulle pareti della metro, sulla nostra timeline, nei rotocalchi di costume, vogliamo fra cinque anni qualcuno di quelli che sta in “V” adesso, qualcuno che oggi si sta facendo un mazzo tanto e con pochi riconoscimenti (e con la White Forest che fa ancora fatica a stampare regolarmente vinili e cd a discreta tiratura, per la paura di andarci sotto, una paura che una Text per dire non ha).
Perché le idee, la qualità, il talento ci stanno tutti. Ascoltare qua sotto per credere. In Italia, si sta facendo della buona musica elettronica come forse mai in passato, come del resto dimostra settimanalmente anche il nostro Giant Steps. Vediamo di farlo servire a qualcosa, tutto ciò.