“Arpo” non è un album facile, lo diciamo dall’inizio, è una di quelle composizioni che hanno necessità di tempo per sedimentarsi. Joseph Richmond Seaton in arte Call Super è uno di quelli che le cose te le rende difficili perché non concede appigli semplici da afferrare per “capirlo” e se con “Suzi Ecto”, primo album sempre su Houndstooth, l’impresa era ardua, con “Arpo” siamo difronte ad una sfida importante per qualsiasi ascoltatore. Perciò, se veramente volete entrare dentro la sua seconda raccolta, prendetevi il vostro tempo per farlo.
Con la title track “Arpo” riconosciamo qualche elemento in continuità rispetto al primo album, come l’utilizzo intensivo di sample di clarinetto prodotti live dal padre di Seaton, professore di musica e pittore (che ritroveremo anche in “Arpo Sunk”). In questa si riconosce l’antitesi freddo-caldo tra il digitale e la musica “suonata” ed è scontro incidente ma rispettoso: il rumore bianco sposa le note organiche di clarinetto poggiandosi morbidamente su una base ritmica semplice, cadenzata ed ipnotica. Verso la fine, le orecchie più attente riconosceranno un “okay” che decreta la fine della registrazione: un momento “vero” su musica molte volte considerata mero esercizio di knob. Il clarinetto e Seaton senior, che ha influenzato e di molto l’attitudine artistica di Call Super (che firma anche la copertina dell’album), si fa presuntuoso, improvvisato nel comparire; a volte fendente, altre delicato e sottile, come nelle lunghe note di “Out To Rust”, ending track dell’album. Call Super è riconosciuto come uno dei dj e produttori più imprevedibili ma attento alla resa sonora, alla precisione e pulizia (vuoi anche per lo stretto sodalizio con Objekt) ed infatti per l’intera esecuzione dell’album ritroviamo un attento dettaglio sui suoni e sui multilayer che in “Music Stand” ed in “Ekko Ink” raggiunge il punto massimo di attenzione: rumore e ancora rumore chetato da cadenzati percussivi e bleep anarchici. Un incedere dubboso persistente, chi conosce i dj set di Seaton sa quanto questo sia parte fondamentale del suo modo di stare in consolle, che ritroviamo in “Korals” e in “I Look Like I Look in A Tinfoil Mirror” – quest’ultima vera summa della nuova definizione di bass-music che gli artisti inglesi stanno disegnando (vedi alla voce il catalogo Whities), tra field recording, spazi bianchi, texture scomoda e lampi di suoni.
Nell’album non c’è mai vero spazio per una traccia che possa essere utilizzata in un dancefloor convenzionale come nel caso di “Hoax Eye” di “Suzi Ecto”; “OK Werkmeister” ha quel potenziale che in ” No Wonder We Go Under” si affievolisce se non per le stabbate di synth inserite su matrice di pad eterei, galleggianti. Verso la fine, “Trokel” rappresenta la perfetta sintesi dell’album: è un cammino su di uno stretto filo di seta che in ogni momento mette in bilico le tue certezze d’ascolto e lo fa spostandosi su tutte le coordinate di un immaginario spazio euclideo. Che sia destra o sinistra, su o giù, il cadere non ha valenza, sbattuto tra momenti estatici e depressi l’importante è percorrerlo ed essere in bilico.
La matrice sonora di “Arpo” è fatta di un sound potente, sfaccettato, multi-parallelo: c’è concomitanza e rincorsa tra i suoni come in “Any Pill” ed “Ekko Ink” ma non è scontato. Il primo assaggio decreterà che è pasta difficile da digerire ma un ascolto accurato e incondizionato permette di comprendere come questa complessità sia data solo dall’incastro di elementi semplici. SUPERbe.