Se mai ci chiedessero “Ma cos’è veramente l’hip hop, com’è ‘sta sua attitudine, me lo spieghi?” la tentazione sarebbe non quella di scegliere la strada più facile, fargli cioè vedere i video o i concerti dei “famosi”: perché una scena non è fatta solo di apici, quella è la punta dell’iceberg e solo il frutto finale di un lungo processo e di un lungo percorso fatto di “scena”. No. Faremmo un’altra cosa. Lo porteremmo davanti ad Alessandro Nuzzo, alias Sgamo, e diremmo: “Ok, parla con lui. Se sei sveglio capirai tutto”. Esattamente come l’hip hop più puro, non quello ostaggio di interpretazioni troppo intellettuali o intellettualizzate, può essere cafone ed urticante, anche noi a Sgamo ci siamo approcciati litigandoci brutto, pensando “E mo’ questo chi cazzo è”. Proprio da questo iniziamo la chiacchierata, una chiacchierata che poi si sviluppa per tutta la sua carriera – passo dopo passo, con momenti clamorosamente “cinematografici” da quanto assurdi – e che rende davvero l’idea dell’energia di questa persona e della cultura che rappresenta. E la rappresenta senza mediazioni, con un’energia incredibile, ma anche con una conoscenza e una abilità musicale, da dj, che fa veramente la differenza. D’altro canto, parliamo di uno che ad inizio carriera era resident nel leggendario Kode_1, quindi in rotte da clubbing di altissima qualità (ci capitavano Ben UFO e Kode9, non gli ultimi stronzi o dei pezzenti trap), ma che ha avuto la personalità cristallina per non diventare mai quello che non si sente di essere: un insegnamento bellissimo, forse il più prezioso. Il risultato finale è una delle interviste più divertenti ma anche in molti passaggi più emblematiche, significative ed istruttive che siano mai state pubblicate su queste pagine. La scusa per questa chiacchierata – che era da tempo che volevamo fare – era ed è il lancio di una iniziativa molto, molto interessante: Verbal Sound, una (per ora) entità su Telegram che mette in campo un concept davvero figo. Soprattutto se siete dj, o producer con l’attitudine da dj.
E’ divertente la cosa che ci siamo conosciuti, inizialmente, perché avevamo litigato pesantemente sui social, manco mi ricordo su cosa – comunque erano questioni di musica. Domanda: quanto è importante litigare, su questioni di musica?
In generale si dice che qualsiasi rapporto si fortifica dopo un litigio, no? Anzi, ti dirò, nel mio quartiere d’origine solitamente prima ci si menava, poi si diventava amici. Si vede che valeva anche per noi.
Poi, quando avevamo smesso di randellarci verbalmente e ci eravamo capiti, si era parlato di Top Dj, e di quanto fosse opportuno o meno parteciparci…
Che capitolo buio della mia vita!
Eh, addirittura!
Ha fatto la fine che si meritava, quel programma. Non era una roba “clean”, diciamo. E’ finita come doveva finire. Meno male.
Ti eri già stabilito a Milano, all’epoca, no?
In realtà era una cosa un po’ così: stavo scroccando casa a persone che frequentavo in quel periodo, che in quel momento erano negli Stati Uniti (pensa che giro…). In sostanza: tramite delle promesse mi era stato detto “Sali, sali a Milano a fare le audizioni per Top Dj, vedrai che ne vale la pena…” in modo molto allusivo; poi all’improvviso evidentemente per qualcuno valeva la pena più che per me e alla fine io è come se mi fossi beccato un metaforico “Tornatene in Puglia, tu e la tua valigia di cartone!”. Da lì in poi, è arrivata una bella depressione. Ho passato parecchi mesi sul letto senza capire cosa fare della mia vita.
Quando sei triste, cosa devi fare? Devi fare qualcosa per non essere triste! C’è chi si mette a mangiare cioccolato, c’è chi va a ballare la techno. Io sono andato a ballare la techno
Passo indietro in Puglia, allora. Torniamo agli inizi inizi: come avevi iniziato a fare da dj?
Il mio primo amore con la musica è stato sicuramente il rap. Un amore nato un po’ a caso e per caso, vedendo tipo un video di 50 Cent: “Uh, guarda questo che stiloso, guarda come si atteggia, come si veste, le fasce per i capelli: voglio essere come lui”. In quel periodo stavo pure lavorando in un negozio di streetwear quindi sì, mi ero fatto un po’ il viaggio di voler essere come lui, di svoltare come lui. Ho iniziato ad allenarmi parecchio nel rap, sono diventato anche bravino nel freestyle, ho conosciuto subito un bel po’ di gente della scena. Tutto questo fino a quando, nel 2010, avevo addirittura un disco da far uscire – un disco nota bene con dei featuring importanti, gente come Clementino, Gemitaiz, e tra l’altro proprio quell’anno c’era stata la grande esplosione dell’hip hop in Italia. Bene: è stata proprio quell’esplosione a fregarmi. Perché nel frattempo loro firmavano accordi importanti con etichette varie, e questo bloccava automaticamente il mio progetto. Gran tristezza. E lì, sai com’è: quando sei triste, cosa devi fare? Devi fare qualcosa per non essere triste! C’è chi si mette a mangiare cioccolato, c’è chi va a ballare la techno. Io sono andato a ballare la techno. Ballare la techno, andare ai rave. “Oh, ‘sta roba spigne”.
Che poi all’epoca se appartenevi alla scena hip hop dovevi odiarla, ‘sta roba.
Massì, mi ero capitato magari prima di andare a fare il vocalist in discoteca, ma appunto per me la discoteca era un luogo di lavoro, non un posto dove andarsi realmente a divertire. Invece, che botta scoprire ad esempio i rave… E poi i festival. Un anno andai a Monegros. Che roba. Mi ricordo ancora quando ci fu un set di Rusko – te lo ricordi, quello che faceva dubstep…
E certo che me lo ricordo.
In preda a non so quali follie, mentre suonava mi sono arrampicato sulla transenna fronte palco ed ho iniziato a simulare coi movimenti i bassi del suo set. La security, appena mi ha visto, mi ha subito buttato a terra. Rusko però ha visto la scena, ha fermato la musica e ha costretto la security a rimettermi sulla transenna, lì è ripartito a suonare ed è stata bolgia: ecco, lì ho capito il potere immenso di questo stronzo che sta su un palco a mettere i dischi, di come riesce a governare ad esaltare le folle. E’ stata un’epifania: “Wow… Oh, io voglio essere come lui”. Mi ricordo questo momento come fosse ora. Io. Voglio. Fare. Questo. A festival finito sono tornato a casa, ho iniziato comprare dei dischi, mi sono scaricato Traktor e ho iniziato ad allenarmi a mettere i dischi. Da lì, non ho più smesso.
Ti sei ritrovato anche resident al Kode_1.
Una vera benedizione. Passare dall’essere in una caverna maleodorante in un rave al suonare in una struttura superpatinata di cui parlavano tutti i media specializzati era… “Wow, ma com’è possibile?”. E tutto questo senza dovermi spostare da casa! Sono passato dall’essere un topo di fogna all’essere un caviale (risate, NdI). Grande Vincenzo! (Palazzo, il fondatore del Kode_1, NdI) Ho conosciuto poi gente incredibile come Kode9 o Andrea Mi. Per la mia cultura musicale, quell’esperienza è stata meravigliosa. Mi ha ampliato tantissimo le vedute.
Alla fine però non sei stato cooptato dalla club culture, sei sempre rimasto più uno da musica urban.
Ma sì. Perché mi piaceva il rap, mi piacevano i cappellini, mi piacevano le sneaker. I dj techno, tutti vestiti di nero col bancomat dei genitori, non mi hanno mai stimolato “verità”. Non mi hanno mai portato a dire “Eh, voglio essere come loro”. Mi ha sempre più affascinato il rapperino che ad un certo punto fa il botto e allora si compra la Mercedes bianca… mi è sempre sembrato più autentico, ecco. Quindi sì: la mia identità sia a livello musicale che di immagine è sempre stata quella più vicina al rap, alle realtà urban. Poi magari in quello che suono ci metto anche il footwork, o la dubstep, perché sono cose belle zozze, sporche, mi piacciono un sacco, ma è più uno sfogo. Io di mio sono più un fan de “from nothing, to something”.
I dj techno, tutti vestiti di nero col bancomat dei genitori, non mi hanno mai stimolato “verità”. Non mi hanno mai portato a dire “Eh, voglio essere come loro”
Chiarissimo. E quindi: “from nothing to Milan” come funziona? Eravamo partiti da Top Dj. Lì però va tutto male, torni a casa con la coda fra le gambe, ti ripigli, entri nel giro del clubbing giù in Puglia, ma poi…?
Te la dico tipo film. Allora: succede che, per una donna, devo scappare. Me ne vado in Francia. In Francia conosco un’altra donna: me ne vado in Belgio, da lei. Lì, dopo un po’ lei mi caccia di casa. Scappo. Vado in Olanda di notte. Suono ad Halloween gratis in un locale. Conosco in serata una persona, che ad un certo punto mi fa: “Tu dovrai suonare nel mio club a Capodanno”. Ah! Entro in contatto con un’agenzia di booking e mandano una mail con una richiesta di fee, che stabiliscono loro. Promettendeomi che avremmo chiuso l’accordo ma si sarebbero tenuti il 50% della fee. Sparano altissimo: 5000 euro. Oh, io fino a quel momento avevo suonato sempre per 50 euro o giù di lì. L’affare si chiude. Vado a fare questo Capodanno – era in Svizzera. Lì, a quel Capodanno, conosco un’altra persone che mi dà un altro ingaggio, e che ingaggio: suonare durante i Mondiali di Sci. Altri soldi in arrivo, quindi. E allora mi sono detto: “E vaffanculo, mo’ che c’ho i soldi sai che c’è? Me ne vado a Milano!”. E quindi, sono venuto a Milano. Il giorno prima di arrivare in Svizzera avevo tipo 50 euro sulla Postepay e 200 euro in contanti; un mese dopo, ne avevo almeno 5000 o 6000. “Ora o mai più”, insomma: perché era già da tantissimo tempo che tutti mi dicevano “Vieni a Milano, vieni a Milano!”. Chissà, forse se quel famoso disco del 2010 fosse veramente uscito magari sarei stato a Milano già da un pezzo…
Dovrebbe esserci una Milano in ogni regione: dove se il talento c’è allora lo si spinge, e poi in caso se butta bene si va a stare a Milano davvero. Un po’ come l’America: c’è Los Angeles, c’è New York, ma non è che se vai a Houston trovi gente che munge le pecore
Ora che l’hai fatto davvero, puoi rispondere in maniera compiuta: vale davvero così la pena trasferirsi a Milano?
Sì, decisamente. Se penso a quanto è stato facile fare in soli tre mesi a Milano quello che avrei dovuto fare nei precedenti sette anni di carriera, la risposta è immediata. Quindi sì: consiglio di trasferirsi a Milano. E’ che sai cosa? Siamo tutti qui. Dovrebbe esserci una Milano in ogni regione: dove se il talento c’è allora lo si spinge, e poi in caso se butta bene si va a stare a Milano davvero. Un po’ come l’America: c’è Los Angeles, c’è New York, ma non è che se vai a Houston trovi gente che munge le pecore. Già a Houston c’è una scena, e se lì ti fai notare e spacchi allora te ne vai ad L.A. e lì diventi grande. Qua, per dire, se sei il capo di Bari al massimo ti mangi i ricci a cena a Natale…
Che poi un tempo nell’hip hop era proprio così: le scene decentrate erano molto forti, qualche volta più di Milano stessa. Ora si è tutto polarizzato: tutti a Milano, tutti nello stesso punto, tutti praticamente in un unico giro.
Il momento forse te lo impone. O anche, è il fatto che pochi cercano di fare le cose per se stessi ma le fanno, piuttosto, per la possibilità di fare business vero. Si è assottigliato il plotone di quelli che “Mi piace, e quindi lo faccio perché mi piace”; ora invece è “Lo faccio perché questa cosa potrebbe darmi un gran bel profit”. E questi profit se sei un sedicenne sono i tuoi nuovi follower di Instagram, se sei un ventenne è il featuring dei sogni in un tuo brano, se sei un ventiduenne sono i soldi che non hai mai avuto, se sei un trentenne sono i soldi da fare sul sedicenne, se sei un quarantenne sono i soldi da fare su tutto questo messo insieme.
Se sei un sedicenne sono i tuoi nuovi follower di Instagram, se sei un ventenne è il featuring dei sogni in un tuo brano, se sei un ventiduenne sono i soldi che non hai mai avuto, se sei un trentenne sono i soldi da fare sul sedicenne, se sei un quarantenne sono i soldi da fare su tutto questo messo insieme
Ma tu, quanto sei bravo a muoverti?
L’unica volta in cui ho firmato un contratto è stata la cosa più inutile che ho fatto nei ultimi trent’anni di vita. E io, di anni, ne ho trenta.
Ora però voglio sapere quando sei arrivato a Milano quali sono stati i tuoi primi passi.
La vera cosa decisiva è stato entrare al Volt, alla serata Uptown. Ma allora, andando con ordine: a Milano ci sono arrivato perché c’erano non dico delle promesse, ma delle idee di fare qualcosa con Propaganda, poi però i pianeti non si sono allineati, e poi pure con dei ragazzi di Torino (…ma per loro ovviamente alla fine non conveniva avere un resident che stava a Milano, quindi ci sta non sia andata in porto). Sostanzialmente, una volta arrivato a Milano ho iniziato ad andare in giro di notte per i club – spostandomi coi bus notturni – attaccando bottone un po’ con tutti, e considera che appunto sono arrivato in città senza conoscere praticamente nessuno, erano tutte conoscenze da zero. Ad un certo punto ho beccato Chiamu (Francesco Chiamulera, NdI), un genio, un innovatore, uno che fra trent’anni sono convint che ci sarà una statua su di lui in Piazza Gae Aulenti – e un altro di quelli a cui mi sono presentato dal nulla dicendo “Ciao, sono Sgamo, faccio questo, faccio quello, guarda il mio Instagram che figo”, cose così. Lui ad un certo punto mi fa “Oh, vuoi suonare in questo club? Perché io mi sono rotto i coglioni di suonare l’hip hop, voglio mettermi a fare techno, perché non prendi il mio posto?”, e mi ha dato il numero della boss di Uptown. Che però, non mi ha risposto al telefono per tipo due mesi. Solo che un giorno mi chama all’improvviso e mi fa “Senti, ho problemi coi resident, c’è uno che non viene e non mi sta rispondendo al telefono”. Non oso immaginare quanti ne avesse sentiti prima di me… Insomma: sono andato lì a cachet zero. La serata è andata talmente bene che siamo andati avanti almeno un’ora a suonare a luci già accese: sembrava un rave. Il giorno dopo, il mio Instagram era impazzito: ero taggato in mile Stories, nuovi follower piovevano tipo slot machine e sono arrivate mille proposte per suonare. Questo dj set era stato il 30 novembre: tempo del 2 dicembre, avevo già una decina di offerte per date future.
L’unica volta in cui ho firmato un contratto è stata la cosa più inutile che ho fatto nei ultimi trent’anni di vita. E io, di anni, ne ho trenta
E’ una storia bellissima.
Bisogna avere la cazzimma.
Ce n’è, in giro?
Devo darti una sportiva o ne vuoi una un po’ politica?
Facciamo una via di mezzo?
Diciamo che sono arrivato qui, e lo dico con un pizzico di narcisismo ed egocentrismo, proprio perché avevo notato che questa cazzimma mancasse un po’. Nel senso: avevo notato che era il momento giusto per arrivare a dare fastidio a chi era salito sì sul trono, ma non si stava accorgendo che su questo trono stavano tentando di salire altri potenziali pretendenti. Lo so, sembra una visione un po’ egocentrica, e anzi sicuramente lo è, ma è un dato di fatto che da quando sono arrivato qui un po’ di cose sono successe, quindi non è che avessi torto del tutto. Forse l’unica volta nella mia vita in cui non ho avuto torto del tutto! (ride, NdI) Vedo che in giro è pieno di giovani in gamba. I due ragazzi che voglio coinvolgere in questa avventura di Verbal hanno uno dieci anni meno di me, l’altro sette in meno. E io come ti dicevo di anni ne ho trenta, capisci? Alla loro età, io ero semplicemente un impast… ehm, un festaiolo, diciamo. C’è gente della nuova generazione che ha una voglia di fare e di arrivare al successo che è pazzesca.
Ma questa cosa di coinvolgere gente più giovane in un progetto corale? Come mai? Potevi farti i cazzi tuoi e andare avanti da solo tenendo tutti per te i risultati raggiunti, come del resto hai fatto finora…
Voglio seguire il modello Drake. Alla fine, sono un dj che in tre anni ha fatto qualcosa come cinquecento date: in quanti ne hanno fatte così tante? Io però mi sento ancora decisamente in Serie B. Se si può fare una cosa ancora più grossa, bisogna provarci. E allora che fai? Raduni altre persone che stanno in Serie B ma sono motivatissime, fai squadra, e vedrai che in qualche maniera prima o poi qualcuno di noi arriva in Serie A – portando con sé tutti gli altri.
Hai insomma l’impressione che i ventenni abbiano una testa diversa?
Assolutamente sì. Chiaro, non tutti.
Ovvio: stiamo generalizzando.
Ma un ventenne che ha voglia di fare, oggi spacca davvero.
Musicalmente, quanto però è rischioso che l’hip hop oggi sia così dipendente dalle mode e da quello-che-funziona? C’è l’ossessione di fare la cosa che “funzioni”, c’è anche la voglia di stare sempre più nel segmento del fashion di lusso proprio in modo esplicito…
Dev’essere tutto troppo simile a quello che deve funzionare: vero. E quindi esce il pezzo nuovo di Anna prodotto da Young Miles, che è già il “pezzo dell’anno”, ma di base perché? Perché gli accordi sono copiati da Roddy Ricch, il distorto è stato preso da quell’altra hit, lei comunque tira fuori un testo motivazionale – perché finalmente si sono rotti un po’ tutti il cazzo di sentire solo “Sk Sk…”, dopo l’arrivo di Massimo Pericolo la gente ha ripreso a rappare e per fortuna – e devo dire che Anna ha dimostrato di saperlo fare, onestamente non l’avrei mai detto. Quanto è rischioso però essere ritagliati in modo così preciso su quello che funziona? Tanto. Ma bella lì. Le cose per fortuna sono sempre in evoluzione, c’è sempre qualcuno pronto a cambiare lo scenario. Prendi Paky: ha fatto una cosa che sembrava il “Menaito”, poi però ha fatto delle strofe con Tedua e Gué che sono fortissime, di quelli che ora sono i king non mi viene in mente nessuno che all’età di Paky fosse così forte. Quindi sì, il rischio c’è. Ma c’è anche il modo di venirne fuori, ed andare avanti.
La serata è andata talmente bene che siamo andati avanti almeno un’ora a suonare a luci già accese: sembrava un rave. Il giorno dopo, il mio Instagram era impazzito: ero taggato in mile Stories, nuovi follower piovevano tipo slot machine e sono arrivate mille proposte per suonare
A proposito di rischi ed andare avanti: parlami allora di questa nuova avventura di Verbal.
Verbal è la risposta data in questo momenti in cui dei dj si stanno dimenticando tutti. Originariamente la cosa era un’altra, era maggio quando mi hanno chiamato due amici da Torino, Spike Lean e Lore The Third (2/4 di 36 Collective), “Ehi, a settembre vogliamo fare un nuovo format per il club, vogliamo seguire il filone trap ma in maniera aperta, creativa, come fai tu. Ti vogliamo resident una volta al mese”. Fantastico, dico io. Bellissimo. Contento poi si tratti di Torino, è una piazza fantastica, risponde alla grande sia per l’hip hop che per l’elettronica, per certi versi è anche meglio di Milano – mediamente più genuina, più autentica, più operaia. Insomma, sono esaltatissimo. Ovviamente ad un certo punto richiude tutto quanto. Lì, visto che comunque eravamo tutti un po’ fissato con la roba alla Soulection, tutta la questione dei bootleg, dei remix, dei mash up, e l’ultimo ragazzo che si è aggiunto al team, Nahuel ne sforna in continuazione di grande valore, ci siamo iniziati a dire: “Ma perché non iniziamo a pubblicarne un po’?”. Prendo in mano la cosa un po’ come ambasciatore, visto che sono quello con più contatti di tutti, e decidiamo di creare questa realtà in cui ci si inizia a scambiare roba – che così non vengono disperse tra i vari account Soundcloud – e dove soprattutto i producer più giovani entrano in contatto con quelli già affermati. TY1, per dire, mi ha detto che il suo prossimo remix lo vuole fare uscire direttamente con noi, con Verbal. Damianito, pure. Ovviamente anche io farò così. Credo che una cosa del genere non ci sia ancora in Italia anche perché, ci fosse, mi ci sarei tuffato io, lasciando agli altri la fatica di organizzare tutto ed apparecchiare la tavola. Ecco, questo è Verbal Sound. Verbal Club era il format della serata, ma le cause di forza maggiore ci hanno seggerito questo tipo di evoluzione.
Faccio l’avvocato del diavolo. Allora, c’è quindi Verbal: ma perché dovrei condividerci sopra il mio materiale? Non faccio meglio a lavorare solo su di me e a puntare direttamente di essere notato da una major o qualcosa del genere?
Mah sai, se già hai deciso di fare il dj e non il producer puro in cerca di hit alla Charlie Charles, già dimostri di avere una mentalità diversa da tutti quei gold chaser che oggi iniziano a produrre incollando due loop e pensano di aver già così cambiato il mondo. Insomma, c’è subito una prima scrematura. Verbal è prima di tutto un discorso di condivisione, di community. Discorso oggi più necessario che mai, visto che sono chiusi tutti i negozi di dischi e i posti in cui di solito ti trovavi per parlare di musica. Un giorno alla settimana apriamo la chat in maniera libera, ci si scambiano le idee a volontà; gli altri giorni, tu giovane producer mandi le cose a me, io decido se vale la pena pubblicarle. Non è che butti le cose indiscriminatamente sui social, dandole in pasto a tutti. Il discorso è diverso, poi attorno alla tua traccia si apre anche una discussione fra gente qualificata, che ha il tuo stesso approccio e la tua stessa voglia di fare. L’idea per fare tutto questo mi è arrivata da Egreen: lui si è aperto un proprio gruppo Telegram, all’inizio la cosa non sembrava andare più di tanto ma da un certo momento in avanti, quando si è capito che era una cosa seria, è letteralmente esploso. Da Egreen c’è sempre da imparare, quando si tratta di capire come essere in stretto contatto con la propria community e farla sentire coinvolta, protagonista.
Forse oggi, dopo la fase ostentazione, sfilate e lustrini, c’è più voglia di community…?
Può essere, sì: è esattamente la mia sensazione. Sai, fare parte di una scena come la nostra che è tutta un po’ feste e festine, bimbe e bimbine, ti porta un po’ in quel viaggio in cui ti dici “Ehi, guardami, sono un pascià, sono sul mio tappeto volante, che me ne frega di quello che hai da dirmi tu, tanto comando io”. E lo capisco, eh, pure io se fossi sul tappeto volante e dovessi però ascoltare tutti quelli che hanno qualcosa da dirmi in poco tempo mi esploderebbe il cervello. Ma ora, dopo otto mesi in cui tutti bene o male siamo chiusi in casa, forse la mia energia potrebbe all’improvviso alimentarsi anche grazie al ragazzino spuntato dal nulla che mi dice “Ehi, io ammiro quello che fai e a quello che fai mi ispiro, ti va di darmi un feedback sulla roba mia?”. E quel feedback, magari, glielo do volentieri. Anche perché ripenso che io, alla sua età, non avevo invece un cazzo di nessuno che mi desse dei consigli. Ed era un peccato.
Foto di Vec Samoano, assistito da Martina Ricco