Ci sono dischi brutti. Ci sono dischi così così. Ci sono i dischi belli, e ci sono pure – rari – quelli bellissimi. Ok. Però poi ci sono i dischi che davvero cambiano le regole del gioco e/o illuminano panorami che c’erano, erano lì da raggiungere, magari erano anche già esistenti, ma non li avevi mai visti in questa luce. La metà di questa monumentale uscita discografica di Sam Shackleton, quella intitolata “Music For The Quiet Hour”, rientra decisamente in quest’ultima categoria. Un po’ di presentazioni però, prima di tutto, perché magari il nome dell’occhialuto producer inglese – ma già da anni trapiantato in Germania – non suona famigliare a tutti. Parliamo dell’uomo che in società con Appleblim e sotto l’egida Skull Disco aveva, fra i primi, aperto alle contaminazioni fra dubstep e altri generi musicali, magari pure a cassa dritta. Ciò che oggi appare scontato all’epoca era quasi sacrilego: la dubstep nei suoi primi anni era un monolite, la struttura ritmica era “quella” e i suoni erano “quelli”, da lì non se ne usciva. L’oscurità inquietante e talora apocalittica targata Skull Disco aveva mostrato alle menti più attente come in realtà i margini di espansione stilistica fossero amplissimi, bastava avere il coraggio di uscire dalle strade già battute. Coraggio però che non in molti hanno. Coraggio che Shackleton forse nemmeno ha: lui semplicemente se n’è sempre fregato e se ne frega, col suo sorriso un po’ gioioso un po’ beffardo. Per lui le regole precostituite erano e sono semplicemente delle variabili inesistenti.
Una volta sciolta la società Skull Disco sono arrivate le sortite soliste, ospitate anche e soprattutto dalla Perlon, sì, la Perlon, avete letto bene, non la Hyperdub o la Tempa come sarebbe stato più prevedibile pensare. Al tempo stesso però Sam non è certo diventato l’artista perloniano tipico che gravita al Panorama Bar e si diverte un sacco coi minimalismi che tanto piacciono – ora – ai turisti italiani e spagnoli. Ha continuato per la sua strada. Sfuggendo ad ogni regola, ad ogni incasellamento. Ora, al contrario di molta critica noi personalmente non siamo però rimasti impressionatissimi dal materiale shackletoniano uscito su Perlon (raccolti in un unico corpus di “Three Ep’s”): carino, interessante, scorrevole, anche misterioso ed affascinante in certi passaggi, ma fondamentalmente troppo freddo e quasi a rischio di sembrare più che altro un elegante esercizio di maniera su come far diluire il dubstep nella minimal, o viceversa. Bella l’idea, ovvio, ma se c’è la maniera ci sono anche gli sbadigli, ogni tanto. Sbadigli che qua e là affiorano anche in “The Drawbar Organ Ep’s”, corpus di musica che dell’esperienza perloniana è filiazione diretta su conferma dello stesso Shackleton (l’organo di cui si parla è un organo da due soldi acquistato se non sbagliamo proprio in Italia nel periodo in cui lavorava proprio sui pezzi usciti su Perlon). Musica che merita senz’altro di stare nella vostra collezione, rispetto alla paccottiglia di uscite da chart-di-beatport questo è genio leonardesco, però boh, se si alza l’asticella e si cerca il capolavoro si resta un po’ delusi. E’ tutto pulito, ma manca qualcosa.
Per trovarlo, il capolavoro, basta prendere in mano “Music For The Quiet Hour”, l’altra metà che ci si ritrova in mano acquistando la faccenda. Lì, improvvisamente, ci si rende conto di cosa manca al 90% della musica elettronica prodotta oggi: la visionarietà, prima di tutto, e la capacità poi di cercare non solo ritmo, non solo precisione ed efficacia nei suoni, non solo ipnosi simmetrica e crescendi MD-friendly ma una vera e propria vertigine psichedelica, di quelle che ti arrivano anche se hai sempre e solo bevuto acqua nella tua vita, manco gassata. Uccide, questa nuova architettura sonora di Shackleton. Perché lavora esplicitamente nei suoni, nelle strutture e anche negli spoken word per cercare reazioni emotive quali angoscia, sorpresa, stupore, paura; e non euforia, carica, adrenalina… se non per bravi attimi, quasi dei trucchi giocati all’ascoltatore. E’ tutto tranne che un tool da dancefloor, insomma. Anzi, ti fa dire, ed è liberatorio: vaffanculo i tool da dancefloor. Hanno la loro funzione, possono anche essere fatti molto bene, aiutano a rendere bella una serata e a rendere figo il lavoro di un dj, sì; ma dovremmo sempre tutti ricordarci che la musica è, in un ultima istanza, un’altra cosa. E’ arte e creazione, non oggetto-funzionale-a. Aggiungiamo, lo dice perfino Fegiz: la musica elettronica è, oggi, quella che può avere campo libero nell’esplorare territori nuovi.
“Music For The Quiet Hour” vale nel 2012 quello che i Pink Floyd facevano nella prima fase della loro carriera, blues psichedelico al massimo grado, espansione delle coscienza, abbattimento di ogni regola (rock e non solo rock). Vi interessa, rivivere anche nella contemporaneità sensazioni ed avventure artistiche del genere? O ciò che conta è essere pronti per l’ennesimo party Ibiza-style, spacciando per geniali i banali e meccanici edit danzettari di successi pop caratteristici del Luciano ultima maniera? Fate voi.
Damir Ivic
Scrive di musica a trecentosessanta gradi (con predilezione per l’elettronica). Storica firma del Mucchio. Punto di riferimento negli anni per Red Bull Music Academy in Italia. Autore di libri editi per Arcana. Collaboratore di vari festival. Occasionalmente copywriter. Oggi, tra le varie cose, stretto collaboratore di Rolling Stone e TRX Radio. Inspiegabilmente tifoso dell’Hellas Verona.
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