“Guerra ridicola”? Certo. Ridicola, eccome. Guerra sì, ma ridicola. Non c’è nessun motivo per essere sfumati o diplomatici misurando le parole, in tutta questo casino scatenatosi in questi giorni nella disputa tra Meta e SIAE. Non ce n’è motivo, a meno che non si pensi agli unici innocenti: gli artisti. Artisti che vedono infatti perdere una delle significative forme d’introito attuali, dopo che già hanno visto scomparire quella che è stata la principale forma di guadagno diretto per decenni (la vendita del supporto discografico, vinile, musicassetta o CD che fosse), e dopo che successivamente chi per loro – ovvero le major – ha deciso ovvero i perimetri degli accordi di massima con le piattaforme di streaming, lasciando ai singoli artisti le briciole – i famosi guadagni dello zero virgola zero zero zero zero per cento – ma facendo comunque in modo di guadagnarci comunque visto che, guarda caso, da un bel po’ di anni a questa parte i bilanci delle grandi label multinazionali sono tornati prepotentemente in attivo. In attivo grazie in primis allo streaming, già, oltre che a una maggiore attenzione a valorizzare le sincronizzazioni, aka piazzare le proprie musiche in film, pubblicità, eccetera (…il trucco? Molto semplice: le major sono tornate a guadagnare sul catalogo: un tempo un disco aveva un suo ciclo di vita e poi era virtualmente infruttifero, a meno che non fosse “The Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd o giù di lì, ora invece ogni singolo riascolto di robe vecchie anni semi-dimenticate genera una economia per quanto piccola, e se hai un catalogo vasto, beh, la somma di tante piccolezze genera comunque una enormità).
Quindi ok, al solito gli artisti sono il vaso di coccio in mezzo alle grandi lotte e ai grandi scontri tra le multinazionali (… multinazionali che poi dettano le regole e le condizioni anche per le realtà più piccole ed indipendenti, piaccia o loro o meno, tanto hanno un potere contrattuale ridicolo al confronto, quindi devono farsi andare bene quel che c’è, e zitte). Se non altro gli artisti – e i loro management – si vendicano sfruttando a sangue i promoter della musica live (ecco perché i concerti sono diventati improvvisamente costosi) e, chi può, ormai si presta ad essere testimonial di qualsiasi cosa, insomma chi più si svende ed è ricoperto di brand più è bravo e visibile. Un gran bel panorama. Vero?
C’è poco da schierarsi da una parte o dall’altra, insomma. Anzi: proprio questo inatteso, drastico e titanico scontro potrebbe essere finalmente la spinta a provare ad immaginarsi un sistema di ripartizione dei diritti d’autore che sia radicalmente diverso e più equo
Ecco, in questo panorama è arrivata quest’improvvisa lotta ferale e sbracata tra giganti, una specie di Maciste versus Godzilla del nuovo millennio, lotta che tra l’altro è puramente italiana. Già: al momento infatti solo sul territorio italiano e col principale attore di raccolta dei diritti per gli autori si è creata questa situazione. Meta, ovvero Instagram e Facebook e chissà cos’altro nell’arsenale di Zuckerberg, è riuscito a rinnovare pacificamente tutti gli accordi con le altre consociate equivalenti in Europa (GEMA in Germania, BUMA in Olanda…); solo in Italia improvvisamente è nato questo casino. Un casino sollevato dalla SIAE. Che al momento di rinnovare il contratto con Meta per concedere l’uso delle musiche da lei tutelate, all’improvviso s’è desta ed è esplosa in un reciso “È un furto, noi non ci stiamo, le condizioni che ci proponete sono ridicole!”.
Alla SIAE sono impazziti? Si sono messi a fare i fenomeni, di punto in bianco? Sì e no. In realtà, hanno deciso di recepire alla lettera la Direttiva Europea sul Copryright. Direttiva che all’articolo 19 dice che è fondamentale fornire informazioni complete, aggiornate e particolareggiate dello sfruttamento dell’opera ai detentori dei diritti, ed all’articolo 20 introduce il concetto di remunerazione “equa” che, come ovvio, si può stabilire avendo solamente un quadro chiaro di quanto e come circolino e vengano sfruttati i brani protetti da copyright. Se Google (che controlla YouTube ed altro) ed ovviamente le piattaforme di streaming hanno investito tempo e soldi per poter fornire dati vagamente certi e granulari alle società che proteggono i diritti d’autore), Meta – per risparmiare tempo, denaro e risorse – ha fin dall’inizio proposto “Dai, facciamo un forfettone!”.
Peccato che nell’ultimissima negoziazione la distanza tra domande (SIAE) ed offerta (Meta) per questo “forfettone” s’è fatta siderale, come è più del solito, con reciproche accuse di avidità. Ed è qui che Meta ha deciso di rompere: arriva così la immediata rimozione di tutti i brani tutelati dalla SIAE sulle sue piattaforme, per editto zuckerbergico. Se avete depositato la vostra canzone in SIAE come autori, e per la stragrande maggioranza della musica italiana è così, siete fregati. Non siate più autorizzati ad esserci. Una specie di sprezzante “Se non vieni a patti con le nostre condizioni, cara SIAE, noialtri qui possiamo tranquillamente fare a meno di te: e poi sta a te spiegare ai tuoi scritti perché non vedranno più una lira da noi, impoveredosi. Cazzi tuoi, sfigata. Vedi cosa succede a mettersi contro di noi”.
Peccato che nell’esercitare questa muscolare prova di forza Meta abbia iniziato ad inanellare una serie di mosse degne di un film di Buster Keaton: organizzare in fretta e furia una rimozione dei contenuti non è infatti affare semplice (eufemismo): la cosa è stata presa molto sottogamba, col risultato che dopo questo proclama di guerra Meta ha iniziato a togliere brani a caso, per poi rimetterli, per poi toglierli di nuovo, così come ha tolto anche brani in teoria risparmiabili dalla scure (quelli ad esempio protetti da Soundreef, il piccolo, acrobatico ma agguerrito competitor della SIAE, o di autori italiani che hanno però depositato le proprie canzoni presso società di collecting estere, tipo l’efficiente tedesca GEMA: sì, si può fare, anche se comunque il rendiconto italiano deve per forza passare sempre dalla SIAE, cosa che allunga i tempi d’incasso).
Altra cosa divertente: è facile identificare – e di conseguenza delistare – i brani selezionabili per arricchire le Stories di IG protetti dalla SIAE, per esempio; ma se carichi un video con la stessa canzone, al momento questo può passare le maglie di questo controllo. Esempio pratico, se selezioni Battisti come colonna sonora delle tue Stories fallisci, se carichi un video della stessa canzone di Battisti al momento tutto ok. Se Meta voleva dare una dimostrazione di (onni)potenza tecnologica e mercantile, ha fallito. Più di Russell Westbrook ai Lakers. E ce ne vuole.
Stiamo dipingendo un quadro dove la SIAE italica passa un po’ per vittima, e Zucky per cattivone pasticcione, avidone. Beh: insomma. Non è che le cose stiano proprio così.
Cioè: stanno così, ok, ma sta anche che la SIAE è storicamente un colabrodo e un verminaio di sprechi e clientele. Negli ultimi anni le cose sono a dire il vero migliorate, è entrata in posti anche strategici gente giovane e preparata (pensiamo ad esempio al Direttore Generale Matteo Fedeli) e si è vista una certa innovazione tecnologica (vedi il borderò on line e la rendicontazione sugli streaming, meglio tardi che mai), così come la nascita di qualche divisione interessante (come quella “inventata” da Nur Al Habash per promuovere la “nuova” musica italiana all’estero, Italia Music Export). Ma questi tenui raggi di sole non devono distogliere dallo schifo che la SIAE è stata per anni e, in parte, continua ad essere. Una Società Italiana per Autori ed Editori che ancora oggi pare progettata per proteggere ed arricchire essenzialmente i soliti noti e per spremere, sino all’ultimo centesimo di euro e con avidità spropositata, sia gli autori minori che gli organizzatori di eventi e chiunque voglia utilizzare la musica in una festa, nel suo bar, nel suo negozio.
Nel senso: sarebbe bello se la SIAE fosse vigile ed attenta e remunerare tutti gli autori ad essa iscritta, ma col metodo del controllo e della ripartizione a campione il risultato finale è che sono favoriti i soliti noti. Quelli di sempre. L’esempio storico è quello della techno, del clubbing: semplificando, se voi come dj suonate un pezzo di Richie Hawtin è facile che i soldi finiranno a Castellina Pasi (nome esemplificativo). Entrambi infatti sono classificati come “Musica da ballo”, ma visto che la Pasi (ribadiamo, nome esemplificativo) è storicamente presente nella “Musica da ballo” ai primi posti da anni perché prima della techno e dell’house quello si ballava, col fatto che resta la “ripartizione a percentuale” ibernata da anni (è un modo per perpetrare all’infinito o quasi lo status quo) i soldi della techno continuano a finire in buona misura al liscio ancora oggi.
C’è poco da schierarsi da una parte o dall’altra, insomma. Anzi: proprio questo inatteso, drastico e titanico scontro potrebbe essere finalmente la spinta a provare ad immaginarsi un sistema di ripartizione dei diritti d’autore che sia radicalmente diverso e più equo
C’è questo, e poi ci sono le varie porcate inventate negli anni pur di succhiare soldi e mantenere in piedi il carrozzone: i bollini per i supporti discografici obbligatori (poi dichiarati fuorilegge dall’Europa), la tassa sulle memorie flash (i cd vergini, le penne USB), altre mirabolanti alzate d’ingegno, peraltro non sufficienti ad evitare svariate crisi finanziarie dell’istituto, causate evidentemente dalla mala gestione. E senza contare – qualunque organizzatore di eventi musicali lo sa – quanto sia assurdo e medievale il sistema delle mandatarie: alias le “cellule locali” della SIAE, dove ce ne sono alcune di oneste ed efficienti e ragionevoli ma ce ne sono altre dove regna la discrezionalità e l’aumm’ aumm’. Col risultato che quello che vale qui, spesso non vale lì. E tanti saluti al rispetto ed alla certezza delle leggi.
C’è poco da schierarsi da una parte o dall’altra, insomma. Anzi: proprio questo inatteso, drastico e titanico scontro potrebbe essere finalmente la spinta a provare ad immaginarsi un sistema di ripartizione dei diritti d’autore che sia radicalmente diverso e più equo e tecnologicamente avanzato e che possa, almeno come prospettiva remota e finale, saltare gli intermediari. Tecnologicamente, non è una sfida impossibile. Shazam docet, non stiamo parlando di distopie improbabili.
Allo stesso modo questo inatteso, drastico e titanico scontro tra Meta e SIAE dovrebbe anche farci capire che una musica che acquista valore solo ed esclusivamente come abbellimento e sottofondo dei contenuti di un social network (il “giardino” di Meta, ma il discorso vale anche per YouTube, TikTok et similia) è una musica che forse genera valore e notorietà sul breve, ma in realtà fa di tutto per svalutarsi e consegnarsi come ostaggio inerme a gente di cui dell’arte, dei contenuti e della qualità non frega un cazzo. Sicuri che sia la strada giusta? Lo diciamo sia ai creatori (i musicisti) che ai fruitori (il pubblico): è davvero una via sicura ed intelligente quella di consegnarsi mani e piedi ai grandi conglomerati stile Meta ed Alphabet e i simpatici cinesi di TikTok? Questi conglomerati la valorizzano davvero, la musica? E poi ancora: con l’arrivo auspicato ed auspicabile del web3, siamo sicuri che l’unica via seria ed efficace di distribuzione saranno sempre i grandi conglomerati dello streaming e la potenza delle etichette multinazionali? Non è che magari c’è spazio per altre dinamiche, altre modalità?
Se noi – sia artisti che pubblico – vogliamo evitare di essere vittime di scontri titanici e ridicoli e non voluti da noi ma in cui però le vittime siamo noi, come sta accadendo ora in questi giorni tra SIAE e Meta, forse è diventato abbastanza importante iniziare davvero a pensare a futuri diversi, a modelli diversi. D’altro canto tutte le grandi innovazioni che hanno generato valore e portato nuove creatività sono nate un po’ così: non accontentandosi dello stato delle cose, ma immaginandosi un domani migliore. E saltando intermediari diventati un po’ troppo avidi, o troppo sclerotici.