Ha avuto un grande riscontro in queste ore, nel giro “nostro”, questo articolo di Berlino Magazine dove si racconta la decisione del Senaat berlinese di devolvere una media di 81.000 euro a ben 46 club cittadini, tra cui istituzioni come il Tresor, il Kater, l’://about blank. Ovviamente non si può che essere d’accordo col principio: sono proprio realtà come queste che hanno reso Berlino “sexy” (secondo la celebre definizione di un suo ex sindaco) con ricadute economiche di breve, medio e lungo termine importantissime, decisive. Un principio che in Italia si fa fatica a capire, e su questo punto insistiamo e insisteremo sempre tantissimo, non comprendendo qui da noi come le forme “nuove” di musica e cultura non siano solo un irrilevante sollazzo per giovani tossici e sfaccendati quanto piuttosto un volano culturale, sociale, finanziario fondamentale.
E’ anche vero però che abbiamo provato ad immaginare una situazione del genere per l’Italia tutta e, francamente, un po’ di perplessità ci è venuta. Che fine farebbero questi ipotetici 81.000 euro a club/discoteca? Sicuri che sarebbe un buon affare? Una scelta giusta? Senza trincerarsi dietro a facili corporativismi: davvero poche realtà in Italia possono vantare delle scelte che diano grande attenzione al lavoro culturale ed alle iniziative realmente innovative e/o realmente dal basso. Sono molti di più quelli che si sono limitati (legittimamente!) a cavalcare l’onda, ad entrare nel gioco del mercato imposto da Berlino (appunto) e da Ibiza prendendo sempre i soliti artisti senza mai lanciare fenomeni nuovi, suoni nuovi, modalità di fruizione del clubbing alternative, e senza mai fare un serio lavoro di creazione di identità (che è il seme della dinamica culturale migliore, quella che poi ha anche ricadute di innovazione e di forza nuova sul mercato).
Insomma, l’Italia non è Berlino. I contributi a pioggia non sarebbero, a nostro modo di vedere, una scelta corretta. I contributi e gli sgravi andrebbero dati sì, certo, in primis per un principio sacrosanto: club e discoteche sono state le prime a chiudere e sono state le ultime a riaprire (anzi: molto, pure parecchio comprensibilmente, non vogliono proprio riaprire finché non ci sono condizioni “normali”), quindi un contributo e un aiuto va assolutamente dato, magari più in sede di sospensione e dilazionamento degli adempimenti fiscali e delle spese fisse (tutelando quindi i dipendenti e collaboratori abituali) che sotto forma di corposo contributo diretto. Anche perché, e questo è il punto, complessivamente il settore del clubbing e delle discoteche non ha fatto molto per essere sano e/o per dare una grande immagine di sé negli ultimi decenni, nel suo complesso, né ha fatto molto per innovare e proporre pratiche virtuose. Hanno fatto molto di più i festival: sia quelli grandi che quelli più piccoli e “boutique”. Con tutto che amiamo i club, che rivogliamo più clubbing e che vogliamo spezzare questa narrazione per cui oggi pare che a contare siano solo i festival, in primis agli occhi di investitori privati e potenziali sponsor, è anche vero che la polvere non va nascosta sotto il tappeto.
Il clubbing e le discoteche italiane dovrebbero prima darsi un codice etico e professionale forte e riconoscibile. Lo devono a se stessi, prima di tutto. Ci sono infatti troppi anni di pagamenti in nero, di regole di sicurezza non rispettate (molte di queste regole sono anacronistiche e vessatorie, sia chiaro: ma la soluzione non può essere ignorarle e basta, semmai bisogna discuterle pubblicamente), di comportamenti tra l’ego-riferito e l’irresponsabile, di direzioni artistiche improntate o alla massimizzazione dei profitti o a quella del proprio membro genitale (le aste per avere questo o quell’altro nome celebrato solo per dimostrare di avercelo più lungo hanno rotto il cazzo, drogato il mercato, impoverito il gusto delle persone), di gestioni economiche scellerate (se già prima del CoVid perdevi un sacco di soldi, ricevere 81.000 euro potrebbe essere una boccata d’ossigeno ma fra tre mesi, anche se riprende tutto normalmente, siamo a punto e a capo).
In questi mesi tanto si è parlato di “rifondare il clubbing su basi più sane” o comunque di non lasciarlo solo davanti alla crisi, mille call via Zoom sono state fatte, e in qualche caso l’obiettivo esplicito è stato fare pressione sulle istituzioni per far sentire le proprie ragioni ed iniziare ad ottenere attenzione (anche economica). Dall’attività di lunga data del SILB (che però non ha fatto molto, in questi anni, per evitare certe derive), che ha il merito di fornire rappresentanza e di essere ben strutturato, a nuove realtà nascenti che promettono bene, pensiamo in primis a CFC – Club Festival Commission Italia, che ha tutto per diventare un attore molto ma molto importante nel prossimo futuro, e poi magari anche a quanto potrebbe venire fuori da Club Cultura (scintilla originaria su Facebook, nel primo periodo di lockdown). Cosa ne verrà fuori, vedremo. Di sicuro, però, qualcosa deve venire fuori. Perché lasciare tutto come era prima, e ritornare tutto a come era prima, non è una soluzione. Anzi, diventerebbe una colpa e una esplicita ammissione di mancanza di visione.
Così come è stato negli ultimi vent’anni il clubbing italiano bisogna dire che non meriterebbe (e, infatti, non ha meritato) un aiuto come quello del Senaat berlinese. Detto senza giri di parole. Chiaro, stiamo generalizzando; chiaro, ci sono state e ci sono eccezioni virtuose; ma sta di fatto che ci vorrebbe una presa d’atto collettiva e, per come la vediamo noi, una nuova “Carta dei Valori” che però conti veramente nel concreto, non sia solo una lista di buone intenzioni per anime belle da dimenticare cinque secondi dopo che le Prefetture hanno dato l’ok per riaprire. Si è parlato tanto in questi mesi di come bisogna dare un taglio alle aste selvagge attorno ai soliti nomi, di come si debbano (ri)scoprire i talenti locali, di come si debbano calmierare le spese, di come il pubblico vada trattato meglio (…e di come il pubblico debba meritare di farsi trattare meglio). Si è parlato anche di economie e gestioni più sane, professionali, senza zone d’ombra e senza furbetti vecchi e nuovi. Si è parlato di innovazione.
Bene. Oltre a parlarne, bisogna iniziare a vederne anche i primi esempi concreti, le prime pratiche reali. Perché se non ci sono quelli, il mondo dei club e delle discoteche in Italia non fa né farà alla propria nazione quello che i club Berlinesi fanno alla capitale tedesca. E allora, in questo caso, inutile piangere sugli 81.000 euro a club che non ci sono. Non ci sono perché al momento è giusto che non ci siano: visto anche che in molti casi, se arrivassero, sarebbero usati decisamente male, per perpetuare delle dinamiche sbagliate e tossiche in partenza. E’ un po’ come la discussione sul MES e similari: non troviamo nulla di sbagliato nel principio che se devi prestare dei soldi o darli direttamente a fondo perduto, ad un certo punto devi anche iniziare a chiedere conto di come e perché questi soldi siano necessari e saranno utilizzati, visto che nei decenni precedenti si è dato prova di gestire le cose abbastanza a cazzo – scialacquando risorse, idee, correttezze, onestà. Non si può fare finta di nulla. La questione va affrontata. Senza demagogie ad orologeria, buone solo per grattare qualche soldo.