Ci arriva una raccomandazione, prima dell’intervista: “Per favore, nel parlare con James Ford non parlate del suo lavoro come produttore di Florence & The Machine, Mumford & Sons, Last Shadow Puppets, parlate solo ed esclusivamente di Simian Mobile Disco”. Nessun problema. Non ci pensiamo nemmeno a non parlare di SMD. In primis perché è un progetto che ci ha sempre incuriosito (anche nel male, all’inizio; e James ci dà pienamente ragione, se leggete l’intervista), in secundis perché il loro ultimo lavoro, il “Murmurations” in uscita oggi 11 maggio, è un disco veramente splendido. E lo è non a caso, anche qui leggendo potete capirne il motivo. C’è poi un motivo specifico per cui parliamo solo con James e non col suo socio Jas Shaw: a quest’ultimo proprio pochi mesi fa, a tour relativo all’album già annunciato, è stata diagnosticata una bruttissima malattia, l’amiloidosi, che porta alla disfunzione del metabolismo delle proteine, con conseguenze che possono essere drammatiche. Risultato: tour annullato, prevista per ora una unica data di presentazione del disco. Ma non è il tempo di piangersi addosso. E’ il tempo di combattere. Anche perché Simian Mobile Disco è veramente all’apice della sua forza creativa.
Guarda, non dovrei dirtelo, soprattutto non così ad inizio intervista, ma te lo dico: trovo che “Murmurations” sia un disco bellissimo, anzi, probabilmente la cosa migliore abbiate mai fatto.
Uh caspita, grazie!
Considerando poi che ormai siete in giro da ormai vent’anni buoni e…
…oddio, aspetta, mi fai sentire vecchissimo così!
Non è colpa mia se sono vent’anni davvero! E guarda che fa strano anche a me! Sono abbastanza datato pure io da aver fatto in tempo a vedere i Simian come “Ah sì, una nuova band da Manchester, vediamo che fanno ‘sti ragazzini…”.
Accidenti, accidenti… (ride, NdI)
La domanda però era: in questi vent’anni, vi è mai capitato di avere l’impressione di aver perso un po’ la direzione, delle fasi in cui vi stavate dirigendo verso un vicolo cieco?
Personalmente, devo dire che la mia fortuna è stata quella di essere sempre stato coinvolto in così tante cose da fare che, insomma, non ho quasi mai nemmeno avuto il tempo di interrogarmi su questioni di questo genere. Sono sempre stato circondato da bella musica e da progetti elettrizzanti da portare avanti e costruire, da solo, coi Simian o per altri, senza mai il tempo di fermarsi e voltarsi indietro. Poi, se guardiamo specificatamente ai Simian, noi abbiamo avuto una traiettoria abbastanza particolare. Credimi: abbiamo iniziato con l’idea di “Massì, proviamo a fare qualche canzone”. Non eravamo per nulla seri, non avevamo nessuna ambizione specifica, credimi. Il punto è che dopo qualche anno le cose serie invece lo sono diventate, la cosa ci ha spiazzato, e ad un certo punto – come dire? – ci siamo trovati a fare anche cose un po’ più calcolate, a scrivere canzoni che in qualche modo “dovevano” andare in radio. Cosa che non era mai, mai, mai stata quello che volevamo fare. Ecco: in quel momento forse la direzione la stavamo perdendo, e la musica non ci stava rendendo veramente felici. Ma è stato un momento. Un passaggio temporaneo. Siamo risuciti a smarcarci da tutto questo e ti posso dire che da anni abbiamo la fortuna, l’immensa fortuna di poter fare solo quello che ci piace.
Oh, ma perché vi siete trovati a dover fare canzoni “per andare in radio”? Pressioni dell’etichetta? O scelta vostra?
Beh, sai, quando sei una band con un minimo – ma anche proprio un minimo – di successo c’è sempre attorno a te un giro di persone, discografici, manager, eccetera, che ti spiega quello che dovresti, quello che è meglio per te, quello che ti serve per andare avanti. Però, alla fin fine, sono decisioni che prendi tu. Sei tu a fare la musica. Non puoi dare la colpa agli altri per scelte che, concretamente, metti in atto tu. Di quel periodo lì, quello “wannabe da radio”, ci sono alcune canzoni che… vabbé, non farmi dire altro, diciamo solo che ad un certo punto ci eravamo fatti prendere un po’ troppo la mano. Però posso dire: non è successo solo a noi. Credo sia accaduto a tantissime band.
Una gemma nascosta del vostro periodo “pop”, in realtà già quando eravate visti come un gruppo con un grande futuro dietro le spalle, è la vostra collaborazione con gli 808 State, che tra l’altro pure loro erano nella fase in cui non se li filava più nessuno… parlo di “Outpost Transmission”, l’album del 2002. Bellissimo, peraltro.
Oh, sono talmente tante le cose che mi legano agli 808 State! Uno dei primi concerti che ho visto in vita mia è stato il loro, quando ancora ero a Manchester come studente. Il mio primissimo concerto all’estero, come batterista, l’ho fatto facendo da turnista nella loro band live. Al di là di questo, Graham Massey è un mio grande amico e devo dire che mi ha fatto scoprire tantissima musica eccezionale – la gente tende a dimenticarselo e a pensare solo alle hit degli 808 State, ma Graham è un pozzo di scienza sulle musiche più strane e particolari, è stato lui ad introdurmi a Sun Ra, al free jazz di Ornette Coleman; ed è stato lui a farmi scoprire Moondog, che è stata una ispirazione fortissima proprio per “Murmurations”.
Quando sei una band con un minimo – ma anche proprio un minimo – di successo c’è sempre attorno a te un giro di persone, discografici, manager, eccetera, che ti spiega quello che dovresti, quello che è meglio per te, quello che ti serve per andare avanti. Però, alla fin fine, sono decisioni che prendi tu. Sei tu a fare la musica
Però senti, qual è stata la scintilla che ha fatto partire la trasmutazione da Simian a Simian Mobile Disco? Una trasmutazione molto strana ed inusuale. Ricorda quasi quella dei Freur, che poi diventano Underworld, facendo le debite proporzioni.
Eh sì. Eravamo una band. Di nome Simian. Facevamo, boh, pop psichedelico, definiamolo così. Ad un certo punto molto semplicemente ci siamo imbattuti nella musica elettronica da ballo e, beh, ne siamo rimasti tramortiti, colpitissimi, innamorati. Così tanto da tentare di farci qualcosa: i primi remix, le prime serate nei club, le prime tracce originali costruite prima di tutto per il dancefloor. Tutto qui. Da lì poi si è sviluppato tutto. Diciamolo chiaramente: eravamo dei dilettanti, in fatto di dance. Avevamo pochissime conoscenze, quando abbiamo iniziato ad interessarcene e a farla. Eravamo, paro paro, i classici “indie kid” che all’improvviso scoprono techno e house e ne restano folgorati, così, dal nulla. Iniziando a farla, la dance, piano piano ne abbiamo imparato le regole e i segreti. Abbiamo imparato a capirla. Ma onestamente, vi ci siamo tuffati dentro prima ancora di capirla davvero solo perché ci affascinava, ci affascinava veramente tanto.
Un po’ eravate preoccupati, almeno? Vi sentivate un po’ dei “turisti dell’elettronica”?
Sai, era un periodo particolare: molti indie kid ad un certo punto si erano ritrovati all’interno della club culture. Pensa agli Hot Chip. O agli stessi LCD Soundsystem. Ma gli esempi potrebbero essere tanti. Erano anni in cui all’improvviso si buttavano un po’ tutti sul clubbing, e pazienza se non sapevano nulla dei grandi pionieri della techno detroitiana…
Ecco: non era un problema che non ne sapessero nulla? Non era un problema che non ne sapeste nulla?
Oh, io personalmente ora la amo. E’ che semplicemente l’abbiamo scoperta dopo. Chissà: forse questo è stato anche un bene. Perché techno e house sono sempre state molto rigide e mi verrebbe da dire conformiste su certe cose, su certe regole, su certe necessità, sull’obbligo di rifarsi a canoni ben definiti, su formati pre-confezionati (per quanto belli ed interessanti fossero); se invece tu arrivi “da fuori”, senza questa forma mentis, magari ti capita di fare delle cose interessanti, particolari. Magari no, eh. Perché ci sono anche i casi in cui non conoscere le basi ti porta a fare delle schifezze, sia chiaro.
Il circuito dei club, delle serate nei club, è comunque molto diverso da quello che le band percorrono quando vanno in giro a fare i loro live, i loro concerti.
Assolutamente. Infatti un’altra nostra particolarità è che, credo, noi ci siamo sempre posti “da strumentisti” anche all’interno di contesti dance. Questa cosa del deejaying, per noi, era una cosa nuova, aliena; io sono sempre stato un musicista, uno che suona strumenti. Fare il dj, beh, all’inizio aveva l’aria giusto di un divertissement. Poi dopo un po’ capisci che puoi tentare di combinare le due cose. Puoi trattare un software come se fosse una chitarra. Ad ogni modo, ancora oggi il nostro approccio alla musica elettronica risente del nostro background da strumentisti: nei nostri live tutto è suonato sul momento, nulla è pre-registrato, non usiamo computer.
Beh, te lo chiedo: possiamo allora dire che i dj, per quello che fanno, sono troppo coccolati, troppo osannati e troppo pagati?
(Ride forte, NdI) Beh, diciamo che se guardo a Calvin Harris, a ‘ste cose da Las Vegas non posso che dirti di sì… Sì, sono pagati troppo. Ma: anche i calciatori sono pagati troppo, per quello che fanno. No? E’ la legge della domanda e dell’offerta: non sarebbe giusto che dj e calciatori guadagnassero così tanto, ma se alla fine c’è un equilibrio finanziario allora perché no? Se un tizio può far divertire e stare bene ventimila persone con giusto una chiavetta USB, bene, ben venga. E’ ingiusto? Beh, il mondo è pieno di ingiustizie. Questa non è la prima, non sarà l’ultima.
Techno e house sono sempre state molto rigide e mi verrebbe da dire conformiste su certe cose, su certe regole, su certe necessità, sull’obbligo di rifarsi a canoni ben definiti, su formati pre-confezionati (per quanto belli ed interessanti fossero)
Sei soddisfatto dei traguardi raggiunti da Simian Mobile Disco in questo decennio di esistenza del progetto?
Sono contentissimo, molto più che soddisfatto. Abbiamo girato il mondo, ci siamo divertiti tanto, abbiamo conosciuto delle persone fantastiche: cosa si può chiedere di più? Ok: siamo famosi meno di altri. Altri che magari hanno cominciato con noi, o magari pure ben dopo di noi. Eh, pazienza. Perché quello che conta è che, come Simian Mobile Disco, abbiamo sempre fatto quello che ci andava di fare. Ti faccio un esempio molto chiaro: ad un certo punto, avremmo potuto entrare anche noi nel carrozzone dell’EDM, nel mercato americano, erano arrivate esplicite offerte in tal senso. Solo che ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: “Ok, i soldi… Ma a noi quella cosa lì fa schifo, fa letteralmente schifo; con che coraggio potremmo farne parte ed entrare in quel sistema lì? Come ci sentiremmo?”.
(continua sotto)
Perfetto. Torniamo allora all’oggi, a “Murmurations”: raccontami di questa scelta di lavorare con un coro vero e proprio, che è un po’ la cifra caratterizzante dell’album.
Recentemente eravamo tornati a voler fare proprio techno. Solo che, volevamo farla con qualcosa di nuovo, di diverso, di magari pure spiazzante… Bene. Noi amiamo la voce umana, come strumento, l’abbiamo sempre amata. Ma non volevamo scegliere la classicissima soluzione dell’ospite che arriva, ti canta il ritornello, un paio di strofe, sorride, salute e se ne va, e tu poi appiccichi quello che ha fatto in studio sulla tua traccia. Volevamo invece usare la voce come fosse uno strumento vero e proprio nel “corpus” del brano. E’ successo che una delle amiche di mia moglie cantava in un coro, e vedendone una sera un’esizione ho pensato che quella avrebbe potuto essere una via molto interessante da percorrere. Creare delle vere e proprie “texture” sonore utilizzando molte voci sovrapposte fra di loro. Abbiamo approcciato Louisa, la leader del coro in questione, iniziando a spiegarle quali erano le nostre intenzioni. Abbiamo aggiunto che avevamo in testa melodie semplici, ripetitive, in qualche caso anche fanciullesche – che se ci pensi è una delle basi del jazz di Moondog, per ritornare a quello che ti dicevo all’inizio. Abbiamo parlato anche molto del lavoro del coro femminile de Il Mistero Delle Voci Bulgare (anche questo l’ho scoperto tramite Graham Massey, una sera mi convinse ad andarne a vedere il concerto e, beh, rimasi fol-go-ra-to). A Louisa tutti questi discorsi piacquero tantissimo, accettò la nostra proposta, scrisse alcune parti per coro assolutamente fantastiche, che vennero poi incise nel nostro studio. Noi abbiamo preso quanto inciso e l’abbiamo in parte riprocessato digitalmente, alterandone e deformandone di tanto in tanto l’armonizzazione, in parte c’abbiamo aggiunto delle parti di synth, di drum machine e di percussioni. E’ stato un processo che ha avuto anche grandi componenti di improvvisazione. E’ stato davvero eccitante, credimi.
Siete stati coraggiosi. Perché melodicamente ed armonicamente “Murmurations” è un disco molto prezioso e complesso, e francamente nella musica da dancefloor di questi anni queste componenti sono (colpevolmente, a mio avviso…) molto ma molto trascurate, messe in secondo piano.
Non abbiamo fatto questo ragionamento, non abbiamo pensato “Ora arriviamo noi a farvi vedere quanto siamo bravi…” (ride, NdI). Semplicemente, volevamo esplorare dei territori per noi inediti, tutto qui. Tanto, a questo punto della nostra carriera, cosa abbiamo da perdere? Siamo in una posizione tale che possiamo tranquillamente permetterci di fare la musica che ci piace, senza il rischio che questo provochi chissà quali danni o danneggi chissà quanto noi stessi o le persone che ci stanno attorno.
A proposito di musica strana e che fa da fonte d’ispirazione, qual è un lavoro che ti abbia colpito, recentemente, in tal senso?
Uhm, buona domanda. Credo di avere la risposta: Richard Dawson. Il suo folk è davvero bizzarro, “viaggioso”.
Sei uno di quei producer che ascolta un sacco di musica e tenta di essere aggiornato su tutto, o sei di quelli che preferisce concentrarsi sulla propria, di musica?
Io ascolto tantissima musica! Ma non necessariamente nuova. Perché negli anni c’è un sacco di roba fighissima che mi sono fatto sfuggire, è fisiologico, e sente sempre la necessità di andare a recuperarla. Fra i “nuovi”, trovo veramente interessante quello che sta facendo Arca.
Tanto, a questo punto della nostra carriera, cosa abbiamo da perdere? Siamo in una posizione tale che possiamo tranquillamente permetterci di fare la musica che ci piace, senza il rischio che questo provochi chissà quali danni o danneggi chissà quanto noi stessi o le persone che ci stanno attorno
E’ in generale un buon periodo per la musica, creativamente parlando?
Credo di sì. Col fatto che ora è diventato molto più difficile vivere solo di musica, da un lato questa è una iattura, dall’altro ora ci sono molte più persone che sono libere dalla pressione di dover “soddisfare il mercato”, visto che il mercato si è ristretto tantissimo e ha tagliato fuori molte persone. Anche per quanto riguarda chi ascolta, la situazione è diversa: un tempo per andare a sentire cose bislacche ed atipiche dovevi fare i salti mortali, essere parte di ben precise nicchie, oggi se solo lo vuoi puoi arrivarci in dieci secondi. Non è male tutto questo, dai.
Domanda che ho tenuto per ultima: come sta Jas?
Sta bene, dai. Certo, è dura questa situazione. Ora è sotto chemioterapia; inevitabilmente, non è in formissima, si stanca abbastanza facilmente, non può fare sforzi particolari. Tutto quello che possiamo e dobbiamo fare è essere positivi, ottimisti. D’altro canto, ci sono persona a cui è stata diagnosticata la stessa malattia e a cui è stato detto “Mi spiace, hai ancora un mese di vita o poco più”, e questo per fortuna non è assolutamente il caso di Jas. Lui sta combattendo. Ti posso dire che stiamo già parlando del prossimo disco da fare. Ovviamente: senza fretta, senza stress. L’importante è la salute. Che pare un luogo comune, ma in certi momenti capisci quanto sia maledettamente vero…