Credits: Nacho “Nabscab” Alvarez
Vedi Bloody Beetroots Death Crew 77, l’evoluzione/traduzione live del progetto Bloody Beetroots, e pensi, molto semplicemente: le chiacchiere stanno a zero. Stop. Possono piacere o meno, possono essere considerati sgraziati, eccessivi, paraculi, antipatici, la-morte-dell’elettronica (anzi: il cancro, ma ci torneremo sopra…), tutto quello che volete voi, ma le chiacchiere stanno veramente a zero.
Giugno. Barcellona. Razzmatazz, ovvero uno dei club più celebri e prestigiosi d’Europa. La sala principale è tutta per loro. Non (solo) nel senso di programma, ma nel senso che è piena come un uovo e soprattutto c’è un’entusiasmo infernale, da bolgia dantesca, c’è una comunanze fisica e mentale tra gente sul palco e pubblico che è incredibile, è elettrica, è quasi disturbante. Non sono gli unici italiani “elettronici” che hanno successo all’estero, sia chiaro, ma sono di sicuro quelli che posseggono il successo più globale e viscerale. Ma non solo come italiani. Abbiamo vent’anni di live set alle spalle come spettatori e cronisti, elettronica, rock, pop, jazz, hardcore, hip hop, tutto; ma un trasporto così, raramente l’abbiamo visto. Ecco allora che andare a passare una serata di chiacchiere con l’uomo che sta dietro a tutto questo, Sir Bob Cornelius Rifo, diventa davvero ma davvero interessante…
Prima sorpresa. Senza maschera addosso, Bob è molto meno tenebroso e molto più gentile di quel che si potrebbe pensare. E’ cortesissimo. Ha veramente voglia di parlare. Sorride molto. Ma in questa sua apparente semplicità e disponibilità, leggi comunque una sottile vena di intensità ma forse anche di follia – una classica follia da provincia veneta, dove tutti sono lavoratori e integrati nel sistema ma nel weekend magari sbroccano – impressione che ti accompagna durante tutta la sessione di parole a registratore aperto, soprattutto quando si prende ogni tanto della pause strane prima di iniziare la risposta. Impressione che non hai quando parli con Dennis Lyxzen (leader del monumento punk-hardcore svedese International Noise Conspiracy ma ora anche, veramente a sorpresa, una delle colonne dei Bloody Beetroots Death Crew 77) o Jacopo Battaglia (batterista degli Zu, una delle icone underground a livello mondiale di quel assurdo incrocio tra jazz e punk hardcore, pure lui arruolato a tempo pieno nei BBDC77), e non solo perché loro rispondono subito, senza prima fissarti in silenzio con un ghigno sorridente in faccia. Però ecco, basta chiacchiere a latere: diamo spazio alle parole che ci siamo scambiati con Rifo. O almeno a parte di esse.
L’hai ripetuto più e più volte: il tuo obiettivo è portare nel mondo caos ed anarchia. Bene. Però ti chiedo: al livello a cui sei arrivato, coi Bloody Beetroots che hanno non solo fama mondiale ma ora con la creazione di Bloody Beetroots Death Crew 77 girano in un tour rodatissimo, a cui lavorano molte persone fra agenti, tecnici, roadies, dove tutto insomma essere perfettamente coordinato e sincronizzzato, parlare di caos ed anarchia non rischia di diventare solo uno slogan distaccato dalla realtà delle cose? Come si fa a portarli avanti davvero, anche oggi?
Ehi. Che bella domanda. Come si fa… Si fa portando in giro un concerto come il nostro. Un concerto dove, in una sola ora, succede veramente di tutto. Sul palco, davanti al palco. E questo è un fatto. Agire così è forse il modo più genuino, più onesto; non c’è bisogno di scomodare teorie particolari su caos ed anarchia, teorie che magari in un periodo storico come questo potrebbero diventare malsane e difficili da gestire. Io caos ed anarchia li porto ai concerti dei Bloody Beetroots. E sono sicuro di quello che faccio, perché quando ci sono i concerti dei Bloody Beetroots sono io a comandare, è l’unico momento in cui comando davvero.
Altro dubbio: parlare di caos ed anarchia per una musica che è fatta anche e soprattutto di software, di plug in, di molte ore passate davanti al monitor a costruire e rifinire, di costruzione scientifica delle architetture ritmiche, è forse un po’ azzardato. No?
No, no, no. Una peculiarità dei Bloody Beetroots è che fanno dell’errore una bandiera. Mi spiego: il modo in cui comprimo, mixo, esaspero i pezzi sarebbe considerato, da un fonico qualsiasi, un errore totale, un qualcosa di fatto praticamente a cazzo. Io, passo pochissimo tempo in studio. Ne passo invece molto fuori. Nel mondo. Fra la gente. Preferisco perdere ore e ore a pensare un titolo per una traccia che spendere lo stesso tempo per rifinirne i suoni. Non mi vedrai mai spendere mezza giornata per trovare il rullante “giusto”. Credo nel caso, nella casualità. Produco velocemente. E faccio molti sbagli, molti errori, molte imprecisioni. Ma è proprio in questo modo che finalizzo, che arrivo al giusto risultato. Caos ed anarchia funzionano. Davvero.
Sei uno che ascolta molti dischi altrui?
Sono uno che ascolta quello che capita. Non ho un gusto particolare, o ce l’ho nel senso che è “mio”, difficilmente incasellabile. Sono un ascoltatore casuale ma lo sono non a caso, questo è il punto: penso infatti che questo modo di approcciare la musica mi porta più vicino alle modalità di ascolto che ha la maggioranza delle persone. Quando giro in macchina, accendo la radio e cambio spesso stazione; lo facevo quando ero piccolo e ascoltavo musica con mia madre, lo faccio adesso. Poi chiaro, se qualcosa mi piace lo ascolto molto analiticamente, ma in generale credo molto nell’effetto benefico dell’ascolto casuale.
Insomma, non sei uno che va su Beatport e scrutina con attenzione tutte le novità…
No. Non potrei mai farlo. Amo vivere, io.
Sei abbastanza un’eccezione, in questo. I tuoi colleghi spesso su Beatport o sui software o su cose simili ci passano le ore, quotidianamente.
Lo so. Ma io amo vivere, lo ripeto: stare tra le persone, parlare, discutere. Penso che sia stata questa attitudine a conquistare uno come Dennis, che è sempre stato sideralmente distante dagli ambiti della musica elettronica; però ci siamo conosciuti, abbiamo parlato, il dialogo ci ha conquistato l’un l’altro. Ed eccoci qui.
Tra l’altro proprio questo sodalizio con Dennis, che con gli International Noise Conspiracy è conosciuto anche per la sua forte attitudine politica (indirizzata in una ben precisa direzione), spazza via tutta una serie di dicerie a mezza voce sui tuoi orientamenti: insomma, non credo proprio che il leader degli International Noise Conspiracy si metterebbe a collaborare con un filo-nazista…
Ci siamo limitati a rimettere in circolazione in passato alcune icone, da qui so che è nato l’equivoco, ma lo abbiamo fatto per de-contestualizzarle, anzi, per donare loro una nuova vita e dei nuovi significati completamente diversi. Io rifiuto una lettura troppo banalizzante della politica, di ciò che è politico: per me l’unica vera politica è arrivare ad essere liberi in tutto quello che si fa, e poterlo spiegare e farlo capire alle persone.
Ma i Bloody Beetroots, che messaggi stanno dando concretamente? A proposito: ora ne possiamo parlare tranquillamente, senza stupidi sensazionalismi, ma vorrei tornare su quello che è successo in Veneto un po’ di tempo fa (uno squilibrato ha accoltellato in pista due ragazzi durante un loro concerto, NdI). Quanto ti ha colpito quell’evento?
Mi ha fatto riflettere molto. Mi sono interrogato se coi Bloody Beetroots stessi veicolando il messaggio giusto, in che modo questo messaggio venisse e viene recepito e veicolato; se la gente che viene ai miei concerti è davvero la gente che vorrei che venisse, o meno. Però, onestamente, alla fine mi sono detto che io sono il primo a non voler fare distinzioni, nella mia vita, quindi certe cose le devo mettere in conto. Purtroppo. Ciò che posso fare è tentare di capire perché queste cose, nella loro malvagità, accadono – anche quando io non ne ho colpa.
Ok. Ma qual è allora il vero messaggio dei Bloody Beetroots?
Qualcuno può darne delle chiavi interpretative estremamente violente. E’ successo a Charles Manson, è successo a me. Spesso il messaggio che vuoi comunicare viene letto in modo totalmente distante e mentalmente malato rispetto alle tue intenzioni. Devi metterlo in conto. E attenzione, una lettura distorta di ciò che vuoi comunicare non necessariamente porta a cose brutte o violente: può accadere esattamente il contrario, può cioè accadere che qualcuno faccia proprio il tuo messaggio per dare vita a qualcosa di ancora più positivo ed illuminato. Dobbiamo ricordarci che c’è sempre una doppia faccia per una medaglia.
Che rapporto hai col tuo pubblico?
Empatia. Lo “sento” molto. E cerco sempre di chiedere molto, da lui. Non mi vedono in faccia, ok: ma questo è un modo per dire che chiunque ce la può fare, chiunque può finire lì sul palco. Non servono i talent show, cazzo: se ce l’ho fatta io, che arrivo da un paesino buco di culo che non rappresenta nulla, ce la può fare chiunque. Ecco, le nuove generazioni questo se lo stanno dimenticando sempre più spesso. Non ci credono più. O, peggio ancora, provano a scegliere la strada più breve. Che poi, paradossale!, la strada più breve può diventare anche la strada più lunga: ci sono persone che già da dieci anni provano immancabilmente a farsi selezionare per il “Grande Fratello”, invece di provare a valorizzare il proprio vero talento artistico… Dicono: “Sì, io sarei musicista, ma sfondare con la musica oggi è difficile…”. Io, con la mia maschera, dico: no cazzo, dovete lavorare su di voi, sul vostro talento, non sulla vostra faccia. Così sì che ce la potete fare senza sputtanarvi, senza vendervi l’anima.
E chi non ha talento?
Chi non ha talento, troverà qualcosa di altro da fare.
In più interviste, ho visto che ti sei dichiarato ben poco italiano.
Perché quello che rappresento io e che rappresentano i Bloody Beetroots non è l’Italia. Oddio, sia chiaro: sono contentissimo che la gente ci prenda e ci riconosca come italiani, constatando così che pure una manica di italiani possa dare vita ad un progetto dalla risonanza globale… A maggior ragione perché il pubblico italiano oggi è anestetizzato, si fa autoboicottare dai media che inculcano la convinzione che non ci sia nessuna speranza, che un gruppo di italiani non potrà cioè mai veramente avere lo stesso fascino e la stessa risonanza di artisti di altra nazionalità. Oh, non solo: una volta avevo letto da qualche parte la dichiarazione di un signore, pare pagato apposta per promuovere la musica italiana all’estero, che aveva detto “I Bloody Beetroots non cantano in italiano, quindi io non posso promuoverli all’estero comunicando il fatto che sono italiani”. Ma sei scemo? L’italiano non è solo una linga (lingua che per altro amo); l’italiano è una cultura. Una cultura che in parte è anche già andata persa. Io non mi sento di rappresentare l’Italia, perché quello che l’Italia è diventata oggi è una cosa brutta, oscena.
E quello che è diventato oggi Bloody Beetroots, a livello di fama planetaria, te l’aspettavi?
Nooooo… per nulla. Ma se è vero che non me l’aspettavo, è altrettanto vero che l’ho sempre voluto: sai, come quando sei piccolo, che pensi di continuo a desideri irrealizzabili. Se mi do un merito, è quello della perseveranza. Ma quando mi guardo attorno – grandi nomi, grandi posti, grandi pubblici – ancora adesso non mi capacito… Ci penso un attimo, e scoppio a ridere, da solo…
Prossime mosse? Senti tra l’altro il peso della responsabilità, visto il livello a cui sei arrivato?
Un peso lo sento, ma non credo sia quello della responsabilità quanto quello della sfida artistica di far evolvere Bloody Beetroots ulteriormente. Credo che il progetto, ad oggi, sia stato capito realmente solo in parte. Bisogna quindi farlo mutare ancora di più. La prossima sfida sarà dare un ruolo centrale ai testi, alle parole. Testi che saranno semplici, ma arriveranno al punto; che esprimeranno cose che potrebbero anche apparire naif, semplicistiche, ma che proprio per questa loro semplicità arriveranno anche alle persone che qualcuno potrebbe giudicare come ignoranti ed impreparate. E questo non significa voler diventare pop; significa voler diventare il più diretti possibile.
Magari facendosi bersagliare ancora di più dalla critica elettronica più colta.
Una volta in un articolo hanno scritto una cosa molto interessante: “Bloody Beetroots è uno dei nomi più stupidi nella storia della musica dance” – la cosa mi è piaciuta un sacco! Ancora di più mi è piaciuto quando ho letto da qualche parte “I Bloody Beetroots sono il cancro della musica elettronica”. Voleva essere un’offesa, io l’ho letto come un grandissimo complimento.
Come mai?
Perché io non faccio, in realtà, “musica elettronica”. E non faccio nemmeno “musica dance”. “Romborama” è un lavoro di rottura, rispetto a certi stilemi. I Bloody Beetroots attraversano e rappresentano molte cose diverse. Io personalmente non so dove sono e cosa faccio, e questa è la cosa che mi piace di più: il mio purismo è questo. Oggi nessuno prova a fare qualcosa di nuovo, invece è proprio in un periodo come questo che ne avremmo dannatamente bisogno.
Anche nelle nuove cose dei Bloody Beetroots predomineranno i toni scuri?
Sì, sicuramente. Spesso dark è sinonimo di profondo, sai perché? Perché la profondità nell’animo di una persona è qualcosa che per forza non può mai essere compresa appieno, e ciò che non viene compreso emana sempre un che di oscuro. Anche io, in effetti, non mi capisco fino in fondo… e allora eccola, la mia dominante nera.