Non rilascia molte interviste, Anja Franziska Plaschg, in arte Soap&Skin, quindi siamo particolarmente onorati nel proporvi questa lunga chiacchierata con la talentuosa musicista austriaca, che da pochissimo ha dato alle stampe il suo terzo disco sulla lunga distanza, dal nome per nulla laconico, “From Gas to Solid / You Are My Friend”. Tre dischi in nove anni non sono molti, eppure in ciascuno emerge un’urgenza espressiva fuori dall’ordinario, come se Anja Plaschg sentisse la necessità di condividere ciò che sente con il suo pubblico, nel momento in cui il carico non è più sostenibile sulle sue sole spalle. O almeno è questa l’impressione che avevamo e che, in qualche modo, viene confermato dalle sue parole, così precise e ponderate, valutate con calma, tra una pausa e l’altra, salvo partire in quarta per spiegare un concetto che le sta particolarmente a cuore. Le sue parole sono come la sua musica, con il pianoforte che scandisce le note lentamente da un lato e le orchestrazioni sontuose dall’altro, nel mezzo un’elettronica che si è fatta meno brumosa e che entra ed esce in punta di piedi, senza pesare sulla produzione; il tutto è ora rischiarato da una luce inedita, che speriamo potrà davvero allontanare certe tenebre che hanno gravato sul suo recente passato. Musica che è catarsi, per lei e per tutti noi.
Vorrei partire dal tuo “qui e ora”. Come stai?
Non saprei dirti bene, sono in quella strana fase in cui ci si sente esausti per aver appena terminato tutte le fasi che portano alla pubblicazione di un album, ma è anche un buon periodo perché sono impegnata a cercare di adattare questo stesso lavoro per l’attività dal vivo. È finito un ciclo, e sto lavorando per quello successivo.
“From Gas to Solid / You Are My Friend” è il tuo terzo disco in studio. Già dal primo ascolto ho trovato che, oggi come ieri, a colpire è la tua grande forza espressiva.
Ti ringrazio, non rifletto mai su questa cosa che dici, quando lavoro sono presa a tal punto da non pensare a come gli altri possano percepire la mia musica. È un processo che è difficile da spiegare, parte da ciò che sento e mi assorbe completamente.
Trovo che il tuo sia un “sentire” le cose non comune, come se in ogni disco ci fosse un presente vibrante. Anche quando canti la bellezza, non solo di questioni dolorose, c’è molto struggimento.
Credo di capire ciò a cui ti riferisci, per me non è facile realizzare un album, è un processo che ti prosciuga, bisogna essere pronti e non sempre lo sono.
C’è un modo, comunque, in cui tieni attiva la tua creatività nel tempo?
Ci sono momenti in cui mi sento molto produttiva, quindi ne approfitto per fare tutto il possibile. Ma poi ho anche bisogno di pause, di non fare nulla, di vivere semplicemente la mia vita. Non sono il tipo di musicista che passa tutto il suo tempo in studio a fare prove su prove per mantenere viva la cosiddetta “scintilla”.
Sbaglio o “From Gas to Solid / You Are My Friend” descrive qualcosa che non è più solo tuo. Come se vi fosse tutta l’umanità dentro, non solo quella che ti è propria?
È vero, sebbene l’album sia il frutto di un processo di introspezione personale, tra l’altro non proprio leggero, a un certo punto ho capito che ciò che per me è doloroso può esserlo anche per gli altri, quindi ho avvertito la necessità di focalizzarmi sul come poter aiutare me stessa e tutti coloro che mi somigliano. La risposta è questo album.
Il processo di scrittura credo sia qualcosa di molto privato. Quanto coraggio ci vuole per decidere, poi, di condividere la propria intimità con gli altri?
Hai ragione, la scrittura è qualcosa che fa parte del proprio io più intimo, però la cosa più bella della musica è proprio il poter trasmettere ciò che è sostanzialmente privato con una modalità diversa e universale, non so se ho reso l’idea. Attraverso la musica mi sento libera di condividere tutto, anche ciò che per timidezza o per vergogna non direi mai a nessuno.
Nelle tue canzoni c’è sempre grande complessità, di ritmo, di melodia, di armonia, che trova nei pezzi non strumentali anche il giusto contrappunto testuale. Quanto è complesso questo processo di incastro dei tasselli al proprio posto?
È un processo che tende a essere sempre differente, però posso dirti che la parte testuale è quella che trovo più difficile da portare a termine. Spesso, proprio per questo motivo, la lascio per ultima. La melodia, invece, arriva per prima, tende a essere il mio primo momento, quello in cui mi metto a suonare, quasi sempre al piano, per cercare ciò che voglio comunicare. Però non ci sono certezze e delle volte accade tutto al contrario, oppure non accade affatto e si rimane come sospesi, in attesa di compimento.
Raccontaci dei tuoi studi musicali, di come sei diventata la Anja Franziska Plaschg di oggi.
Oddio, è una domanda difficile, da dove posso iniziare… Da piccola ho preso lezioni di pianoforte, la mia non è esattamente una formazione accademica ma dall’età di sei anni ho avuto un maestro che mi ha seguita per tanto tempo. Suonavo davvero male, a essere sincera, e a un certo punto ho deciso di abbandonare per concentrarmi sugli studi artistici. A quattordici anni ho iniziato a interessarmi anche ad altri strumenti, mentre sentivo che qualcosa stava cambiando in me… a sedici anni, dopo un periodo abbastanza duro, ho deciso di trasferirmi a Vienna per frequentare l’Accademia di Belle Arti. In seguito ho comunque smesso di dipingere e ho ripreso a suonare il piano, con l’idea però di poter comunicare qualcosa di diverso rispetto al passato, diciamo che è da quel momento in poi che ho trovato una consapevolezza differente.
Qual è stato, invece, il tuo primo contatto con la musica elettronica?
Risale al periodo in cui ero una quattordicenne. Mio fratello, che ha dieci anni più di me, portò in casa questo programma musicale, Ableton, e gli piaceva sperimentare nell’ambito della musica techno. Produceva queste sue tracce elettroniche e si divertiva molto, così fui incuriosita. Si aprì per me un mondo del tutto nuovo, che tutt’oggi mi piace esplorare.
Nel tuo splendido debutto del 2009, “Lovetune For Vacuum”, ci sono alcuni pezzi strumentali che mi ricordano certa Warp music. A quei tempi era un’influenza per te?
Assolutamente, ero del tutta rapita dai suoni di questi nuovi produttori inglesi, per me fu come trovare una miniera di tesori.
In ogni disco vengono raccolte, più o meno inconsapevolmente, molte tracce del proprio presente e passato. Hai pensato a cosa è finito dentro a “From Gas to Solid / You Are My Friend”?
È una domanda curiosa, tante cose che ho fatto o che ho ascoltato neanche le ricordo e magari avranno influenzato comunque il processo di lavorazione. Credo comunque che dentro ci siano finiti molti film e libri che ho visto e che parlano di umanità, non riesco a farti degli esempi precisi, ma durante la stesura dell’album ero in cerca di tutto ciò che mi aiutasse a esorcizzare un periodo difficile…
Parlami, piuttosto, di una cosa meravigliosa come la nascita di una figlia.
È una cosa sconvolgente, sì… ora sono del tutto sopraffatta dai miei sentimenti, scusami se non riesco ad argomentare bene… quello che ho capito, però, è che nonostante alcune cose siano cambiate, altre non cambieranno mai e poi mai, ho la necessità di continuare a comporre, di continuare a suonare, non posso e non voglio fare a meno di essere una musicista.
Torniamo alla musica, com’è nata la canzone “Italy”? Probabilmente c’entra con il film “Sicilian Ghost Story” che hai sonorizzato, ma immagino ci sia dell’altro.
Sì, certamente. Quando ho lavorato alla versione contenuta nel film, è stato un periodo vissuto così intensamente… il film racconta la vicenda di una giovane che non si arrende alla sparizione del ragazzo di cui è innamorata. Ho vissuto questa storia con particolare trasporto, forse anche perché ero già mamma al tempo, quindi questo avrà amplificato certe sensazioni… Ma nel pezzo c’è anche altro, una sorta di ricerca della luce. La canzone è una specie di catarsi. Poi, ho dovuto combattere con l’idea di cantare “Awake me / Hopefully / In Italy”, mi risultava una frase un po’ stramba… ma alla fine credo che il tutto sia andato come doveva andare. O almeno spero.
È così, è un pezzo che funziona, soprattutto nella cornice dell’album. Dicevi che stai adattando il disco alla prova dal vivo (in Italia, il prossimo 8 aprile al Santeria Social Club di Milano, NdI). Puoi svelarci qualcosa di più?
Sì, il disco ha questa sorta di dimensione “corale” che mi piacerebbe mantenere dal vivo, quindi sto provando con una formazione allargata che comprende fiati e corde. Devo confessarti che vorrei soffrire meno quando mi esibisco dal vivo, perciò spero che stare su un palco con questo suono organico tutto attorno a me possa aiutare.
Vivi in Austria, che aria si respira lì? Intendo non solo musicalmente parlando.
Vienna continua a essere una delle città europee in cui si vive meglio, c’è un’offerta culturale molto stimolante e ci sono sempre tante cose da fare. Il problema è tutto il resto, le persone che stavano portando avanti un’idea di politica più aperta e tollerante hanno rinunciato. Hanno semplicemente gettato la spugna. Spero che si possa tornare indietro, in qualche modo.
Cosa stai ascoltando di recente?
I miei ascolti sono abbastanza caotici, Bon Iver mi è di ispirazione recentemente, così come alcuni autori di musica folk orientale. Un disco che sto ascoltando moltissimo è la colonna sonora del film “Under The Skin” firmata da Mica Levi.
Parlami del tuo rapporto con le cover: ti sei confrontata, tra gli altri, con Nico, Desireless, Robert Johnson, Omar Souleyman e pure con David Bowie in un recente tributo.
È strano, sai, ho una specie di dipendenza dalle cover. Mi piace entrare in una canzone che già esiste e cercare di spostare il suo significato, adattandolo a me, cercando di far assumere al brano un altro colore.
Forse sei tu stessa che assumi un altro colore attraverso di esse…
Esattamente, è proprio ciò che volevo dire! Per esempio nel mio ultimo album ho reinterpretato “What A Wonderful World” di Louis Armstrong e c’è un motivo ben preciso… naturalmente conoscevo il brano già da parecchio tempo, eppure un anno fa mi capitò di riascoltarlo e suonò in me in maniera del tutto differente rispetto al passato. Quelle parole mi hanno colpito più di sempre, suonavano così distanti da ciò che sono, allora ho sentito la necessità di misurarmi con esse, per vedere l’effetto che avrebbero prodotto in me e negli altri. Nell’album potete ascoltare la prima take che ho realizzato.
Di solito sei una perfezionista quando registri?
Sì, lo sono, ma non mi frega molto di come sono messi i microfoni, della pulizia della registrazione, oppure di altre cose di natura più tecnica, diciamo che sono una perfezionista per ciò che voglio trasmettere. Se non riesco a far uscire fuori ciò che sento, butto via tutto.
Toglimi un’ultima curiosità, la cover di “What A Wonderful World” di cui abbiamo parlato prima, che tra l’altro è posta in chiusura del disco, è un anelito di speranza solo per te o per tutti noi?
È per me e per tutti voi!
Foto di Evelyn Plaschg