Un esploratore gentile ma affilato delle emozioni: si potrebbe riassumere così la figura di Guido Zen, ovvero colui che si cela dietro la figura di Abul Mogard, oggi sul palco di Inner Spaces, la rassegna milanese che fa base all’Auditorium San Fedele. Una rassegna più unica che rara: un auditorium giusto dietro Piazza Duomo, un uomo di chiesa con una forte passione per la musica contemporanea e la giusta apertura mentale per fidarsi ed affidarsi ad un nucleo di super-esperti di elettronica, di quelli che arrivano in origine dal dancefloor e dal clubbing ma che fin da subito hanno voluto “nutrirsi” con stimoli sfaccettati, sofisticati, alti. Unire gli sforzi, e via. Dura da anni questa magia (noi ci abbiamo visto delle cose fantastiche, dai Senyawa a di recente uno strepitoso live di Shackleton): ed anche in questa tranche di 2023, i risultati sono sempre sensazionali, con lo spettacolo di stasera già sold out (ci sarà spazio anche per una rivisitazioni del repertorio di Arvo Pärt) e l’invito quindi a non arrivare “lunghi” sulle prossime date a livello di acquisto preliminare del biglietto.
Ma dicevamo di Abul Mogard aka Guido Zen: la prima cosa da sfatare, è la divertente narrazione “costruita” attorno a questo progetto. Qualcuno di voi, più abituato a perlustrare i mari dell’elettronica di ricerca, si sarà imbattuto in questa bizzarra storia del pensionato serbo, di Belgrado, che improvvisamente scopre la musica elettronica e con strumenti autocostruiti – perfetto “riscatto” rispetto alla sua vita lavorativa ed all’alienazione industriale – crea un mondo tutto suo, molto particolare. Qualcuno c’avrà anche creduto (pochi, ma qualcuno c’ha creduto; lì dove lo stesso Zen dice “Io ero sicuro non ci avrebbe creduto nessuno. E invece…”). Il punto non è se la cosa sia vera o meno, perché non lo è: il punto è la voglia di creare un contesto, un colore (narrativo, in questo caso) in più. E’ questo a rendere la musica di Guido Zen più intensa di altre, più interessante di altre. E’ questa attitudine. Peraltro: gli strumenti se li costruisce e se li modifica da solo, questo sì.
“Che poi, la roba divertente è che quando andai a suonare a Belgrado uno dei dj che doveva suonare prima di me era un fan delle robe di Mogard. Ad un certo punto gli dissi: ‘Guarda che sono io, sono io che mi sono finto un pensionato di Belgrado’. Lui, invece di incazzarsi, era divertitissimo dalla cosa e contento anzi che avessi scelto proprio Belgrado per questa narrazione. Una città che in origine avevo scelto a caso, forse perché faceva esotico, chiamava in campo la suggestione da Cortina di Ferro, cose così, comunicando però un’idea di grande vitalità. Tra l’altro è il primo posto dove mi sono esibito senza la protezione di un telo davanti, che per anni ho usato nei miei spettacoli dal vivo: era al Drugstore”.
Per chi non lo sapesse, il Drugstore è un po’ il “Berghain di Berlino”: un luogo notevolissimo, ed ormai piuttosto prestigioso. Il grande paradosso infatti è che Guido Zen / Abul Mogard è più gettonato ed ha più profilo all’estero che in Italia, e questo avendo milioni di ascolti complessivi su Spotify (controllate voi stessi). Saranno anche i molti anni passati a vivere a Londra. “Ho vissuto a Londra in due fasi, entrambe praticamente identiche come durata: sei anni e mezzo. La prima è stata negli anni ’90, la seconda con la mia compagna (Marja de Sanctis, ispiratrice ed autrice anche di molto del corpus artistico di Guido, ndi) nel 2013. Con la Brexit, è cambiato tutto. E questo cambiamento si è innestato su una dinamica già ultra-capitalistica di suo, dove tutto è molto orientato al denaro. Negli anni ’90 Londra magari non era più quella esplosiva degli anni ’80, ma comunque era molto legata all’arte, alla creazione. Oggi la creazione è e deve essere soprattutto economica”.
Rimpianti, nell’averla lasciata e nell’essere tornato circa tre anni fa in Italia? “Londra è ancora un posto dove mi sento molto a casa ogni volta che ci torno. Viverci ha ovviamente le sue difficoltà, ma ci sono anche alcune cose meravigliose – come ad esempio i grandi musei completamente gratuiti. Questo davvero arricchisce la qualità della vita. Poi in generale è una città di connessioni, di occasioni dal punto di vista musicale. Quello sì. Però magari ora sono cambiato io, siamo cambiati io e la mia compagna, ci siamo fatti più adulti, abbiamo in parte altre esigenze. E poi questa cosa delle connessioni non va sopravvalutata: vero, la mia carriera si è consolidata durante i miei anni londinese, ma tutto è iniziato a grazie a contatti sì internazionali ma chi era costruito prima ancora di trasferirmi per la seconda volta in Inghilterra”. Insomma: si può fare. E nascono album di grande successo e come accennato prima dai numeri notevoli, come “Circular Forms”.
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Il curriculum vitae di Guido Zen è esteso. Ad esempio c’era stato prima di Abul Mogard – avventura giocata in solitaria – tutta la fase in duo sotto l’insegna Gamers In Exile. “Abul Mogard è iniziato come una necessità: avevo voglia ed esigenza di creare una musica che fosse istintiva il più’ possibile. Avendo lavorato per anni in progetti collaborativi, ero abituato a fare dei compromessi per lascare spazio agli altri componenti del gruppo. Questo e’ anche il bello della collaborazione, che ti porta in luoghi inaspettati. La mia difficolta’ e’ stata appunto ritrovare quella fiducia in me stesso per poter lavorare da solo , e quello non e’ stato affatto facile. Questa nuova musica e’ stata anche terapeutica: quando è ‘nato’ Abul Mogard stavo passando un periodo non semplice e lavorare in studio istintivamente e con queste tessiture sonore piene di armoniche e’ stato di grande aiuto. Scoprire che il feedback potesse essere così intenso è stata una sorpresa ed una grande soddisfazione. Sì, una sorpresa: inizialmente era giusto materiale che avevo messo su SoundCloud, senza chissà quali progetti o aspettative, e non avevo nemmeno stabilito una direzione precisa dove farlo andare: come ti dicevo era in primis un atto terapeutico”. Ha funzionato.
“Ha funzionato, sì, e si è anche evoluto. Si è musicalmente parlando stratificato. Ma resta il principio base: ciò che faccio, deve emozionarmi. Se ascolto quello che faccio, devo ‘entrarci’ dentro. Poi la forma può essere più o meno aggressiva, i tempi più o meno dilatati; ma deve essere qualcosa che mi colpisce nel profondo. Infatti l’unico consiglio che mi sento veramente di dare è di fare qualcosa prima di tutto per sé, qualcosa che sia profondo e d’effetto prima di tutto per se stessi. Molti oggi provano a fare le cose col bilancino, a fare insomma la ‘cosa giusta al momento giusto’: non sto nemmeno a dire se sia giusto o sbagliato, faccio solo notare che è rischioso, perché così è altissimo il rischio di fare qualcosa che altri stanno già facendo. Tu arrivi dopo. E, giocoforza, non c’hai messo solo cuore, ma anche un po’ di calcolo: questo può diminuire l’impatto di quello che crei”. Un momento di pausa, poi Guido continua e specifica ulteriormente: “Non sto dicendo di non prendere mai ispirazione da altro, sia chiaro. L’ispirazione da altre cose che ci sono in giro spesso la prendiamo che noi la vogliamo o meno, non è una cosa negativa di per sé. Devi però giusto ricordarti se sei un artista di mettere sempre un forte filtri ‘personale’, nel riprocessare la musica che ti circonda e che trovi interessante. A me più volte è successo di partire sì con una precisa ispirazione in testa, legata a qualcosa che avevo sentito e mi era piaciuto, ma di trovarmi poi con un risultato finale completamente diverso rispetto all’ispirazione originale. Quando questo accade, è un ottimo segno”.
“E poi c’è il ‘brivido del precipizio’: spingersi un po’ oltre, aiuta. Aiuta molto. Ecco, agli inglesi andrebbe invidiato soprattutto questo: l’attitudine che hanno a non farsi problemi, a fare sempre quel ‘passo in più’ impegnandosi sempre a cercare di andare oltre, di essere più forti, più sfrontati, superare insomma i limiti. Su questo abbiamo molto da imparare, da loro. Sono più propensi da noi ad abbandonare le comfort zone. E questo in un mondo musicale come quello odierno, che è piano di progetti musicali come mai (anche nel mio campo, quello diciamo dell’ambient), è fondamentale. Non manca la buona musica, quella fatta bene: ma per emergere davvero, oggi più di prima bisogna avere coraggio”.
Un discorso su cui ci soffermiamo molto, anche parlando di come alcuni grandissimi artisti a lui vicini come attitudine sonora – tipo Alessandro Cortini e Caterina Barbieri – per affermarsi sono dovuti andare all’estero. “In Italia in effetti c’è meno apertura verso ciò che è avventuroso. C’è meno voglia di scoprire. Per poi arrivare al paradosso per cui, appunto, se sei un talento italiano per vederti pienamente riconosciuto deve prima esserci una validazione da parte di un mercato estero. Succede molto spesso, è successo con Alessandro – che è un amico – ed anche con Caterina Barbieri”.
Cerchiamo di non farlo succedere oltre. Intanto, progetti deliziosi come Inner Spaces sono proprio l’antidoto migliore a questo tipo di dinamica che ci rende provinciali&esterofili cronici: rassegne dove si combina, si sorprende, non si ha paura di perseguire una estetica colta e raffinata ma, non per questo, snobisticamente esclusiva. E infatti, i sold out arrivano. Sì: arrivano. Come dice il claim di questa stagione: “Echi di speranza“.