Partiamo (quasi) dal fondo. Partiamo da sabato sera. Partiamo da quando abbiamo visto uno dei concerti più belli della nostra vita: più belli sul palco, perché i Chemical Brothers stavano tirando fuori semplicemente il live act perfetto, ovvero quello spettacolare dal punto di vista scenico, devastante dal punto di vista sonoro (per come hanno incastonato bene modi e tempi e scelte della scaletta), gioiosamente e giocosamente sorprendente in alcuni colpi di scena; ma più belli anche girando lo sguardo ed osservando solo ed unicamente il pubblico senza tener conto di quello che succede on stage, perché il SonarClub – il palco più grande della versione notturna del Sónar – era pieno fino all’orlo in un modo che mai abbiamo visto in quindici edizioni di festival, 25.000 persone totalmente entusiaste dalla prima all’ultima fila.
Bene. Prendete questo. Tenetelo a mente. Perché se si sposta l’orologio indietro di sole 24 ore, stesso festival stessa location stesso palco, ci trovate Skrillex. Uno Skrillex che dà fondo al suo armamentario di paraculaggine, fino a suonare la “Macarena” e la colonna sonora del “Re Leone” (pare una battuta: non lo è), a modo suo coerente con l’idea che l’elettronica debba essere una festa coinvolgente per tutti nel modo più pop possibile – un’idea che lo ha portato ad abbandonare le spigolosità anche interessanti degli esordi per diventare una specie di Bignami dell’elettronica-da-festa. Uno Skrillex che rappresenta perfettamente l’idea di una musica elettronica come nuovo pop (o nuovo rock per adolescenti), qualcosa che finalmente travalica gli snobismi settari e diventa un’allegria che miete successi e numeri, lasciando tutti contenti.
Ok? Tutto chiaro? Ottimo. Allora sappiate questo: sarà anche vero che nel mondo l’EDM è il futuro, che il destino dell’elettronica è diventare sempre più un gigantesco tentativo (maldestro) di assomigliare al Tomorrowland e di ripetere il successo universale di David Guetta, un’identità così forte da iniziare ad affascinare/risucchiare pure chi fino ad ora vedeva solo il rock come unica cultura giovanile credibile. Sarà anche vero (per noi non lo è), ma sapete che c’è? C’è che esistono per fortuna ancora posti al mondo, come il Sónar, dove tutto questo non funziona, non attacca, non passa. Dove Skrillex parte con una sala piena a malapena a due terzi e finisce con la sala piena praticamente a metà, tra applausi convinti nelle prime file ma sparuti e tiepidi nelle altre.
Il punto non è che non bisogna avere Skrillex (o Deadmau5, o altra gente simile) al Sónar. Questo è un modo di ragionare sterile. Il Sónar è bello perché riesce veramente a dare un quadro a trecentosessanta gradi di quello che succede in giro, se uno si degna di venire a Barcellona per seguirlo e non solo per andare negli stessi giorni ad infilarsi nei party in giro per la città (qualche volta belli, qualche volta poco diversi da quello che si beccherebbe in patria). E’ fantastico poter passare nell’arco di un pugno di ore da Squarepusher a Skrillex. E’ bello – e raro – avere poi un festival a due dimensioni, una diurna leggermente più rilassata e sperimentale ma comunque ben affollata, una notturna da folle oceaniche e mani alzate. E vedere l’effetto che fa, assaporare il gusto della differenza, cercare di immedesimarsi di volta in volta in “mondi” musicali riconducibili ad una radice comune ma con declinazioni e criteri di valore anche molto diversi tra loro.
Però ecco: ragionare a trecentosessanta gradi non vuol dire essere un calderone indistinto, senza personalità, senza storia (come ad esempio lo sono stati molti festival rock italiani, pensiamo ad esempio all’Heineken Jammin’ Festival, quello che aveva più risorse di tutti ed è finito come è finito). Se il Sónar, anche nella sua versione notturna che è chiaramente quella che più punta ai numeri, fosse tale Skrillex dovrebbe (stra)vincere sui Chemical Brothers, in teoria. Nella pratica, è successo il contrario. Perché negli anni comunque si è evidentemente educato un pubblico a considerare storia, gusto, voglia di prendersi dei rischi artistici (e non solo di celebrare la festa del liceo durante lo Spring Break) come un valore significativo e dirimente. Nessuno ha fischiato Skrillex, non era nemmeno giusto farlo, faceva il suo meglio che poteva e secondo la sua sensibilità; semplicemente, ci si è distribuiti nelle altre sale.
Ma soprattutto: non è un problema di “non volersi divertire”. Chi ha puntato sul divertimento e sulla tamarraggine così estremi da essere oltraggiosi, ma lo ha fatto col solito “twist” strano, spiazzante, inquietante e creativo, ha vinto. Ci riferiamo ai Die Antwoord. Trionfatori pure loro, anche se non al livello dei Chemicals. Ma potremmo anche riferirci ad una cosa che, per gusto personale, non ci piace e non ci convince: la pervasiva popolarità delle sonorità trap (e derivati), che quest’anno si sono sentite veramente tanto. Si sono sentite nel live di Flying Lotus (sempre bellissimo visivamente, con sempre meno classe e raffinatezza tecnica di quanto ti aspetteresti musicalmente), nelle esibizioni della cricca Numbers (Hudson Mohawke dal vivo è meno disastroso che su disco, il misterioso Sophie sembra procedere un po’ a tentoni per accumulazione casuale di riff conquista-folla e colpi apocalittici di frequenze basse), si sono sentite parecchio anche nella sortita a nome JETS di Jimmy Edgar e Machinedrum (ormai un inno alla ghetto techno e dintorni, divertente anche, ma per fortuna che ogni tanto ci sono dei pad atmosferici da jungle old school che colorano un po’ la faccenda). Il suono-del-momento dell’edizione 2015 è questo. Vediamo quanto durerà. A noi continua a sembrare un recupero ironico del peggio hip hop tamarro americano (anche se è spacciato ormai per cosa seria), e come tutti i recuperi ironici fino ai cinque minuti va bene, al sesto boh. Se ne potrà fare a meno. Speriamo.
Non si potrà invece mai a fare a meno dell’atmosfera del Sónar diurno. I nostalgici del MACBA, del fatto che il tutto fosse ubicato nel pieno centro della metropoli catalana, ormai sono sempre più sparuti. Negli spazi nuovi della Fiera di Plaza Espanya si sta bene, c’è agio e margine per muoversi comodi, si crea comunque la vibrazione giusta con molta gente che usa il pratone centrale per sdraiarsi, rilassarsi, godersela senza l’ansia di far vedere quanto se ne intende di questo o di quello. Anche perché di gente che se ne intende ce n’è comunque sempre una quantità esorbitante: basti pensare a quanto era pieno il SonarHall durante l’estremo, estremissimo set degli Autechre (uno dei più ostici che gli abbiamo mai sentito fare, almeno nella parte iniziale, col solito ordine supremo del buio assoluto in sala) ma anche a quanti hanno “annusato” che Koreless col suo nuovo live poteva essere la rivelazione assoluta del Sónar 2015. E così è stato: ci dispiace per chi è arrivato tardi e non è riuscito ad entrare al SonarComplex (unico palco a capienza limitata, in quanto auditorium con posti a sedere) perché dentro era già tutto pieno, a sorpresa. Ma la vera sorpresa ce l’ha confezionata on stage Koreless assieme ad Emmanuel Biard: una meraviglia di laser, rifrazioni, sospensioni oniriche e una musica, quella del giovane producer, che trovava il perfetto equilibrio tra sperimentazione ed energia, scovando ad ogni curva e ad ogni svolta preziosità melodiche ed armoniche in mezzo a ricami digitali. Ci aspettavamo la classica cosa-interessantina-da-giovane-producer-inglese, una cosa così; abbiamo avuto invece uno spettacolo nel suo piccolo grandioso, magico. Come se Jean-Michel Jarre si risvegliasse a Croydon con meno soldi, meno prosopopea e più gusto contemporaneo ed affilato.
Altre menzioni d’onore diurne? Palms Trax, di sicuro; il divertimentificio di Swindle; l’energia di Kate Tempest (più forte dei problemi tecnici, che hanno invece completamente ammazzato lo show audio/video di Lee Gamble che comunque ci sembrava di suo un po’ cerebrale ed involuto); Henrik Schwarz che ha capito che col live nuovo plasticoso ed insapore preparato l’anno scorso non andava da nessuna parte e ha quindi re-incorporato elementi di quando aveva ancora l’ispirazione dalla sua; Squarepusher che sta affinando sempre più il suo set, rendendolo sempre più cattivo, urticante ed ultraterreno; la bellissima, ipnotica esibizione di Voices From The Lake; il Bene che ha regalato Floating Points, stavolta senza nemmeno indulgere troppo nel trucchetto dei 45 giri da soul e rare groove. Il resto è stato ok, magari con chiaroscuri: vedi Arthur Baker che parte insospettabilmente contemporaneo ed incisivo ma poi si sfarina col procedere del set, Dorian Concept ancora troppo a metà del guado e schizofrenico tra eleganza jazz e scintillii wonky nel suo live con la band, Kiasmos gradevoli ma nulla di geniale (e non serve agitarsi dietro alla console come se stessi suonando gabber, se fai morbida house atmosferica…), Hot Chip che se la portano a casa bene di mestiere ma senza guizzi, e in generale il SonarDome patrocinato dalla Red Bull Music Academy che, tolti appunto Floating Points e Palms Trax, quest’anno ha avuto una qualità – e un responso del pubblico – un po’ inferiore rispetto agli anni passati, perché per dire le faccende alla Mumdance o alla JME, quelle insomma da pirate radio londinese, fuori dal loro contesto soddisfano sempre a metà, con buona pace di chi intellettualmente vorrebbe fossimo tutti un po’ degli eroi del ghetto di Croydon (ma con una casa piena di buone letture e testi sull’accelerazionismo).
Tutto bello? Tutto fantastico, o comunque ben sopra la sufficienza? C’è sempre spazio per migliorare. Ad esempio, lo sappiamo che non è sempre semplice scovare ad ogni angolo degli Elektro Guzzi, ma nei live-con-strumenti non abbiamo visto quest’anno particolare originalità e qualità: si poteva insomma fare di meglio, in tal senso, in sede di costruzione della programmazione e il fatto che se il pubblico del Primavera è di bocca buona con l’elettronica è altrettanto vero che il pubblico del Sonar è di bocca buona verso certe cose “da Primavera” (vedi gli entusiasmi e la meraviglia per Owen Pallett, il suo violino e le sue atmosfere à la Arcade Fire), ma non per questo non bisogna mirare a tenere l’asticella in alto, un po’ più in alto di quanto è stato fatto quest’anno. Poi: lo sappiamo che magari è ingeneroso verso un festival di queste dimensioni e con questo numero di act, ma l’edizione 2015 verrà ricordata per essere una di quelle con più problemi tecnici (Lee Gamble e Kate Tempest già detto, ma anche il bello ed intenso show di FKA Twigs è stato funestato da un impianto che è partito per metà verso fine concerto).
Dopodiché non è colpa del Sónar se di fuoriclasse alla console come Garnier ne nasce uno ogni mille anni (commovente come sempre il suo set di chiusura) e se la gente riversa un sacco di hype ed attenzioni su Jamie xx come dj ma poi scopri che ok, non demerita e si impegna e ha pure gusto, ma un DJ Tennis si dimostra molto ma molto più bravo nell’arte di costruire un dj set fatto a modo, coi tempi e le intensità giuste e non solo col disco che piace-alla-gente-che-piace. Di come la presenza di Skrillex e di un DJ Fresh sia comunque necessaria nel Sónar Noche abbiamo già detto ad inizio report; Scuba è uscito vivo dal compito più difficile del mondo (suonare dopo l’epocale live dei Chemical Brothers), Adam Beyer con un set comunque energico e ben rifinito ha raccolto i rimastoni che erano troppo rimasti per godersi la poesia di Garnier che suonava in contemporanea due sale e trecento metri più in là, Siriusmodeselektor hanno fatto bene (ma non benissimo: lo show è bello, d’impatto, coinvolge e rallegra, ma forse ci si poteva aspettare qualcosa in più e qualcosa di diverso da questo progetto inedito), Daniel Avery in chiave tech-house ha fatto trenta ma senza mai fare trentuno, Seth Troxler ha fatto il suo ma nel Sónar lui è uno dei tanti, non siamo mica ad Ibiza, o in qualche party Off cittadino dove incontrare magari gli stessi pr che vedi tutto l’anno in Italia.
Ecco, questo il quadro d’assieme. Ci saremo persi qualcosa di sicuro (ad esempio, di dire dei Duran Duran insospettabilmente dignitosi). Non vi abbiamo detto – ed è una informazione importante – che quest’anno il festival ha raggiunto le 120.000 presenze circa, 10.000 in più rispetto all’anno scorso; né vi abbiamo detto che il sistema del pagamento con microchip incluso nel braccialetto ha funzionato da quello che abbiamo visto molto bene; così come a fare proprio i turisti magnaccioni sfrontati potremmo far notare come quest’anno ci fosse più cura nella scelta degli stand gastronomici (una delle cose su cui negli anni passati si poteva imparare dai “vicini di casa” del Primavera). Non è emerso alcun vincitore assoluto, se non i Chemical che vincono tutto da vent’anni di fila (ma in effetti quest’anno vincono di più del solito) e un Koreless che però temiamo resterà sempre ai confini dell’esser nicchia, ma la fotografia è quello di un festival e di una scena musicale in salute, consapevole dei propri mezzi – in un modo molto sereno. Non servono i frizzi, lazzi e fuochi d’artificio. Non serve puntare troppo decisi ad un pubblico che viene solo per quelli, né al contrario tornare a virare verso lidi più accigliati da connoisseur duri&puri. Non è urgente un ricambio generazionale. Stiamo tutti bene, stiamo tutti bene così. E non vediamo l’ora che arrivi l’anno prossimo.