“Pametniji popušta”
(detto popolare slavo, traducibile con: “Il più intelligente lascia stare”)
L’edizione migliore da anni a questa parte. Sveliamolo subito, il giudizio, facciamo subito quello che in teoria è uno spoilerone, un po’ come si faceva guardando il “Tenente Colombo” in televisione – sapevi subito chi era l’assassino, ve lo ricordate vero? La parte divertente era vedere come Colombo ci arrivava, alla soluzione finale, passo dopo passo, in modo metodico. Ecco: come ha fatto il Sónar ha sfornare l’edizione migliore da tempo a questa parte? C’è riuscito senza fare nulla di particolare, nessuna grossa rivoluzione, ma stando attento a tutta una serie di piccoli particolari. C’è riuscito “lasciando stare” la competizione, ecco. E mettendo in campo grandi orgogli.
Parliamoci chiaro: avere come “vicino di casa” e pure “vicino di calendario” un festival come il Primavera Sound non è semplicissimo (entrambi a Barcellona, entrambi nel giro di venti giorni). Tanto più che ora al Primavera stanno implementando sempre di più la parte elettronica (da Aphex Twin in giù, giusto per guardare a cosa hanno fatto quest’anno): magari non per sgominare la concorrenza – un gioco negli anni molto italiano, credere che la fortuna propria sia la rovina del competitor più vicino – ma semplicemente per aumentare i propri fatturati. Non è tanto e non è solo questione di dove va il pubblico: sapendo come funzionano dietro le quinte, i nomi di pregio, quelli che attirano davvero la gente più distratta e meno appassionata, facile immaginarsi un’asta scatenata dai management dei vari artisti più importanti, visto che mica puoi farli entrambi Primavera e Sónar. Ora: è una situazione che puoi affrontare cercando lo scontro definitivo, quello del “Ne resterà solo uno!”, puoi invece ad un certo punto vivertela più tranquilla e concentrarti solo sui tuoi punti forti, fiducioso sul fatto che basterà.
Parliamoci chiaro: avere come “vicino di casa” e pure “vicino di calendario” un festival come il Primavera Sound non è semplicissimo
E’ che i punti forti, una volta che li hai, devi saperli coltivare, devi tenerli sempre in forma, devi farci comunque un lavoro grosso sopra. Non puoi specchiartici sopra e stop. Non puoi vivere di rendita. I punti forti del Sónar, quelli veramente qualificanti, sono: la ricerca non convenzionale; il fatto di avere un pubblico allegro e sorridente, che ama farsi sorprendere e vuole essere sorpreso, più ancora di dimostrare di saperne a pacchi di musica; essere e sentirsi un festival diverso dai classici festival di matrice rock. Più o meno son questi. C’è stato un momento in cui il Sónar, partendo da queste basi (e partendo da una prima edizione che, ricordiamolo, aveva raccolto giusto un pugno di persone, di appassionati e curiosi), era cresciuto a dismisura, diventando gigantesco. C’è stata ad un certo punto la percezione, anzi, la convinzione che il Sónar fosse e dovesse essere la vetrina onnicomprensiva della scena elettronica.
Tra l’altro, è lì che sono nati i primi party Off, che avevano delle line up anche interessanti e particolari: il messaggio implicito era “il Sónar è la major degli eventi elettronici, amico se vuoi le cose realmente ricercate e sfiziose vieni da noi”, perché sì, è vero che il festival ufficiale aveva di suo – essenzialmente nella parte diurna – la solita dose di stranezze e rarità, ma era comunque visto come un moloch grosso e totalizzante (anche perché il Primavera doveva ancora nascere o stava muovendo i primi passi o non era comunque ancora un kolossal mostruoso come adesso), moloch che puntava a sbancare tutto, che pretendeva di sbancare tutto.
E’ in quel momento che i party Off hanno preso ad essere percepiti come “sexy”, interessanti, particolari; è lì che hanno preso ad essere percepiti come “cool”, perché andare al Sónar vero era da banaloni, andare agli Off sì che era da furbi. Un’aura che ha fatto crescere gli Off tantissimo, facendo intuire a molti che poteva essere un business d’oro; ma quando un mercato cresce, le regole si fanno cruente e solo i più grossi, forti e cinici resistono. Quindi c’è stata una progressiva morìa degli eventi Off medio-piccoli ed interessanti (perché alla fine andavano in rosso), c’è stata invece la crescita fortissima di quelli grossi (per intenderci quelli al Forum e al Poble Espanyol), con tanto di organizzazione militare di PR e robe simili. Col risultato che le dinamiche dei grossi party Off oggi sono, né più né meno, quelli delle classiche serate che ci sono durante l’anno o in giro per l’Europa durante l’estate, anche e soprattutto per il tipo di gente che li frequenta. Belli eh, niente da dire, ma – nulla di speciale. Nulla di unico. Hanno perso l’aura di particolarità. Quest’anno, hanno anche iniziato a perdere affluenza… ma magari è solo una congiuntura momentanea.
I punti forti del Sónar, quelli veramente qualificanti, sono: la ricerca non convenzionale; il fatto di avere un pubblico allegro e sorridente, che ama farsi sorprendere e vuole essere sorpreso, più ancora di dimostrare di saperne a pacchi di musica; essere e sentirsi un festival diverso dai classici festival di matrice rock
Ad ogni modo: la concorrenza degli Off e del Primavera ha fatto bene al Sónar. Per qualche anno i sonariani hanno anche provato, più o meno implicitamente, più o meno inconsciamente, a combattere la guerra contro i nemici, facendo la gara a chi ce l’aveva più lungo e grosso (il cartellone). Ma sarebbe stato un gioco al massacro, se portato cocciutamente avanti. Per due motivi: col Primavera, il massacro nasceva dal fatto che lì devi combattere con un festival che si rivolge ad un pubblico potenzialmente dieci volte più vasto, visto che operi musicalmente a trecentosessanta gradi, purché ci sia una matrice più o meno indie; coi party Off, perché quelli ormai erano macchine oliatissime per inseguire solo ed unicamente la massimizzazione dei profitti, seguendo la via dell’edonismo da club più standard. Oh, magari vincevi con uno dei due, o entrambi; ma ti dissanguavi – oppure dovevi completamente (s)venderti l’anima. Ne sarebbe valsa la pena?
Invece di piangersi addosso per il primato perduto, al Sónar hanno mantenuto il sangue freddo e, con qualche assestamento, si sono rimessi in carreggiata. Tornando a lavorare con attenzione sulle proprie qualità, sulle proprie specificità, sui propri tic e sui propri vezzi. Che è anche una scelta rischiosa, occhio, non è proprio “safe”: il rischio dell’autocompiacimento è altissimo, perché pensare che tutto quello che proponi tu sia figo ed interessante a prescindere è spesso un’ipoteca per adagiarsi sugli allori e diventare sempre più vuoti, manieristi ed “antipatici” (tutto questo lamentandosi che “The Idiots Are Winning”, è che alla fine però diventi un po’ un idiota anche tu, per quanto di segno opposto). Non che il festival catalano sia mai arrivato a questo; però ecco, qua e là certe scelte parevano fatte col pilota automatico. Belle erano anche belle, interessanti erano anche interessanti, ma appunto, avvertivi il “pilota automatico”.
Quest’anno invece ci sono stati dei particolari che ci hanno fatto pensare come ci sia stato un rinnovato slancio, un rinnovato entusiasmo nel costruire il festival. Nel suo piccolo, è stata fantastica l’aggiunta nella parte diurna di un altro palco, il Sonar XS (effettivamente abbastanza “extra small” rispetto agli altri stage). Fantastica e significativa: perché è un palco dove comunque dal punto di vista scenografico si è speso Sergio Caballero col suo inconfondibile tocco (è lui l’uomo che crea l’immaginario del Sónar), ed è un palco dove sono stati portati alla ribalta tanti nomi piccoli, non scontati, molto ma molto interessanti. A partire da una delle primissime cose andate in scena, la svedesina Toxe del giro Staycore, che ha tirato fuori un set assolutamente bellissimo, che partiva dai collassamenti stile Tri Angle tanto di moda tra i connoissuers ma li sviluppava in modo molto più elegante, molto più caldo, molto meno cerebrale. Nel suo piccolo, bravissima. Altra cosa bella del palco XS l’alternanza tra festa e ricerca (dalle apocalissi noise carne&nervi di Yves Tumor, a dire il vero ormai un po’ prevedibili, alla fiesta footwork di BSN Posse), con un’atmosfera da festival piccolo, battagliero e voglioso di divertirsi in modo scanzonato, non solo di prendersi sul serio e/o di fare le cose in grande, da major del mondo dei festival. Idealmente, il “cuore” della riuscita di questa edizione 2017 sta proprio qui, in questo palco piccolo, in questa novità a prima vista poco rilevante e residuale. E’ stato il segno, invece, che c’era una rinnovata attenzione alla ricerca, al talent scouting, senza (solo) pretese di intellettualismo e senza (solo) i soliti trick.
Un’onda positiva che si è riverberata su tutti i palchi, diurni e notturni. Hanno suonato praticamente tutti bene, ciascuno ha dato il meglio di sé, tolta qualche eccezione (una loffia, loffissima Princess Nokia ad esempio, arrivata peraltro in ritardo sul palco perché si era attardata in centro città a farsi i cazzi suoi: robe che non succedono manco alla Sagra di Ariccia, di solito, e che ti puoi far perdonare solo se dopo fai uno show della madonna con un carisma strepitoso; e invece…). Un altro set altamente simbolico, per raccontare questa rinascita piena e definitiva, è stato il live di Juana Molina: sempre stata interessante, lei, e ce l’eravamo goduta in uno dei primissimi Sónar a cui avevamo assistito (2002, se la memoria non ci inganna); ma lì dove all’inizio la sua peculiarità era una poetica indie timida, spezzata e fragile, nel 2017 l’abbiamo vista tornare sempre fieramente indipendente, sempre fieramente personale, sì, ma molto gioiosa, coinvolgente. Restare se stessi, un sé in grado di camminare fuori da sentieri troppo scontati, ma farlo con gioia, non con un’estetica smunta ed intellettuale da beautiful losers o da intelligentoni autocompiaciuti: metafora perfetta della sua carriera, ma metafora perfetta di cosa il Sónar sia riuscito ad essere a pieno, quest’anno.
La parola d’ordine ormai d’uso comune fra chi ne sa è, o era, “La parte interessante è il Dia, la Noche ormai è un fastidioso pascolo di bovini all’ammasso e i set non sono poi così interessanti”; mica vero
Pure la parte notturna ha funzionato. Anche se la parola d’ordine ormai d’uso comune fra chi ne sa è, o era, “La parte interessante è il Dia, la Noche ormai è un fastidioso pascolo di bovini all’ammasso e i set non sono poi così interessanti”; mica vero. Dj Shadow ha fatto bene, Anderson .Paak ha fatto il suo, i De La Soul hanno vinto come sempre: la black se l’è portata a casa alla grande. I Justice hanno fatto le stesse cose che facevano nel 2008 ma meglio, esattamente come Vitalic, quindi sono riusciti a risultare perfettamente d’impatto ed attuali (e hanno attirato un mare di gente!), i Moderat si sono presi una consacrazione in fondo non così scontata (problemi tecnici a metà show a parte), Eric Prydz ha sorpreso per solidità e rigore in uno spettacolo con comunque delle luci notevolissime, i Soulwax hanno vinto e stravinto tutto con un live poderoso con tre (tre!) batterie, Masters At Work il primo giorno e Seth Troxler + Tiga il secondo hanno tenuto alla grande il palco mono-set dove suona la stessa gente per tutta la sera, per sei ore di fila. Così così a livello di atmosfera solo il palco di mezzo, il SónarLab, e infatti cose anche molto interessanti – vedi Jlin – hanno dovuto affrontare un’atmosfera un po’ scarica, perché la stragrande maggioranza della gente si era riversata negli altri tre palchi. Non c’è mai stata comunque una sensazione di noia o stanchezza; c’è stata qualche cosa inutile (il dj set di Nick Hook: l’hip hip suonato da mio cuggino), qualche cosa discutibile (il live di Jaar ha diviso: personalmente l’abbiamo trovato retorico e tronfio più che grandioso ed affascinante), ma complessivamente anche la Noche si è stati proprio bene. Con Marco Carola, messo in chiusura di serata, che era un’artista fra tanti e con la “sua” gente che si è mescolata tranquillamente nell’arco della nottata col resto della folla (folla che si è goduta una chiusura notevole col back to back Hunee / Daphni).
Già. La folla. Tanta. Tantissima. Sfilarsi definitivamente dalla competizione “ideale” con Sónar ed eventi Off ha portato, occhio!, paradossalmente a raggiungere il record assoluto di presenze: 123.000 in tre giorni (ah no, considerate anche i 4.000 che ha portato la sola Björk nella giornata extra del mercoledì, quindi facciamo quattro, per un dj set tanto interessante nelle scelte musicali quanto sfilacciato in fatto di flow: manco male, pure interessante, ma se ne poteva fare a meno). La parte diurna, per la prima volta da quando ci si è trasferiti dagli spazi angusti del MACBA a quelli larghissimi della Fira cittadina, è apparsa vicina al limite massimo della capienza per potersi godere bene l’esperienza-festival. E tutto questo con headliner sul palco principale come Joe Goddard o Roosevelt (che al Primavera sarebbero nomi minori), e figuratevi quelli che non erano headliner: hanno riempito tutti. Tu-tti. E’ che davvero la “anima” del Sónar ha fatto breccia come non mai: è passato il messaggio che il festival in questione è uno “state of mind” (e uno “state of divertimento intelligente”), indi per cui non c’è bisogno di fare la gara delle line up per convincere la gente a venire. Chi è venuto, è stato ricompensato trovandola davvero, questa “anima”: perché quando le scelte musicali sono fatte con amore vero e con rinnovato entusiasmo e voglia di stupire&coinvolgere, e non solo di specchiarsi nella propria competenza, la “anima” in questione risalta molto di più. E pazienza per le file talora eccessive al bar (la notte) e per qualche tamarro in più del solito (di giorno).
(ecco come ad un certo punto si presentava il Main Stage del Sónar Dia; continua sotto)
Certo, parlare tanto di “anima” può anche essere un rischio, può portare a derive strane: tipo quello di persone che vengono al festival più per l’aria e l’aura che si respira che per reale interesse musicale. L’effetto-Coachella, insomma. Un festival così “bello” e in salute come il Sónar non può che attirare pure i marchi moda di largo consumo, che negli ultimi anni hanno scoperto a dismisura la magia della parola “festival” (dopo che per anni la musica è stata snobbata, era vista come una faccenda di concerti rock rozzi e fangosi), buttandocisi a pesce. Visto che le cose bisogna se si può sperimentarle e toccarle con mano, proprio per questo motivo quando quest’anno ci è arrivato l’invito da parte del grande player della moda on line Zalando di seguire il festival anche per i loro social, beh, abbiamo accettato con grande entusiasmo. E’ stata un’esperienza interessante: provare a tradurre i “basics” del festival a un pubblico generalista e abituato a ben altro è stato bello e non scontato; e d’altro canto vedere che un brand di un certo tipo si pone il problema di approcciare un evento “sofisticato” come il Sónar sentendo anche il bisogno di rivolgersi a voci specializzate, non solo a fashion blogger col sorriso a favore di (auto)scatto e il commento sorridente e buonista pronto uso, è una di quelle cose che ti fa capire che sì, il rapporto fra brand e musica, se c’è rispetto da entrambe le parti, può essere virtuoso e stimolante (…e comunque pure i fashion blogger hanno tutto il diritto e dovere di divertirsi e di comunicare come più gli pare e piace: se lo fanno bene, lo decide il pubblico, e il pubblico in ultima analisi siamo noi tutti). Senza contare che alle persone dello staff di Zalando che abbiamo incontrato, e con cui abbiamo parlato a lungo anche di cose “tecniche” come l’acquisizione del Bread & Butter e della collaborazione con la Boiler Room oltre che sul come rapportarsi sulla scena elettronica in generale, abbiamo sentito dire molte cose sensate e competenti con un approccio, lo ribadiamo, rispettoso di alcune specificità. Se vieni al Sónar e pensi di trovare un Coachella, possono succedere due cose: o riesci insistendo a “coachellizzare” il Sónar (ma il Sónar, ora che ha ritrovato e rafforzato la sua ragion d’essere, è dura che ceda), o stai facendo un investimento poco ma poco redditizio.
Perché è vero: la gente che viene al Sónar è bella da vedere, è particolare, è stilosa, capiamo insomma perfettamente tutti i fashion addict e i wannabe lifestyle blogger che passano i tre giorni del festival – soprattutto nella parte diurna – a scattare foto alla gente, mica gli gettiamo la croce addosso; però il punto è che – al contrario di altri festival più blasonati e ora più mediatici – si tratta di persone a cui dei dettami della moda frega abbastanza poco, interessa più il dettame della personalità e dell’unicità. Infatti il Sónar, ora che si è distanziato tanto dagli eventi Off, è uno di quei luoghi dove praticamente sono inesistenti le “solite” uniformi da clubber ibizenco ma pure le “solite” uniformi all black da intellettuale atonal-berghainiano. Non vedi uniformi e basta. C’è campo libero, c’è piglio, c’è personalità, c’è sense of humour – anche in chi al festival ci viene, non solo in chi il festival lo fa. Ecco perché amiamo il Sónar. Ecco perché in questa edizione 2017 l’abbiamo amato come forse non mai: abbiamo visto recuperare alla grande le cose buone di molti anni fa, i valori fondanti, senza perdere nulla in voglia di coinvolgere più persone possibile. E come dice il nostro Federico Raconi, commentando su Facebook l’edizione di quest’anno:
“La grande qualità del Sònar è quella di abbracciare da estremo a estremo tutto quello che la gente cerca in un festival: dalla big room al set intimo seduti per terra, dal panino zozzo con la porchetta allo chef stellato, dal funky alla dub fino ai droni alla techno alla garage e chi più nè ha più nè metta. Dal dj set alle robe sperimentali con oggetti a caso alle live band ai pre-registrati. Il Sònar è semplicemente il più grande contenitore emozionale nel panorama mondiale e sfido chiunque a dire il contrario per un evento singolo”