Di solito il giovedì è la partenza tranquilla. Di solito il giovedì negli spazi del MACBA, quelli che ospitano la parte diurna del Sonar, si cammina tranquilli, gli spazi ci sono, non bisogna nuotare fra la folla. Di solito. Ma quando giochi la carta di artisti che hanno, con merito o meno, radunato attorno a sé un hype stellare come è nel caso di Flying Lotus, le regole cambiano. Ed è così che questo giovedì 14 giugno 2012 al Sonar Dia è diventato un bagno di folla, che tra l’altro si ripeterà anche nella giornata di domani, venerdì, e in quella di sabato – non lo diciamo perché siamo indovini con la palla di vetro, ma perché i biglietti sono già ampiamente sold out, come spieghiamo anche agli amici italiani che si sono mossi tardi e che ci implorano di dargli una mano per entrare.
Ma quindi, com’è stata l’esibizione del nipotino di Coltrane? In realtà ne abbiamo visto solo una minima parte, ci siamo pure persi la classica mossa paracula che si gioca spesso – mettere su “Idiotheque” dei Radiohead – paracula però insomma sempre efficace, tuttavia quello che abbiamo visto ci è abbastanza piaciuto. Gigioneggia, gigioneggia troppo, fa sempre un po’ troppo il cazzone, però le intuzioni che abbiamo sentito nel suo set (un po’ live un po’ dj) sono quelle di un artista che non è in crisi, che ha una fantasia ancora fervida e che ha una sana voglia sia di stupire che di divertirsi, mescolando alto e basso; sì, perché con buona pace degli intellettualoni che poi sono i primi responsabili dell’hype attorno a Fly Lo, il nostro uomo è anche un amabile tamarro – e se non ci credete avreste dovuto vederlo la sera prima, al tradizionale barbecue ad inviti offerto dalla Red Bull Music Academy, quando era un agitatore di folle che manco Jovanotti prima maniera mentre Just Blaze mixava con studiata brutalità classiconi hip hop da club.
Ma di Flying Lotus abbiamo visto poco, dicevamo. Come mai? Beh, avevamo un buon motivo. E di nome fa Mostly Robot: un super-gruppo formato dal turntablist Dj Shiftee (due volte campione mondiale DMC, mica un fesso), Mr. Jimmy (avete presente il faccione che simboleggia la serata L-Ektrica? Ecco, ha questo aspetto qua), Jeremy Ellis e soprattutto Tim Exile e un Jamie Lidell in gran spolvero. Un progetto semi-estermporaneo, nel senso che forse figlierà pure un disco ma al momento è solo una bella, divertentissima jam messa su da talenti puri, niente di più. Lidell fa da mattatore con la sua voce, ma il lavorìo in tempo reale di Exile che crea ritmiche e riff dal nulla e la sapienza da turntablist di Shiftee, più il solido lavoro in background degli altri due, dà vita ad una “serata fra amici” dove si improvvisa parecchio, si attraversano soul ed electro old school in egual misura, ci si concede qualche svisata folle, ma soprattutto tutto viene fatto, suonato, eseguito, cantato sul momento. Una jam, appunto. Col gusto di rifare, proprio con la metodologia della cover ma cambiando gli arrangiamenti ricreandoli in tempo reale, super-classici come “Rockit” di Herbie Hancock e “Windowlicker” di Aphex Twin (caciarona ma al tempo stesso efficacissima, quest’ultima). Ci siamo divertiti veramente molto.
Ci saremmo divertiti molto anche con Thundercat, che col suo trio basso/tastiere/batteria è stato strepitoso, ma la sua esibizione è stata letteralmente ammazzata dai problemi all’impianto. In pratica, quasi tutto ciò che si sentiva fuori proveniva unicamente dalle casse spia sul palco. Il soundsystem pareva morto, e il fonico ha passato un’ora con un’espressione disperata stampata in volto, rivoli su rivoli di sudore che scendono dalla fronte e le mani a pigiare tasti sul banco mixer prima in modo meditato e poi, occhio e croce, a caso. Peccato, perché Thundercat è di una bravura innaturale al basso (pazzesco, credeteci) e questo suo power trio funk-più-qualche-delirio è di suo una potenza. Da maledirli, questo problemi tecnici, lì dove prima li avevamo invece egoisticamente benedetti: ci eravamo persi infatti il nuovo set di Daedelus (racconto di amici: lui bene o male fa sempre le stesse cose, ma ora gioca con degli specchi alle sue spalle), ma pare che pure per lui la tecnica non sia stata amica, con impianto saltato tre volte, una di queste facendo addirittura andare via la luce dalla sala (non si era all’aperto, infatti, ma nella sala sotterranea Sonar Hall).
E la sera? Approfittando dell’assenza del Sonar Noche, come da tradizione il giovedì, ne abbiamo approfittato per andare a qualche party strepitoso? No, perché le energie vanno conservate e perché comunque c’era il concerto semi-segreto dei New Order in Fiera, una specie di loro prova generale prima dell’esibizione al festival prevista per il giorno successivo (offerta a una folla di comunque migliaia di persone, pagava una birra spagnola). Non sappiamo se voi che leggete amate i New Order. Beh, dovreste. Da “Blue Monday” in poi, qualsiasi appassionato di musica elettronica – quella capace di coniugare spleen ed euforia, capacità di coinvolgere ed estasi malinconica – dovrebbe avere tatuate sulle pelle e nel cuore almeno una decina di loro tracce. Sono talmente belle da aver reso meraviglioso un concerto che di suo, onestamente, farebbe schifo: Bernard Sumner, il cantante, è imbolsito in modo irrimediabile e sta avendo una preoccupante tendenza a muoversi sempre più come un ubriacone da pub che fa il karaoke; il nuovo bassista che rimpiazza Peter Hook è bravo ma appunto non è Peter Hook; i visuals sono di una bruttezza, sciatteria e cattivo gusto orripilanti; le luci sembrano un po’ quelle dell’oratorio, in certi passaggi, nonostante la dotazione tecnica di prim’ordine. Ebbene, nonostante tutto ciò le canzoni dei New Order sono talmente pazzesche che comunque si è usciti col cuore in festa, davvero, e con ancora nelle orecchie il coro di diecimila persone commosse che cantavano all’infinito, a musica già terminata da un paio di minuti, il ritornello di “Love Will Tear Us Apart Again”. Basta questo per andare a dormire felici? Basta, eccome…