Lo sappiamo ed avevamo già dovutamente toccato questo tema nei giorni scorsi, a latere della nostra partenza per i lidi da cui in questo momento verghiamo le righe che seguono: discutere di Turchia e focalizzare l’attenzione su qualcosa di frivolo (almeno sulla carta) come un festival di musica elettronica non è un compito facilissimo. Specialmente nel bel mezzo di una situazione di generale instabilità, dove le politiche “di pancia” stanno sempre più spesso avendo gioco facile e le relazioni fra il governo di Erdogan e l’Unione Europea si sono particolarmente inasprite a causa delle recenti vicende che hanno coinvolto i Paesi Bassi prima e la Germania poi – senza contare il pregresso (gli scontri legati alla vicenda di Gezi Park, la stretta sui media…) o il referendum del prossimo 16 aprile, che potrebbe segnare un crocevia fondamentale per il futuro di una terra mai come oggi di confine e profondamente eterogenea, terra che vede nella sua capitale, Istanbul un enorme esperimento di sinergia architetturale e sociologica. “L’Est incontra l’Ovest” che diventa qualcosa di tangibile mentre si attraversa uno dei ponti che dividono (idealmente e non) la parte europea della città da quella asiatica. Divise dalla foschia di quel Bosforo pieno di barche e meduse, strapazzato a dovere da una brezza tutt’altro che primaverile.
Eravamo curiosi di capire quale tipo di scenario avremmo trovato ad attenderci. Ci chiedevamo se saremmo stati oggetto di attenzioni particolari in quanto europei, o se avremmo vissuto in presa diretta qualcosa di quello con cui i media ci avevano imboccato nelle ultime settimane. Eppure (a parte il Consolato olandese ostruito da un pullman della polizia e molti cartelloni filo-Erdogan in favore del giá citato referendum piazzati ad ogni angolo di strada, a discapito di una pressoché inesistente controparte) nei tre giorni trascorsi girovagando per i vicoli di Belyoglu e le grandi vie dello shopping di Taksim, fra l’atmosfera di festa di un pre-partita a Besiktas o prendendo fiato gustando un gelato tra la splendida Moschea Blu e la Basilica di Santa Sofia a Sultanahmet, la sensazione che abbiamo avuto è stata quella di una città caotica e vibrante, dove la grande presenza turistica sembra perdurare e la giornata scorre frenetica fra traffico e micioni randagi ad ogni angolo. Un luogo incantevole della terra, dove sicuramente a Madre Natura è scappata parecchio la mano in quanto a bellezza, che porta ancora il segno della sua imponente eredità storica. Ovviamente si tratta di un’opinione “da turisti” che potrebbe tranquillamente non trovare nessun riscontro nell’opinione di chi Istanbul la vive trecentosessantecinque giorni all’anno. Ma tant’è.
Con queste premesse ci siamo appropinquati allo Zorlu, modernissima area commerciale con annesso centro culturale e sale concerti, facilmente raggiungibile con la rete di trasporto pubblico, presso cui si sarebbe tenuta la manifestazione. Ciò che abbiamo trovato ad attenderci, previo un paio di controlli di sicurezza comprensivi di metal detector – come del resto da prassi per qualsiasi fermata della metropolitana o esercizio pubblico di una certa dimensione da queste parti – è stata una struttura su più piani (dovutamente collegati da scale mobili) all’interno dei quali erano strutturati tutti i playground e le varie aree di ristoro/relax. Forse un filo posh, ma sicuramente una location di grande impatto. Gli ambienti fra i quali ci siamo divisi per la maggior parte del tempo sono stati quattro: la Sónar Hall, una sala conferenze ad anfiteatro che ha ospitato anche alcuni fra i panel e le esibizioni pomeridiane (Ali Demirel e Ryoji Ikeda, per citarne alcuni) ma anche acts da prime time come Nosaj Thing e Tim Hecker durante il programma notturno; a seguire la Sónar Box, spazio lungo e stretto con allestimenti sul soffitto che riportano alla mente il piano superiore del Watergate di Berlino, che ha invece ospitato (anche se soltanto durante la prima notte) una folta rappresentanza di artisti autoctoni, che hanno avuto il prezioso ruolo di dare man forte alla voglia di ballare nei momenti in cui dai due palchi principali sprizzava meno entusiasmo di quanto si sperasse.
E proprio a cavallo fra degli spazi principali, chiamati Sónar Club e Sónar Lab (esattamente come quelli dell’astronave madre catalana) è transitata la maggior parte dei grandi nomi in cartellone che, fra luci ed ombre (aiutati in ogni caso da un impianto A/V davvero eccellente, su questo il Sónar è da sempre una garanzia), hanno intrattenuto un pubblico educato ed eterogeneo, consapevole e voglioso di godersi un’esperienza di grande caratura come il Sónar a due passi da casa. Volendo a tutti i costi trovare un difetto sicuramente le vie di fuga dagli ambienti sono state studiate un po’ male, visti i pericolosi colli di bottiglia verificatisi negli intermezzi fra un’esibizione e l’altra. Inoltre, a dirla tutta, ci si aspettava anche considerata la latitudine un trasporto emotivo ed un “calore” di maggiore impatto in pista. Nell’effettivo – vuoi per la presenza di alcuni live più volti all’ascolto che al ballo, vuoi che qualche artista si è rivelato un po’ meno irreprensibile del previsto – gli unici momenti dove possiamo dire di aver percepito di trovarci a tu per tu con la “festa” come piace a noi sono stati rispettivamente con Nina Kraviz il venerdì e Moderat il sabato. Se per questi ultimi non si renderebbero necessarie ulteriori lodi, essendo indiscutibilmente uno degli show più solidi ed apprezzati a livello globale, dobbiamo dare atto alla russa berlinese di aver raggiunto una maturità artistica indubbiamente di tutto rispetto. Se dovessimo forzare uno di quei paralleli tanto cari ai giornalisti sportivi, potremmo dire che ci ricorda i trascorsi di un’altra regina dell’elettronica europea come Ellen Allien: inutile negare che la tecnica, in entrambi i casi, non sia mai stata la specialità della casa, mancanza però colmata da una selezione di grande spessore ed una sinistra capacità di leggere la pista e darle in pasto esattamente ciò di cui ha bisogno con precisione quasi chirurgica.
Esattamente ciò che hanno saputo fare, coadiuvati oltretutto (e qui sì!) dalla solita eleganza sopraffina dietro il mixer, Prins Thomas e Ben UFO. Il norvegese ha debuttato relativamente presto di fronte a pochissime persone (complice anche il contemporaneo ed elegantissimo live dei HVOB nella sala principale) ed ha saputo in pochi minuti riempire la sala al limite della capienza con la solita eclettica miscela di cosmic, italodisco, afro e chi più ne ha più ne metta. Il talento di Hessle Audio ha invece lasciato un po’ da parte le sonorità poliedriche e “sporche” made in UK di cui è solito fare uso in favore di una selezione più lineare, ruvida e senza troppi fronzoli. Come poi è stato anche per Helena Hauff, che ne ha raccolto il testimone con una techno asciutta e rigorosa.
Il Sónar Lab è stata però, fra le due principali, la sala dove si è comunque cercato di “osare” un po’ di più musicalmente. Ci è riuscito (e con grande risposta da parte del pubblico) Sam Shackleton con la sua elettronica dirompente ed ipnotica. E’ stato un po’ meno incisivo Kode9, lasciatosi andare ad epiche musicali ai limiti del fuori luogo, facendosi preferire le già citate bordate techno della Kraviz.
Nel Sónar Club si è ballato paradossalmente un po’ meno, in favore dei tanti live in scaletta, ma si sono alternate performance di sicuro impatto come quelle dei Weval e dei già citati HVOB il venerdì e di Clark e Floating Points il sabato, impegnati a scaldare a dovere il motore emotivo del dancefloor prima che i Moderat si prendessero la dovuta palma del weekend con novanta minuti di puro godimento sensoriale. HVOB già elogiati, elogi appunto da ripetere per Clark (live nuovo di zecca, con tanto di ballerine aliene sul palco coreografate in maniera mirabile) e Floating Points (live set in solitaria, senza band, con un piglio molto theoparrishiano nel “trattenere” per poi arrivare all’espolosione finale). Non si può dire davvero lo stesso del frastornante e deludentissimo spettacolo offerto da una Roisin Murphy che ha giocato per oltre un’ora a fare Arturo Brachetti, cambiandosi di continuo sul palco e proponendo, uno dopo l’altro, degli outfit di dubbio gusto (e già questo sarebbe un “mah”) però soprattutto offrendo una prestazione musicale davvero soporifera, con arrangiamenti incerti, legnosi ed ammoscianti (avrebbero voluto essere “teatrali”, immaginiamo), facendo presto dimenticare quanto la splendida voce sia ancora inequivocabilmente il suo grande punto a favore. A chiudere il nostro festival ci ha pensato DJ Koze, il quale però è sembrato avere altrettanto le idee confuse giocando troppo col mixer senza mai riuscire a dare una direzione precisa al proprio set, nonostante un grandissimo disco come “Brutalga Square” abbia fatto vibrare le mura dello Zorlu come una cannonata che si infrange sulla traversa.
Avendo ancora fresca ed a disposizione la memoria sensoriale delle emozioni appena vissute, il verdetto che ci sentiamo di dare è che, senza ombra di dubbio, i numeri ed i feedback raccolti non possono che volgere a favore degli organizzatori. Organizzatori che, nonostante dovessero affrontare una situazione non semplicissima, hanno creduto in questa esperienza che comunque vada resterà un grande ricordo nella memoria collettiva di chi vorrebbe più eventi come questo ad ogni latitudine. Il risultato di cui bisognerebbe andare maggiormente fieri sarebbe proprio quello di aver messo simbolicamente a contatto, per due giorni, diversi contesti sociali e geografici, azzerando certe graduatorie e chiusure figurativamente imposte dalla nomenclatura, il tutto nel segno di qualcosa di “frivolo” e meraviglioso come la musica elettronica. Eppure non possiamo fare a meno di pensare a quanto sarebbe stato bello e giusto, così come avviene da oltre vent’anni nell’estate catalana, vedere frotte di clubber provenienti da ogni parte del mondo ad affollare la pista dello Zorlu: purtroppo la netta sensazione (…preventivabile?) che la percentuale di stranieri fra i presenti fosse piuttosto residuale è stata una grande delusione. Ovviamente lo possiamo capire ma allo stesso tempo ci fa tanto dispiacere.
Quando si è presentata l’opportunità di vivere uno degli (oramai numerosi) spin-off di un caposaldo della festival culture come Sónar, al contrario di quanto molti avrebbero valutato in un momento – come detto – non proprio ideale, la spinta emotiva di portare, nel nostro piccolo ma bella alta, la bandiera della musica al di sopra di ogni altra cosa è stata più forte di qualsiasi pregiudizio e timore reverenziale. E non è retorica spiccia da populisti dell’ultima ora, né è una “soluzione semplice”: è un manifesto di appartenenza senza compromessi. È uno schierarsi attivamente per qualcosa in cui crediamo ed a cui sentiamo di appartenere, mettendoci la faccia sul campo di gioco. È la voglia di utilizzare una forma d’arte come mezzo per plasmare un minimo comun denominatore sotto il quale abbattere quei maledetti muri che, giorno dopo giorno, sembrano sempre più essere tornati di moda e che vediamo erigersi (purtroppo anche non più figurativamente) tutto attorno a noi.
Ma noi siamo i buoni.
Noi abbiamo la musica.