Se c’è una cosa che ho capito al Sonar quest’anno è che non sono più giovane. E non intendo adulta, ma proprio vecchia: adulta lo sono già da un po’, anche se ho provato ad ignorarlo con tutta me stessa. Ma a un certo punto ci devi fare i conti, e a me è successo quest’anno, al Sonar appunto, un’epifania in mezzo a un pubblico molto, molto più maturo di quanto non ricordassi dalle edizioni precedenti.
C’è chi dice sia un fattore economico, e non a torto, visti i costi del biglietto del festival che sorpassa i 300 euro già da solo per la versione VIP, senza contare i voli e i pernottamenti, aggravati oltretutto da sensibili rincari anno su anno; un’emorragia che ti puoi permettere solo se nella vita sei sistemato.
A mio parere non è però solo questo: è il fattore generazionale ad essere entrato in gioco. Quello che Sonar presenta e rappresenta è un viaggio di esplorazione sonora che è cominciato più di 30 primavere fa e ha accompagnato Gen Xers e Millennials nella crescita attraverso gli anni, plasmando gusto, orecchio e interesse per la musica elettronica.
E così anche quest’anno ci trasferiamo temporaneamente nel caldo afoso della città comitale dove giovedì ci emozioniamo davanti a Oneohtrix Point Never e il suo live show “Rebuild” in cui mette insieme le sue tracce seminali con le più nuove release. Ci esaltiamo in fronte a Kode9, che presenta uno show basato sul suo ultimo album “Escapology” e una finestra sul curioso e ambizioso progetto multi-disciplinare “Astro-Darien” che esplora un fantascientifico futuro dove la Scozia si imbarca in un esodo fuori dal mondo verso un habitat spaziale orbitale. Ci rassereniamo di fronte a un Nosaj Thing che mette in piedi insieme al suo collaboratore di lunga data Daito Manabe un delicato show audio video ricco di vocals e paesaggi rilassanti.
E ancora ci commuoviamo di venerdì davanti alle composizioni elettroniche minimaliste e matematiche di Ryoji Ikeda, a quelle di Max Cooper e di un Daito Manabe stavolta in solitaria, in un climax discendente di spettacoli AV, un mix di arte e storytelling imprescindibili dall’atto sonoro che accompagnano e viceversa. Giusto un salto dal nostrano e sempreverde Lorenzo Senni a fare del sano Rave Voyeurism e poi via verso il Sonar de Noche per non perdere l’headliner assoluto del festival, ovvero Aphex Twin. Un set avvincente, completo ma nonostante tutto a mio avviso freddo. Mi sarei aspettata qualcosa in più dal padrino della musica elettronica moderna, dalla prima superstar delle arti audiovisive, da questa icona di controcultura? Forse si. Forse sono state la dispersività del padiglione fieristico, la distanza dal palco e l’enormità di una folla a perdita d’occhio a svuotare l’act del suo messaggio? Ha senso presentare un tipo di musica nata con un’accezione completamente opposta in un set up totalmente mancante di calore e intimità? Ai posteri l’ardua sentenza.
A seguire i Bicep, sempre uguali a sé stessi – ed è proprio per questo che funzionano, consegnando uno spettacolo ineccepibile. Prestigioso ma difficile lo slot affidato a TSVI, dj italiano residente a Londra, che si è trovato tra le mani l’arduo compito di fare da ponte tra lo show di Aphex Twin e quello del duo di Belfast, mentre molta della folla arrivata prestissimo per vedere Richard D. James si avventurava tra i numerosi altri stage per esplorare per la prima volta il Sonar de Noche 2023.
Sul palco “degli inglesi” invece vediamo e apprezziamo Shygirl, che tanto shy non è, in un trionfo di body positivity e una gran voce, e lo show di SHERELLE e Kode9 che mettono a punto un set hardcore continuum tra D&B, Jungle, Footwork and remixate velocissime di terribili hit anni ‘90 che fanno sorridere e ballare per due ore senza fermarsi.
Il sabato catturano la mia attenzione i catalani Lolo & Sosaku, scultori musicali che improvvisano una performance noise fatta con attrezzi industriali assemblati artigianalmente trasformando lo stage in una fucina che pare un girone infernale. E infine cala la sera, e ci si chiede come faccia quest’orda di fortynagers a stare ancora in piedi, quando sul palco salgono Tiga, 2manydjs and Peach ed è subito 2008, la folla ringiovanisce di colpo e balla per 4 ore di seguito, riattizzata anche “dall’aria al profumo di popper e pura autenticità” portata da Horse Meat Disco (parole loro) e dal resident del Panorama Bar Prosumer in un’orgia – vale la pena di dirlo – di house e, appunto, disco. E il festival, onestamente, per me sarebbe anche potuto finire qua.
Comunque, l’opinione comune è che dopo i quaranta la vita pubblica e sociale sia finita. Ci viene venduto un immaginario per cui, superata una certa età, il proprio compito è quello di lavorare e tirare avanti una famiglia, dove non c’è spazio per sé stessi, e si viene tacciati di ridicolo per provarci, soprattutto in Italia.
Sonar è l’esempio che i tempi stanno cambiando ed è un invito a portare avanti le proprie passioni, ad esprimere sé stessi, aprirsi ai cambiamenti e a ciò che è diverso, e a scoprire nuovi panorami – sonori o meno. A qualsiasi età.
Post scriptum: come ricorda Mattia Tommasone in questo articolo, per ogni persona c’è un Sonar diverso, con momenti salienti differenti basati sugli interessi dell’interlocutore. Se scriviamo, lo facciamo per passione, e scriviamo quindi di ciò che ci appassiona. Non ce ne vogliano i fan delle Peggy Gou, Amelie Lens e Honey Dijon, degli Eric Prydz o Richie Hawtin che abbiamo volutamente ignorato – nella vita e nell’articolo – o degli artisti più o meno emergenti che non hanno trovato spazio nelle nostre personali line up. Nulla avremmo voluto di più che vedere, sentire, sperimentare tutto, ma è un’impresa improbabile. E poi, che dire, ora lo abbiamo capito: siamo vecchi!