Il primo giorno al Sonar, il giovedì, è ancora il regno dei più tranquilli. O, cambiando punto di vista, dei più accaniti: quelli che anche se non c’è il sabba serale nei padiglioni della fiera (folla a quattro zeri, orari fino a oltre l’alba) comunque si sentono più che soddisfatti da una giornata che si svolge unicamente negli spazi del MACBA, il centro barcellonese dedicato all’arte contemporanea che nei giorni sonariani diventa una specie di “spazio magico” dove vengono ricavati quattro palchi, creati parchi artificiali e la gente sciama un po’ ovunque, il tutto da mezzogiorno fino alle dieci di sera e, di solito, con la battuta in quattro (quasi) bandita.
Non che l’assenza della cassa in quattro tenga lontane le folle. Il venerdì e il sabato ci si ritrova abitualmente in più di diecimila al Sonar diurno, si fa fatica e circolare e l’accesso a certi palchi – come quello sotterraneo – è contingentato. Il giovedì, meno gente. E così è stato anche in questo 2011. Solo in un caso il palco sotterraneo di cui sopra ha avuto l’accesso bloccato per le troppe persone che vi erano già entrate (e le centinaia e centinaia che volevano ancora entrare): quando sul palco c’era il wunderkind Nicolas Jaar, che voi lettori di Soundwall occhio e croce conoscete tutti piuttosto bene. Insomma, anche fra i più tranquilli+accaniti+intellettuali la voglia di capire se e quanto il talento jaariano sia consistente ora che è alla prova di un live vero e proprio (quattro sul palco, chitarre, batterie vere, sassofoni…) è alta, molto alta. Bene: Nicolas non ha tradito le attese. Anzi, ha aggiunto qualche mattoncino alla sua già solidissima reputazione. Non si è inventato nulla di straordinario, sia chiaro, ma lì dove moltissimi spesso affondano sotto il peso di eccessive ambizioni (l’artista elettronico che vuole provare a fare un live “vero”, non solo con le macchine), tirando fuori musica un po’ stinta, un po’ calligrafica, un po’ inconcludente, Jaar invece ha trovato modo di creare un congegno sonoro dove tutto è compatto, dove le dinamiche sono gestite in modo inappuntabile e spesso anche originale (più facile farlo con le manopole di un mixer, molto più difficile interagendo con strumenti tradizionali), dove insomma si vede che a condurre il progetto c’è una persona con le idee chiare e con una competenza musicale sopra la media. Confermiamo il nostro parere personale: le sue tracce sono buone, ma sono ancora lontane dall’essere geniali. I margini di miglioramento sono ancora molto alti. Ma al Sonar Jaar ha dimostrato che non è un bluff, e quasi sicuramente non è destinato ad essere un fuoco di paglia.
Un fuoco di paglia invece potrebbe essere il Brandt Brauer Frick Ensemble: ecco, qui il flop sotto il peso di una grandeur autoimposta è evidente. Al Sonar si sono presentati coi lustrini: pianoforte a code, timpani, archi… la grande idea di riproporre techno e house usando gli strumenti della musica classica… sulla carta bello e affascinante, come no; nei fatti, noioso. Piatto, prevedibile e tristemente privo di idee originali. Per fortuna che in giornata c’ha poi pensato il plotone targato Ninja Tune a tirarci su di morale (ottimo soprattutto l’hip hop “avanzato” e tutto suonato di Dels, con un batterista a suo agio nel mischiare in modo esplosivo funk quadratissimo e jazz furibondo), anche perché oltre alla delusione targata Brandt Brauer Frick ce n’è stata un’altra ancora peggiore: Tyondai Braxton. Fuoriuscito dai Battles, si è inventato dei live in solitaria che sembrano le robe che faceva Jamie Lidell tredici anni fa, solo fatte cento volte peggio. L’idea era quella di un bimbo dispettoso a cui hanno regalato gli effetti per la voce, e lui li usa per la prima volta, tirando fuori mantra e rumori in loop tanto rumorosi quanto inutili e banali. Pessimo.
Qualche altro coriandolo di giudizio sulla prima giornata? Sufficiente il live di Toro Y Moi (parte bene, si sgonfia a metà strada), divertente il live di Eskmo (anche se un Tim Exile è molto più bravo e creativo), assurdo invece AEIOU: nome cretino, cantante cretino ma simpatico (vestito tutto di paillettes, e intendiamo tutto, solo naso e bocca scoperti), accompagnatore alla chitarra e batteria elettronica apparentemente cretino ma in realtà – e l’hanno riconosciuto in pochi – Simone Pace dei Blonde Redhead. Il tutto per cover e quasi-cover da piano bar messicano. Ecco, al Sonar si trovano cose così. E poi, da domani, al caravanserraglio diurno si aggiungerà il sabba notturno…