…dicevamo, “la folla arriverà”? E folla fu. Il venerdì è tornato a regalare quella cara vecchia sensazione di divertita impotenza, quella che ti plana addosso quando per fare dieci metri ci metti sette minuti d’orologio. Con una frequentazione del Sonar ormai decennale conosciamo a menadito gli spazi del MACBA, la culla diurna del festival, vero. Conosciamo le strettoie, i trucchi, le scorciatoie, l’ora in cui il tutto in cui scoppierà di gente e quella in cui si potrà invece girare in scioltezza. Ma pur con tutta questa conoscenza, nello spostarsi da un palco all’altro, tra le sei e sette del pomeriggio non c’è santo che tenga: ti imbottigli. Ieri a maggior ragione: il set di Four Tet era previsto più o meno a quell’ora, e una folla immane ha riempito ogni angolo della piazza/palco principale, il SonarVillage. Immane. La fama di Kieran Hebden cresce in modo costante anno dopo anno, e anzi ora che ha avuto la svolta dance – basta ritmi spezzati, dispari e lenti, vai di cassa in quattro! – è letteralmente esplosa, prendendo sia i clubber che gli indie rocker senza distinzione alcuna. A dirla tutta, non ci convinceva del tutto questa nuova mania popolare per Four Tet: dire di adorarlo era più una moda (“Guarda quanto sono intelligente, se ascolto dance ascolto Four Tet!”) che la conseguenza della effettiva qualità delle sue produzioni. Una qualità non male ma ancora acerba, ancora abbozzata, ancora a metà del guado – non si impara a fare house in venti minuti, anche quando sei un supertalentuoso quale lui è. Bene: siamo evidentemente arrivati al ventunesimo minuto. Kieran infatti ha trovato la quadra: i suoi illuminati microsuoni e frammenti mozzi hanno finalmente elaborato il vestito giusto per cavalcare strutture ritmiche da dancefloor, anche perché queste ultime si sono fatte più nette, il feeling generale è molto più consapevole di come e quanto va gestita l’iterazione, il togliere e mettere frequenze. In una parola: bellissimo. E trionfo di pubblico (a occhio, in diecimila solo per lui) meritato.
Agoria di solito è uno dei re del Sonar notturno, quest’anno ha voluto invece misurarsi col pubblico del diurno, per giunta alle tre del pomeriggio. Ha optato per un dj set molto disco ed italodisco (all’inizio) e molto balearico (dalla seconda metà), come a dire “Vedete che non suono solo i martelloni”, approccio che per altro sta seguendo sempre più spesso. Siamo pienamente soddisfatti a metà: la sua ora e mezza non è stata da buttare via, no, ma in questa versione più placida vale un terzo rispetto al “solito” Agoria. Solida invece l’accoppiata Pilooski e Pentile nel progetto Discodeine: house francese secca e muscolare, nessuna sorpresa ma qualità diffusa. Il vero highlight della giornata è però Star Eyes, alias Vivian Host truce signorina dall’aspetto che sta a metà tra Miss Kittin e Marisa Laurito, ma la sua “haunted house” – definizione sua – non è una battuta di spirito ma una serissima realtà fatta di incroci con frequenze dub e sciabolate breakbeat (anche belle tamarre, se necessario). D’obbligo davvero seguirla di più e tenere d’occhio le uscite della sua Trouble & Bass.
Accennavamo però alla notte dei Sonar e ai suoi re… Bene, ad aver vinto tutto nella prima serata per quello che abbiamo visto noi è stato Trentemøller, punto. Un tempo nella versione live set Anders era un po’ impacciato e non sapeva bene come fare; ora dopo qualche anno di pratica intensiva ha costruito uno dei migliori concerti che sia dato vedere non solo nell’incrocio tra elettronica e musica suonata, ma in assoluto. Lui non solo è sciolto, è ormai addirittura un invasato e sorridente capopolo: segno di come ora si trovi a suo agio tra bassi, chitarre, batterie, un dialogo sonoro “tradizionale” in cui lui si inserisce alla perfezione con le macchine, senza mai esagerare e giostrando con maestria scintillante le dinamiche. Folla in delirio. Meritatamente.
Altri vincitori della nottata? Secondo noi non Steve Aoki, anche se pure lì la folla era in delirio: il suo dj set fatto di adrenalina sempre a mille e house grassa ed isterica non ci convincerà mai davvero, ma ancora meno ci riuscirà A-Trak (ecco, al suo confronto la scelta musicale di Aoki è raffinatissima; da A-Trak c’è toccato sentire perfino un remix di Madonna, e messo NON con intenti ironici – a salvarlo non riescono i soliti ottimi virtuosismi da turntablist, unico lascito di un passato glorioso in cui A-Trak era invece un figo). Mancherà in parte l’obiettivo anche Aphex Twin, e qui va fatta un’analisi chiara: comincia un po’ a stufare che nei suoi set (ma anche nelle sue produzioni) ci siano ormai solo i suoni di dieci, quindici anni fa, con una povertà di frequenze e profondità nei suoni che oggi stona davvero visto quanto si sente in giro, in più talora irrita che certi mixaggi siano fatti palesemente a cazzo. Va bene. Ma pur essendo datato e approssimativo il genio c’è, resta, nessuno come lui può trasformare novanta minuti di orologio in un sabba infernale che va dalla drum’n’bass al noise, passando in mezzo a techno, breakbeat, electro e qualche mattana (più di qualche). Vertigine pura. Musicalmente fa sempre gli stessi trucchi da tempo? Sì. Ma sono trucchi così geniali che può permettersi di vivere ancora di rendita.
Vincono invece di sicuro i Die Antwoort. Chi? Chi sono? Non li conoscete? Sono questi. Non serve aggiungere altro. Se non che dal vivo spaccano, soprattutto lui, e pur senza effetti speciali mandano al manicomio – dalla fotta – migliaia e migliaia di persone col loro loro hip hop afrikaans morboso, inquietante e provocatorio. Perde di sicuro piuttosto M.I.A.: lo show è cambiato rispetto alle date italiane di qualche mese fa, molto più tribale e scarno, molto più hip hop nell’attitudine. Ma anche molto più povero musicalmente, ecco: mentre lei prova a servirci, un po’ per dovere un po’ per inerzia, un etno-dancefloor terzomondista nel palco accanto succede che il bravo Ramadanman faccia esattamente quello che lei dovrebbe fare se volesse tornare a darsi una veste musicale degna: post dubstep avvolgente e percussiva, cupa ma per nulla “robbosa” (come certa dubstep talora tende ad essere).
Infine, qualche altra citazione volante per chiudere questo secondo report: bolliti – ma già lo sapevamo – i redivivi Human League, un po’ migliorato Dizzee Rascal (dal vivo lo abbiamo sempre trovato un po’ petulante e sopra le righe, col suo grime), molto bravo Scuba che ha regalato un dj set lineare, quadrato, dove techno e dubstep si incorciano perfettamente perché la prima dà l’architettura ritmica la seconda le suggestioni notturne post-atomiche. Mancano e mancheranno invece nel report Tiga, Boys Noize, James Murphy: mica tre fessi, tutt’altro, ma dopo un quasi quindici ore filate di musica la nostra resistenza fisica ha detto basta. Anche perché domani è, effettivamente, un altro giorno. E si prospetta moooolto lungo.