Terza giornata, due collassi: quelli di chi non ha saputo gestirsi bene e ha terminato il suo Sonar riverso per terra negli immensi spazi della Fiera confuso in mezzo a cartacce e bicchieri di plastica da un lato, e quello della connessione della casa che ci ha ospitato in questi giorni catalani dall’altro. Se i primi sono un problema eterno ed irrisolvibile (…ma quanto sei stupido ad abusare fino a svenire per terra, eh? La prossima volta, pensaci…), il secondo ha bastardamente impedito di aggiornare subito il resoconto sonariano con la terza e ultima puntata. Un peccato, da un lato; ma anche la possibilità di ragionare a mente fredda su cosa scrivere, durante la giornata di viaggio che ci ha riportato dalla Catalogna all’Italia.
La mente fredda dice che questa del 2011 è stata una buona edizione per il Sonar. Priva di picchi indimenticabili probabilmente, ma con un livello medio più che discreto. E visto che proprio il Sonar è davvero lo specchio migliore per capire lo stato di salute artistico della nostra scena, si può dedurre che non stiamo poi tanto male. Dubstep, hip hop futurista, wonky non sono più novità, sono diventati ormai establishment; i dj che hanno un solo suono nei loro set sono quasi scomparsi, quelli che quell’unico suono lo consacrano alla minimal techno sono più rari di un panda – l’unico fra i mille artisti ospiti del festival a farlo è stato Cosmin Trg, facendolo pure bene, e va detto che mentre suonava il tendone era strapieno, perché soprattutto nell’area mediterranea (Spagna, Italia) certi suoni sono ancora un vero must commer… ehm, popolare.
La parola d’ordine è: ritmica eclettica + frequenze basse. Anche e soprattutto quando affronti techno e house, non solo quando cavalchi la battuta lenta. Una deriva piuttosto interessante. L’altra parola d’ordine poi è: fondere ciò che viene fatto solo con le macchine con gli strumenti. Di Jaar abbiamo già detto (giorno uno), di Trentemøller pure (giorno due), il terzo giorno ha visto un set di Apparat con la band (anche lì chitarre, batterie…) molto più convincente rispetto al passato, davvero un notevole miglioramento in esecuzione e arrangiamenti, anche se sinceramente le canzoni nuove non paiono essere ispirate tanto quanto il materiale storico: meno fantasia nei cambi armonici, meno ricchezza di idee. Ecco: magari il nostro buon Sascha, che resta uno dei grandi della scena attuale, avrebbe dovuto dare un orecchio qualche ora prima al set del “nostro” Venice, romano con già release per la Gomma, che ha tirato fuori un live piuttosto difficile ed incerto nel senso di assemblato male ritmicamente (troppo pause, troppe discontinuità) ma con una quantità di idee e suggestioni melodiche e armoniche eccezionali, da vera e propria “psichedelia intelligente”. Wannabe intelligente è stato invece Actress, in realtà noioso nella sua ambient techno, mentre la ambient complessa ed intricata di Tom Middleton e Mark Pritchard, che riformavano per l’occasione lo storico progetto Global Communication, era non solo intelligente ma anche molto affascinante, pur essendo chiaramente datata (d’altro canto, è materiale di quindici anni fa… resta però sempre valido). Altri highlight positivi della parte diurna del terzo giorno? Il soul / hip hop dei neozelandesi Electric Wire Hustle (ottime anche le loro uscite discografiche su BBE), la (nu?) disco dei misteriosi Tiger&Woods (un po’ meno misteriosi, per chi era lì presente: erano a volto scoperto), certe parti del vario e variato dj set di Gilles Peterson (solo certe; perché in altre è stato decisamente troppo paraculo, da villaggio vacanze a Southampton).
La parte notturna del Sonar per noi è iniziata col botto. Ora, è vero che si trattava solo di un rimontaggio e risistemazione complessiva di materiale già esistente, sì; ma lo show audio/video di Chris Cunningham è, forse, la cosa più geniale prodotta artisticamente dalle mente umana che esista oggi in giro. Punto. Colui che è il regista di “Come To Daddy” di Aphex è semplicemente, come dire?, il Migliore. Bravura tecnica nelle riprese e nella post produzione stupefacente; capacità di creare una “sua” cifra stilistica assolutamente unica; intensità delle emozioni provocate da cardiopalmo. Sessanta minuti che da soli valevano tutto il festival, quando invece è stato solo l’inizio. Poi cosa ci siamo visti? La solita messa cantata degli Underworld, ci siamo visti: “solita messa cantata” perché i pezzi sono sempre quelli, Karl Hyde fa sempre le solite mossette, gli altri due alle macchine fanno il solito quasi nulla – eppure nonostante tutto questo, nonostante tutto lo scetticismo che la ragione ti suggerisce, passi tutto il concerto a braccia alzate e alla fine sei felice come un bambino, completamente convinto e conquistato, e non riesci sinceramente a capire il perché, ma è così. Volendo, si può parlare di “solita messa cantata” anche per Aphex Twin: non rinnova il suono dei suoi dj set dai tempi in cui a centrocampo c’era Roberto Baggio e in attacco Beppe Signori (nel 2011 Baggio spara ai fagiani e Signori scommette a Singapore), però accidenti, ancora oggi non c’è nessuno in grado di giostrare in modo così creativo un frullato di techno, gabber, industrial, breakbeat storto, cazzate varie. Nessuno. Ti incazzi con lui perché 1) è palese che non si sbatte e va avanti col mestiere 2) il “suo” mestiere però è genialità pura quindi per adesso non gli puoi ancora dire nulla se non adorarlo, anche se vorresti prenderlo a badilate sui denti.
Uno che invece rinnova set ogni cinque minuti è Shackleton: la cifra stilistica resta quella, post dubstep e post house tetra e cavernosa, ma il rinnovamento di idee e soluzioni è continuo – al Sonar ha fatto un set piuttosto diverso da quello offerto a Milano solo tre settimane prima e, se possibile, ancora più bello. Totale delusione invece per il supposto “dream team” dubstep Magnetic Man (Benga + Skream + altri), che andrebbe considerato più che altro uno stucchevole “commercial team”. Il tentativo di portare il suono di Londra Sud nelle charts britanniche ed americane è davvero troppo scoperto, ma l’aggravante è che il live set è di una povertà di idee sceniche ed esecutive irritante. Pollice verso, versissimo. Pollice da rigirare verso l’alto, ma questo era facile prevederlo, per la cricca scozzese Numbers (Redinho, Spencer, Deadboy, Jackmaster): promettevano ecletticità e divertimento, e così è stato. Nelle tre ore a loro disposizione hanno toccato praticamente ogni genere di musica da club esistente in natura, la cosa bella è che in mano loro anche i pezzi più deleteri e stucchevoli assumono dignità ed interesse. Questo perché sanno come e quando metterli. Il dono dei veri dj. Il dono poi l’hanno fatto a se stessi invitando a chiudere il loro slot quello che è il loro idolo assoluto da sempre – Lory D. Il nostro romano folle preferito (e sarebbe ora che anche in Italia ci si rendesse conto che abbiamo l’onore di avere uno dei geni assoluti della techno, per quanto irregolare) ha offerto un set per i suoi standard normale e lineare; per gli standard del clubber medio, un tre quarti d’ora di techno acida decostruita anche piuttosto geometrica nelle strutture ma lontana da ogni pattern prestabilito. Non il suo set migliore, fra quelli che abbiamo visto, ma comunque gran roba.
Si è fatto ben valere nella stessa nottata anche un altro italiano, Luca Mortellaro aka Lucy: il suo dj set è stata una intelligente ricognizione di ciò che c’è di interessante e non scontato nella musica ballabile, con tanto di occasionali nebulose dub. Si è fatto valere di meno uno degli artisti più attesi, Paul Kalkbrenner: sul suo ultimo materiale ci siamo già espressi, la traduzione live di esso lascia qualche perplessità – invece di valorizzarlo, lo ammoscia. Uso non proprio accorto del mixer, qualche troncatura un po’ a pene di segugio, visuals in cui i Pfadfinderei devono aver messo il minimo sindacale di impagno e creatività (forse anche qualcosa in meno). Molto meglio quanto fatto da Scuba: un’ora di techno quadrata molto dritta nelle strutture ma molto vicina alle suggestioni emotive disegnate dall’immaginario dubstep, un incrocio davvero interessante ed efficace.
Il report è già lungo così. Giusto il tempo di dire che Buraka Som Sistema e Gaslamp Killer ci hanno fatto divertire, Angel Molina con una techno molto lenta e spigolosa ci ha fatto riflettere, Africa Hitech col loro soundsystem del nuovo millennio un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma ciò che resta e resterà nella memoria di molti sarà il set di chiusura del festival, affidato in questa edizione alle capaci, capacissime mani di James Holden: un viaggio sonoro stupendo, iniziato forse in modo un po’ faticoso e poco attraente ma a restare lì capivi che questa era una scelta ben precisa: “Devi avere la pazienza di seguirmi”, stava a dire. Chi l’ha seguito, è tornato verso casa alle otto del mattino con un sorriso largo così, in estasi pura. E senza il minimo bisogno di aggiungere bicarbonato nelle bottigliette di plastica da mezzo litro.