Gli album preferiti del 2016 scelti dalla nostra redazione: due album a testa, rigorosamente in ordine alfabetico.
YUSSEF KAMAAL – BLACK FOCUS
Quando l’anno in questione stava per concludersi ed ormai non mi aspettavo più niente, come un fulmine a ciel sereno sono sbucati Yussef Kamaal. A settembre il loro album “Black Focus” era già sold out dappertutto, e la release era prevista per novembre! Le dieci tracce dell’album sono una più bella dell’altra, tutte attraversate da un jazz meticcio tremendamente contemporaneo e altrettanto perfetto per descrivere il vibrante humus artistico che pervade Londra e in particolare Peckham, le sue vie, pub, piazze e vicoli. “Strings Of Light” e “Yo Chavez” sono totem che si stagliano alti e fieri e che meglio riescono ad esprimere l’immaginario musicale di Yussef Dayes e Kamaal Williams. Il progetto più inaspettato, bello e frizzante di questi trecentosessantacinque giorni con un album da custodire. Grandiosi! – Ludovico Vassallo
DAVID BOWIE – BLACKSTAR
Metto Bowie non tanto perché abbia amato il suo ultimo – in ogni senso – disco più di ogni altra cosa che abbia ascoltato quest’anno, ma più che altro perché temo che tra i nostri non lo inserirà nessuno.
La verità è che “Blackstar” è arrivato nelle nostre vite come un normale disco di Bowie e quello che è successo solo dopo quattro giorni l’uscita dell’album nei negozi lo ha reso un’altra cosa.
Lo ha reso un testamento artistico.
La verità è che “Blackstar” non è mai stato un disco normale, e non lo sarebbe stato neanche se Bowie fosse ancora vivo: perché non è normale che una superstar con quella storia, quella carriera, e niente da dimostrare, si senta in dovere di rischiare così tanto e tirare fuori un lavoro dalla personalità spiccata.
Non somiglia a nessun altro disco di Bowie, ma forse non somiglia proprio a nessun altro disco: c’è una specie di crooner che parla di morte, resurrezione e stelle nere, su uno strano tappeto che mischia avant, free jazz e wave.
In altri anni lo avrebbero definito un disco post punk.
Ora è semplicemente l’attestato ultimo di una vicenda artistica davvero senza eguali.
Fino alla fine. – Emiliano Colasanti
KERO KERO BONITO – BONITO GENERATION
Il 2016 è stato l’anno in cui il pop “bislacco” è stato definitivamente sdoganato: molti artisti di successo quest’anno hanno un aspetto quantomeno bislacco e propongono musica che offre diversi livelli di interpretazione più o meno ironica. I Kero Kero Bonito sono da sempre tra gli alfieri di questa scena, grazie anche agli altri progetti di Gus Lobban, ma “Bonito Generation” è senza dubbio il disco della loro maturità artistica: a differenza del precedente, le dodici tracce di questo album sono quasi tutte earworm di quelli che li senti una volta e ti restano in testa a distanza di giorni, eppure l’album è estremamente vario. Se una delle lezioni del 2016 è che si può fare musica seriamente anche senza prendersi sul serio, i Kero Kero Bonito sono senza dubbio i maestri. – Mattia Tommasone
CHANCE THE RAPPER – COLORING BOOK
La cosa divertente è che in teoria “Coloring Book” non dovrebbe essere neanche considerato un disco ufficiale: per Chance non è nient’altro che il nuovo mixtape – il terzo dopo “10Day” del 2012 e “Acid Rap” del 2013 – uscito come i precedenti solo in digitale (e subito, sempre come i precedenti, stampato solo in formato bootleg) e che zitto zitto si è beccato una nomination al Grammy come miglior disco rap dell’anno (non era mai successo prima).
Chance arriva da Chicago e può essere considerato a tutti gli effetti un Kanye che ancora non ha perso la testa.
Dal punto di vista musicale le similitudini col West di “The College Dropout” sono evidenti: largo uso di campionamenti presi dal soul e dal gospel, il giusto equilibrio tra cazzonaggine e militanza sociale, e una dose di “Gesù”.
E sì, viene anche lui da Chicago.
A differenza di Kanye, però, Chance sa cantare senza outotune e sa arrangiare come un musicista vero.
Ovviamente anche lui collabora con miriadi di produttori ma ha un tocco personale talmente riconoscibile da essere diventato uno stile fatto e finito. È la faccia buona del rap americano. O la faccia intelligente.
Decidete voi. – Emiliano Colasanti
UMWELT – DAYS OF DISSIDENT
La mano esperta di Umwelt, figlio della scena rave di Lione degli anni ’90, attraverso “Day Of Dissent” ha creato un lungo viaggio e non esattamente il “solito viaggio”. Si, perché l’album intimidisce un po’ sfuggendo ad ogni sistematizzazione; è sincero, selvaggio, accorato ma anche salvifico poiché non ha paura di abbandonarsi alla melodia ne alla narrazione astratta di paesaggi decadentistici, metallici, spietati. Ogni aggettivo speso potrebbe rivelare al contempo troppo e troppo poco. Questo album sembra essere adatto a qualsiasi orecchio per la varietà delle tracce e allo stesso tempo sembra avere tutto: è – in qualche modo – mentalista, crea un’esperienza di ascolto molto intensa e si riporta ad una certa dimensione drammatica. In ultimo, scelgo di evidenziarne l’emotività. Quell’emotività necessaria, in questi nostri tempi miopi, che solo il linguaggio dell’arte riesce a raccontare tracciando rotte verso immaginifici altrove. – Giulia Scrocchi
LORN & DOLOR – DRUGS
Loro sono come due fratelli. Io me li immagino così. Due fratelli uniti nell’oscurità. Entrambi sono Milwaukee. Lorn l’ho sentito per la prima volta in Polonia, il suo live me lo ricordo ancora; pareva volesse prendermi le viscere, tirarmele fuori e buttarsele addosso. Quella era la sensazione. Dolor l’ho sentito grazie a Lorn. Cinque anni orsono, buttano fuori Drugs, a gratis. Una serie di cut e di tracce non utilizzate e accorpate insieme a formare tre macro-tracks da circa 15 minuti l’una. A luglio del 2016, completano la collezione, sempre sotto il nome di Drugs. La linea è la stessa, il livello di disagio medesimo. Le mie viscere si attorcigliano ancora, quasi volessero uscire. – Mattia Grigolo
DMX KREW – ESCAPE-MCP
Upton continua a maneggiare minimal synth d’antan e post electro/techno di drexciyana memoria: nell’ennesimo LP, col titolo ispirato dall’omonimo videogame del 1983, c’è quasi tutto il suo cosmo stilistico, tra stantuffi ritmici in sincope, melodie sfumate, accenni chiptune e nervature cyberfunk. – Giosuè Impellizzeri
FUNKINEVEN – FALLEN
Mi ci è voluto un po’ di tempo per assimilare e comprendere al 100% l’album di debutto di Steven Julien, conosciuto ai più come FunkinEven. Perché da quando pubblicava per Eglo nel 2011, andava in giro con la maschera di Chewbecca e i suoi primi EP avevano un’aria scanzonata, adesso con una label da gestire – Apron Records – la situazione s’è fatta più seria. E questa serietà a cui mi riferisco è possibile riscontrarla tutta dentro “Fallen”. Anche qui non mancano momenti di cazzeggio, però poi quando partono “XL”, “Kingdom” e “Jedi” capisci che qualcosa in lui è cambiato. Meno testa in aria e più piedi per terra. “Fallen” è stata una piacevolissima sorpresa da parte di un FunkinEven con idee musicali molto ma molto interessanti. – Ludovico Vassallo
ITAL TEK – HOLLOWED
Nessuno ha innovato radicalmente quest’anno, nessuno ha messo paletti ed alfabeti rivoluzionariamente nuovi, manco nel dancefloor. E allora quello che ti vien voglia di premiare è un album dove vengono riprese tante “penultime mode” dell’elettronica danzettara, o anche direttamente le ultime del pop (vedi la trap); ma il tutto combinando, ricombinando, scombinando, facendo insomma il possibile per “non” inseguire il suono del momento e facendo tutto maledettamente bene. – Damir Ivic
COSMO – L’ULTIMA FESTA
L’anno in cui l’influenza di Alessio Natalizia (Not Waving) nell’ultimo Drink To Me diventata anche quella del nuovo Cosmo: l’elettronica di un certo tipo, pochi giri di parole e il solito Marco Jacopo Bianchi che diventa ancora più autobiografico e meno filosofo. “L’ultima Festa” entra in heavy rotation sulle radio più popolari della Penisola, viaggia da Nord a Sud con un live che cambia nei mesi: non più da solo ma con il gruppo, con la cassa sempre più protagonista, con i vecchi brani di “Disordine”, le luci, i coriandoli e la gente in estasi. Trionfo. – Antonio Fatini
Con una fluidità e un’ omogeneità che a tratti ricorda una pietra miliare come discovery dei daft punk, cosmo produce un piccolo capolavoro: dieci pezzi, dieci hit di elettronica armonizzata alla luce del sole e testi mirati che non si scordano più. Si balla tantissimo in una semplicissima ma non semplicistica ricerca della felicità e ancora a 10 mesi dall’uscita, solido nel piatto gira ancora indispensabile. – Mirko Carera
JOLLY MARE – MECHANICS
L’attesissimo esordio dell’ingegnere Fabrizio Martina in arte Jolly Mare: una cerimonia disco funk dal gusto profondamente italico, tra Piero Umiliani e gli Stadio con Lucio Dalla in un disco di non-elettronica quasi totalmente suonato. Uno dei dischi più belli e interessanti degli ultimi anni, l’esordio perfetto di un ragazzo che ha fatto di studio, stile e dedizione i propri tatti distintivi.- Mirko Carera
JESSY LANZA – OH NO
L’amore raccontato dalla bravissima canadese Jessy Lanza, quanto di più vicino alla figura della star possa offrirci oggi la Hyperdub di Kode9. In “Oh No” le sue fasi ci sono tutte, quasi a voler fare di questo controverso sentimento un concept album bello e buono, e il risultato è all’altezza delle aspettative: mai banale, mai lontano più d’un passo dalla natura musicale di Jessy, mai stucchevole. In una parola, bello. – Costanza Antoniella
ERIC PRYDZ – OPUS
L’opera omnia del maestro svedese della progressive house è uscita lo scorso febbraio, dandoci tutto il tempo di goderne a pieno durante tutto il 2016. È la sintesi perfetta tra le due anime più melodiche, viaggiose ed euforiche, Eric Prydz e Pryda, e quella più scura e solenne, Cirez D, che convivono in ‘Opus’ come in Prydz stesso. Abbiamo aspettato tanto per un intero album da parte sua, ma ne è assolutamente valsa la pena! – Jacopo Rossi
YVES TUMOR – SERPENT MUSIC
Yves Tumor è uno di quegli act che mi sarei aspettato di vedere in quella roccaforte avanguardista-transfrontaliera che è il Club to Club, anche e soprattutto alla luce di un album, “Serpent Music”, uscito per PAN, che fa della sperimentazione la sua red-line. Non è un album che si presta ad uno storytelling, ma accompagna la giornata seguendo percorsi e stili musicali contrapposti, quasi stridenti, in cui la voce e il “soul” di Bekelé Berhanu, impastata nelle trame sonore create, rappresenta l’unica costante in un ascolto quasi caotico ma sorprendente in ogni traccia. – Alessandro Montanaro
SKEE MASK – SHRED
L’uomo con la maschera da sci l’ha rifatto, questa volta gettandosi senza paura nell’agguerritissimo mondo dei long play. La sua terza uscita sull’incredibile Ilian Tape dei fratelli Zenker esalta il meglio della sua musica, portando gli elementi apprezzati negli EP “Serum” e “Junt” a uno step successivo. Più alto. Ritmiche sghimbesce e atmosfere rarefatte condite con gusto, equilibrio e intelligenza. In una parola, anzi due: Skee Mask. – Matteo Cavicchia
DENGUE DENGUE DENGUE – SIETE REICES
Questa è cumbia. No, non è vero. La cumbia è questa cosa. Dengue Dengue Dengue la divora e la risputa. Perché la rende un mantra tenebroso, spezza la ritmica classica e ti lascia lì, a pensare che non c’è qualcosa che si avvicini così tanto ad un malessere, ma allo stesso tempo alla magia. Quella nera, però. È un po’ come se prendi Cannibal Holocaust e gli metti sotto, come colonna sonora, un disco di Celia Cruz. – Mattia Grigolo
NICOLAS JAAR – SIRENS
Il produttore per metà cileno e per metà americano nel suo secondo disco sulla lunga distanza – senza considerare le divagazioni ritmiche/colonna sonora “Pomegranates” – condensa in 40 minuti di musica tutte le sue influenze e passioni senza perdere in lucidità. Dentro a questo lavoro ci sono i pieni/vuoti dell’ambient, un tiro sonoro kraut-rock con vocoder
PROJECT STS-31 – SPIRALGALAXIE
La Spiral Galaxy Messier 106, è una delle galassie più insolite: ha quattro braccia a spirale invece che due e, seduto al centro del suo cuore, c’è un massiccio buco nero. La “Spiralgalaxie” oltre ad essere la copertina del disco è l’immagine galattica dietro ai volti di Gerald Donald e The Exaltics; ultimo scalino della trilogia “Hubble Telescope” che ha visto su Solar One Music l’avvento del sognante EP “Ancient Lights” firmato E.R.P e l’ipnotico “Everything Is Nothing”. Project STS-31 è quindi la collisione di due stelle, da cui nasce un viaggio intergalattico di beats electro, detriti lunari e rilievi sonori cosmici. Un “èlan vital”, per dirla alla francese, nient’altro che un modo come un altro per definire il trasporto per (e di) ciò che emoziona e viene dalla mente dell’uomo. Si sente e si percepisce che i due sono dentro le storie che raccontano e i suoni che creano. Un respiro cosmico ascensionale, denso dell’esperienza di Henrich Muller che sembra citare i Drexciya ne “50000 Light-Years Away “ che ricorda tanto “700 Million Light Years From Earth”, senza mai perdere di leggerezza e di quella atmosfera oniricamente apocalittica e allo stesso tempo evoluzionista di The Exaltics. – Giulia Scrocchi
THE WEEKND – STARBOY
È inevitabile che tra gli album che hanno segnato l’anno che volge al termine ci sia quello che vede il ritorno dei Daft Punk, anche solo in veste di produttori per un altro interprete, ma non è solo la presenza dei due robot a giustificare l’inclusione di “Starboy” tra i nostri dischi preferiti del 2016: il terzo album di The Weeknd, infatti, è la dimostrazione che il canadese non è solamente un giovane talentuoso circondato di hype e portato al successo globale solo grazie alla scrittura magica di Max Martin in “Can’t Feel My Face”, ma è molto probabilmente qui per restare. – Mattia Tommasone
OMAR S – THE BEST
Non che ce ne fosse bisogno, non che l’uscita di un album potesse cambiare (o stravolgere) il giudizio su un artista, ma Omar-S è oggi il più importante, costante e proficuo produttore di musica house al mondo. A lui però piace ricordarcelo e a noi sta benissimo così. – Matteo Cavicchia
KANYE WEST – THE LIFE OF PABLO
Basterebbe ricordare come “The Life Of Pablo” ha stravolto le regole della pubblicazione di un album, sempre più opera d’arte in continua evoluzione e meno prodotto discografico. Come ha rotto qualsiasi regola di marketing, arrivando al primo posto di Billboard con un album disponibile solo su Tidal e come i brani al suo interno siano fortunatamente più forti delle polemiche che hanno generato in questi mesi. Tralasciando tutto il resto, tralasciando Kanye stesso, “The Life Of Pablo” merita di essere in questa classifica. – Antonio Fatini
PANTHA DU PRINCE – THE TRIAD
“The Triad” è un lavoro capace di muovere le gambe e portare via la testa regalando ad ogni brano un brivido nuovo e diverso. Potente e visionaria, l’ultima fatica di Hendrik Weber si traduce in un live ricco di colpi di scena, fasci di luce e sonorità che si sposano perfettamente anche al dancefloor. È un album che non stanca mai, nemmeno all’ennesimo ascolto. Se non avete ancora avuto il piacere di sentirvelo, fatelo ora: sarà il miglior regalo di Natale che potrete farvi. – Costanza Antoniella
GAROFANO ROSSO – TITOLI DI CODA
Trincerato dietro un alias dall’indiscutibile fascino retrò, Giorgio Luceri pubblica un full pieno zeppo di referenze e citazioni per la musica cinematografica (Carpenter, Badalamenti, Cipriani, Simonetti, Frizzi, Micalizzi), fatto di synth disco noir, divagazioni funk/rock e qualche velatura kraut. – Giosuè Impellizzeri
MARK PRITCHARD – UNDER THE SUN
Il primo disco sulla lunga distanza di Mark Pritchard – già Global Communication, Harmonic 313, Africa HiTech – è un piccolo, grande, trattato di modernariato elettronico. E’ un lavoro sfuggente e per questo ancora più affascinante che vive di contrasti stilistici: il suono è algido e labirintico ma anche caldo e avvolgente; c’è la “parola parlata” e il canto (collaborano Thom Yorke, Bibio, Beans e Linda Perhacs); le basi ritmiche minimali e gli arrangiamenti classici. Un lavoro che racconta con spericolata precisione l’oggi musicale di quell’alveo multiforme definibile come abstract/ambient/downtempo. – Maurizio Narciso
ATCQ – WE GOT IT FROM HERE… THANK YOU 4 YOUR SERVICE
Un disco commovente. Ma non (solo) perché si risente la voce di Phife, oggi purtroppo morto; un disco commovente perché ti fa capire che è vero, sì, la classe è senza tempo, e ti permette colpi di scena incredibili: ci aspettavamo infatti un disco bello ma di routine (come il suo predecessore di diciotto anni fa, quel “The Love Movement” fatto già con la voglia di separarsi), completato con mestiere. Invece c’è la vivacità, il coraggio e la genialità di una band agli esordi. Su certe cose, è il “Three Feet High And Rising” del 2000 (per la psichedelia “gentile”, la varietà); su tutte, è A Tribe Called Quest. Ovvero stile, classe, nitida visione d’intenti, gusto sideralmente sopra la media. – Damir Ivic
DEADMAU5 – W:/2016ALBUM/
Titolo ultra nerd (tanto per cambiare) per quello che mi sento di definire il miglior long play che deadmau5 abbia messo insieme finora. Un album coerente, dal flow scorrevole, piacevolissimo da ascoltare tutto d’un fiato ma anche piuttosto ballabile, con tuffi in quei bellissimi albori progressive che tanto abbiamo amato, armonie da pelle d’oca e quel sound design da paura a cui Joel ci ha abituato. A ulteriore riprova del fatto che quando decide di metterla in musica, lontano dai vari flame su twitter, non ce n’è per nessuno. – Jacopo Rossi
WILSON TANNER – 69
Non parliamo di musica adatta al dancefloor, ma siamo nel beyond quello che va oltre la serata quando è il momento di rilassare le membra e i pensieri. Andras Fox (alias di Andy Wilson) e John Tanner via Growing Bin Records (micro-etichetta d’Amburgo) confezionano un album che sa di ambient, di new age, di sea recording, di pace antipodale. Scordate lo skip, basta un play e chiudere gli occhi. – Alessandro Montanaro