E’ stato un anno un po’ mah. Anche e non solo per i tanti personaggi eccezionali che ci hanno lasciato nel mondo della musica a trecentosessanta gradi (da David Bowie a George Michael, passando per Leonard Cohen e Prince, ma l’elenco è dannatamente lungo e doloroso); il punto è che non ci sono stati, almeno così ci sembra, eventi particolarmente emblematici o particolarmente rivoluzionari in senso positivo, dalle nostre parti “clubbare” e non solo dalle nostre parti. Almeno nei territori dell’indie sono cambiate un po’ di coordinate con l’ascesa verticale di Calcutta e Thegiornalisti (chi si sarebbe aspettato un anno fa che riempissero i palasport o giù di lì?), nei territori un po’ più “nostri” mah, si è andati avanti abbastanza col pilota automatico, che sia qui nel Belpaese come a Berlino, o Londra, o Ibiza, o Barcellona. Non che sia un male: non si può avere una rivoluzione all’anno. E gli anni più tranquilli, in realtà, servono magari a riflettere meglio e con più calma su certi fenomeni. Ecco, le dieci istantanee di quest’anno sono un po’ diverse da quelle del 2015, meno gioiose e celebrative. Ma potrebbero rivelarsi, se “elaborate” nel modo giusto, altrettanto importanti.
Siamo andati a comandare
Vi piacerà o meno, ma la più grande hit commercial/transgenerazionale di quest’anno è stata “Andiamo a comandare” di Rovazzi. Il 98% delle persone che se la ascolta e se la balla non lo sa, ma musicalmente è costruita in modo significativo, prendendo a piene mani dalle sonorità da club culture (Merk&Kremont, gli autori, sono anche andati molto più andati in zona Groove Armada + “Superstylin’” che su sponde EDM). Insomma, siamo tornati potabili per il pop. Dopo anni di dittatura rappusa, siamo tornati accettati da chi cerca il suono facile, accessibile, comprensibile. Potremmo approfittarne, senza passare per forza dagli zuccherifici a base di EDM; non dico che siano maturi i tempi per rivedere “Born Slippy” in classifica e tra gli ascolti della figlia della casalinga di Voghera come vent’anni fa, non esageriamo, ma il 2017 potrebbe riservarci altre sorprese. Magari, fosse possibile, senza rap-presa-in-giro appiccicato sopra (non che ci sia nulla di male, ma uno scherzo è uno scherzo, un gioco è un gioco, poi la musica davvero rilevante e che resta nel tempo e nelle coscienze è un’altra cosa).
Alive 2017
Del resto, stiamo poco a fare i superiori. A giudicare da come ci siamo emozionati tutti quanti ad ogni minimo refolo di (finto) indirizio sul ritorno dei Daft Punk sulle scene, alla fine i meccanismi del pop li abbiamo introiettati per bene anche noi, soloni del – ehm – “clubbing di qualità”. Fra gli articoli più letti quest’anno su Soundwall, spiccano i vari avvistamenti sul ritorno del duo col caschetto dal vivo. Di cose di qualità ne abbiamo scritto molte altre, ma quando scrivi “Daft Punk” evidentemente parte una reazione pavloviana. In tutti, anche in voi che state leggendo adesso, non fate finta che no.
La chiusura del Fabric
Per fortuna le reazioni “di gruppo”, nello stagno nostro, si hanno anche per cause più nobili. Che sia per far presente agli omofobi che non sono graditi (vedi il caso Ten Walls, datato 2015 ma con strascichi anche in questo 2016: ecco, lo possiamo dire, ci avevano proposto qualche mese fa una intervista con lui in persona ma ci avevano imposto di non toccare certi temi, “Li abbiamo trattati già abbastanza, non vediamo perché parlarne ancora, devono stare fuori da quello che gli chiedete”: ovviamente li abbiamo mandati al diavolo, se questo è il modo in cui Ten Walls e il suo entourage vogliono gestire la cosa se ne possono anche restare ben lontani dalle nostre parti). O che sia, situazione molto più importante, per indignarsi parecchio per la chiusura molto sospetta e molto truffaldina del Fabric. Indignazione che dovrebbe aver portato ad un lieto fine, con la riapertura del club. Una buona notizia per tutti, anche se non manca qualche voce critica che dice che il management del Fabric si è troppo genuflesso di fronte a certe richieste della polizia per poter avere la licenza indietro. Le voci critiche non mancano mai: nel 2017 osserveremo e vigileremo.
Top of the flops
Su un’altra cosa siamo stati tutti piuttosto uniti, a parte i poveri cristi che – anche lecitamente – per il programma in questione sono andati a fare i concorrenti oppure i lavoratori in redazione dietro le quinte, che giustamente hanno da campa’: Tod DJ quest’anno era un merda, stop. Ma lo era proprio a livello di ideazione, tant’è che ci siamo permessi di fare una cosa che non si dovrebbe fare mai, ovvero parlarne male prima ancora di averlo visto. Ma gli elementi per un ragionamento “preventivo” c’erano tutti. E quando abbiamo scritto questo, manco sapevamo che fra gli ospiti ci sarebbero stati, ehm, “padri del deejaying” come Baby K, Luca Tomassini, Lorenzo Fragola. Il vero vincitore alla fine è stato Andy dei Bluvertigo: quando la band – in primis nella persona di Morgan – è stata ospite del programma, ha ben visto di non degnarsi nemmeno di essere presente al playback, facendo mettere al suo posto un cartonato in grandezza naturale. Evidentemente aveva di meglio da fare. Bravo: scelta giusta. Per il resto speriamo che chi di dovere abbia capito che la club culture ha ancora un senso (e un seguito) quando non è del tutto diluita, quando cioè non è trasformata in un fenomeno da baraccone con continui, disperati ganci verso il nazionalpopolare e verso cose che francamente non c’entrano un cazzo. Top DJ ha fatto schifo quest’anno come contenuti quindi, però ecco, pure come ascolti non è che sia diventato il fenomeno televisivo dell’anno con la “svolta” becera di quest’anno. Meno male.
Cosmogonia
Non è che le contaminazioni non vadano bene. Una contaminazione da premiare quest’anno (e che sta venendo premiata parecchio pure dal pubblico) è quella di Cosmo: cantautorato contemporaneo (quella cosa strana che aleggia tra indie e Battisti) dall’impianto sempre più robustamente da club. Ne abbiamo parlato diffusamente con lui in questa intervista. Non è stato un solo “innamoramento” nostro o suo: in pochi mesi Cosmo è arrivato a fare duemila e passa paganti, vedi l’ultima data a Roma, lì dove fino a pochi mesi prima già pensare di farne un quarto sarebbe stato visto come un risultato solidissimo ed invidiabile. Insomma, lui dimostra che il matrimonio fra musiche e sfere diverse si può fare: senza sputtanarsi artisticamente (presso una sponda, o l’altra) ma non per questo rinunciando a farsi sentire da sempre più gente.
La scarsità è una polo scura
Ci sono le contaminazioni riuscite, le contaminazioni forzate, e poi ci sono la contaminazioni per il LOL. Che sono una categoria a parte. Non è il caso di inserirle né fra le prime né fra le seconde. E’ tuttavia il caso di ridicolizzarle quando sono inopportune e/o vengono fuori male: questo è il caso della calata sul palco della Dark Polo Gang durante l’esibizione di One Circle (leggi: Lorenzo Senni, Vaghe Stelle ed A:Ra, assieme, cioè tre fra i migliori e più rispettati producer di elettronica “intelligente” in Italia). Sulla carta l’idea era assurda e bislacca, così assurda e bislacca da finire con l’innamorarsene; nella pratica però rischiava di essere una fetecchia e, beh, una fetecchia è stata. Troppo scarsa tecnicamente la Dark Polo Gang. Momenti di imbarazzo collettivo, a Club To Club, durante questa esibizione. Sai no quando guardi qualcuno e ti senti male per lui per la magra figura che sta facendo di fronte a te? Ecco. Non tutti gli esperimenti surreali sono possibili, non tutti gli esperimenti surreali sono sensati, non tutti gli esperimenti per il LOL sono intelligenti (…anzi: gran pochi).
Non tutto il trap vien per nuocere
Per qualcuno era un esperimento da LOL anche la presenza, sempre nell’augusto Club To Club, di Ghali. Che in teoria e in pratica con la Dark Polo Gang condivide la scena di provenienza (e spesso anche il vestito musicale, vedi le produzioni di Charlie Charles), aiuto; quindi insomma, che diavolo ci faceva in mezzo ad Autechre, Dj Shadow, Swans, Motor City Drum Ensemble, Arca, eccetera eccetera? Invece se la sostanza c’è, si nota. Club To Club mai come quest’anno ha aumentato il ventaglio stilistico, senza rinunciare ad un’attenzione verso la qualità e la “novità colta” che rasenta quasi lo snobismo, e in tutto questo disegno Ghali si è inserito perfettamente. Senza strafare, ma senza rinunciare a se stesso. A dirla tutta: molto meglio lui del tanto celebrato Gaika (che esce su Warp, bla bla bla…), e i due più o meno fanno la stessa cosa una volta portati alla prova del palcoscenico.
La chiusura dello Space
Palcoscenico che non ci sarà più allo Space di ibiza, o se ci sarà non sarà mai come quello che abbiamo conosciuto in questi anni, facendo in modo che il club in zona Playa d’en Bossa diventasse un simbolo della Isla: perché ora le mura sono state comprate da quelli dell’Ushuaia, gente che ha già dimostrato di avere un ottimo senso degli affari e un nullo “senso di appartenenza” dal punto di vista artistico: se la minimal funziona vai di minimal, se la minimal non funziona vai di EDM, qualcosa di sicuro ingrana e riesce a portarci la grana. Che, romanticismi a parte, pare la declinazione degli eventi sempre più imperante ad Ibiza. Del resto già da anni il mito della “isola libera”, molto hippie ed aperta, o comunque di isola pasata sull’etica e l’estetica del clubbing era il “propellente ideale” posticcio di club con ingresso a 50 euri (!!) e drink a 25 (!!). Forse è il caso di far tramontare definitivamente questa ipocrisia, separando nettamente chi fa clubbing prima di tutto per i soldi e per far muovere un’industria con annessi e connessi da chi invece lo fa come nutrimento dell’emotività senza porsi il minimo problema dello scopo di lucro. Oh, vanno benissimo entrambe le cose: basta che i primi non facciano finta di essere tali e quali ai secondi. Perché non lo sono. Anche lo Space era diventata una macchina da soldi. Giusto piangerne la chiusura, ripensando ai tanti momenti magici che ha vissuto e fatto vivere (e noi gli abbiamo dedicato questo bellissimo epitaffio, che poi è una cronaca in presa diretta), ma forse giusto anche che ora sia passato ad altra vita e altra proprietà.
Senza appartenenza, Senza Nome
La domanda però è: noi da che parte stiamo? Noi, osserviamo. E non è un lavarsene le mani alla Ponzio Pilato: il compito di un magazine come Soundwall è proprio quello di raccontare, testimoniare, osservare – e cercare di fare tutto questo con obiettività. Obiettività non significa dire che va tutto bene, è tutto bello, rinunciando alle proprie opinioni. Ci sono cose della scena di matrice EDM che non ci piacciono e, presumibilmente, mai ci piaceranno: l’eccesso di “zuccheri”, di drop, di continua ricerca dell’effetto paraculo, di cantabilità pop che deve andare bene per tutti indistintamente dai 9 ai 99 anni. Ci danno un pelo fastidio anche le notorietà costruite sull’immagine, su dj set / live set dove la feature principale è alzare le mani a tempo, sulla “glamourizzazione” (e relativo svuotamento nel significato originario e più profondo) della figura del dj. Questo però non ci impedisce di tenere gli occhi bene aperti su quello che succede in giro né di riconoscere i meriti quando ci sono: e Nameless Festival, un evento che è riconducibile alla definizione di “festival EDM italiano”, è una delle realtà più solide, fresche, professionali, in espansione in Italia. Poi magari pure loro – come si vocifera già da qualche mese – vorranno andare oltre all’etichetta EDM e sperimentare a trecentosessanta gradi. Per adesso è ancora il festival dove la star è lo sventalatore di bandiere Alesso, non Jeff Mills, e che annuncia quei ceffi di Axwell e Ingrosso come primo act della prossima edizione, che insomma fosse per noi Axwell e Ingrosso per meriti artistici acquisiti è già tanto se meritano di pulire le toilette del Fabric riaperto; ma questo non impedisce di apprezzare il grandissimo lavoro organizzativo e la crescita continua e coerente del festival lombardo. Un esempio per tutti.
Con appartenenza, e tanta soddisfazione
Dovendo invece premiare qualcosa di “nostro” al 100%, in cui cioè Soundwall praticamente tutto si rispecchia al massimo grado, al di là delle varie “pratiche virtuose” in giro per l’Italia (basta dare ai nostri articoli sulle serate di Capodanno) che vanno sempre elogiate e supportate, quest’anno a nostro modo di vedere chi ha vinto veramente è Fat Fat Fat. Perché la scelta degli headliner è stata fatta pensando prima di tutto ai propri gusti e poi al portafoglio (Theo Parrish, Motor City Drum Ensemble), perché pure gli altri in cartellone sono stati scelte calibratissime e non scontate (Soichi Terada, Marcellus Pittiman, Francis Inferno Orchestra, Volcov), perché i resident (Harmonized Soundsystem) hanno fatto un gran lavoro, perché fare tutto questo già in zone ad alto tasso di tradizione di clubbing e/o di festival sarebbe stato un azzardo figuriamoci nelle Marche, perché palpabile la voglia di condividere il frutto del proprio lavoro con la scena tutta (e infatti molta gente da fuori, perfino da Milano e Roma). Non sono stati loro a vincere nei numeri, ci sono realtà molto più grosse e consolidate e “tradizionaliste” nelle scelte che hanno fatto un gran lavoro (Movement o il neonato Music Inside Festival, per dirne due), ma quest’anno l’oscar della critica per quanto ci riguarda va a Fat Fat Fat.