Dotato di una tecnica incredibile e di un gusto fuori dall’ordinario, Marco Trani è universalmente considerato come uno dei dj più importanti della storia del clubbing italiano. Oggi abbiamo il piacere di raccontare il perché della sua importanza e di condividere con voi un’ora di pura magia musicale.
Se Federico Buffa si occupasse di musica elettronica anziché di sport, una puntata delle sue meravigliose antologie sarebbe stata dedicata a Marco Trani, statene certi. “Marco Trani, il pioniere”, me la immagino intitolata così. Perché Marco Trani è, a conti fatti, uno dei dj più amati e rivoluzionari della scena italiana – e quindi europea – e non esiste nessuno dotato di buon senso che oserebbe dire il contrario. Ma a differenza di quelle frasi ripetute così tante volte da diventare luoghi comuni indiscutibili, ciò che avvalora l’importanza che ha avuto il dj romano per diverse generazioni di clubber è ciò che dicono gli occhi di chi si ritrova a parlare di lui. Vedete, le bocche possono mentire, gli occhi no.
Chi scrive è nato nel febbraio del 1985 e uno dei suoi primi ricordi sportivi è legato a Roberto Baggio a USA ’94. Le sue giocate, il suo gol all’ottantottesimo nell’ottavo di finale contro la Nigeria, la doppietta alla Bulgaria di Hristo Stoičkov e le lacrime dopo il rigore sbagliato nella maledetta finale di Pasadena. Come me, tantissimi altri della mia generazione o, meglio ancora, se più anziani: certe cose non puoi non portarle per sempre con te, e non importa se sei un romanista sfegatato, un fiorentino tradito, oppure un milanese che l’ha visto fare su e giù per le quadre della sua città.
Ecco, quando parlate di Marco Trani otterrete lo stesso effetto che fa il Divin Codino su chi l’ha amato incondizionatamente. Glielo potete leggere negli occhi.
Ma tra il Marco Trani dj e il Roberto Baggio calciatore esiste una differenza di fondo di cui non possiamo non tenere conto, una differenza che è legata in modo indissolubile con la natura della loro arte: uno sportivo, soprattutto se giovanissimo, viene quasi sempre “scoperto” da chi gli riconosce un talento unico o delle capacità fuori da comune. La tenacia, l’abnegazione e la capacità di sopportare il dolore fisico e le delusioni contano, è chiaro, ma ciò che ci fa saltare letteralmente dalle sedie – tutti, nessuno escluso – non è quasi mai la grinta, ma la bellezza di una giocata. La caparbietà e la predisposizione al sacrificio, insomma, vengono dopo.
Per quanto riguarda i dj – che rispetto agli altri artisti giocano un po’ un campionato a parte – le cose funzionano in un’altra maniera: i dj hanno sempre dovuto sbattersi un po’ per avere un’opportunità, soprattutto quando i promoter e i proprietari di un club mai si sarebbero sognati di chieder loro di curare prima le pubbliche relazioni e poi la musica – chi vi racconta una storia di versa spesso e volentieri mente.
In questo scenario Marco Trani non fa certo eccezione, anche lui ha dovuto sgomitare per farsi notare.
Prima di rivoluzionare completamente la nostra scena, diventando il faro di intere generazioni di giovani colleghi che ne hanno venerato il mito, e prima di cambiare per sempre la percezione della figura del dj agli occhi del pubblico, Marco Trani non era altro che un ragazzetto di Roma Sud col sogno di fare della sua passione la propria vita. Non il proprio lavoro e nemmeno una fonte di guadagno, ma il cuore delle proprie giornate. Ciò che le riempiva.
“Paolo, io sono a tua disposizione, sono un disc-jockey che lavora dall’altra parte di Roma, a Casal Palocco. Ti vorrei far sentire questa cassetta perché sono disposto a farti da secondo, a fare sostituzioni, a portarti i dischi…a fare qualsiasi cosa! L’importante per me è lavorare in questo bellissimo locale”
C’è un bellissimo passaggio all’interno di STrani Ritmi, il documentario che ripercorre e racconta la sua vita attraverso immagini inedite e testimonianze di amici e colleghi, in cui Paul Micioni, storico resident dell’Easy Going, e lo stesso Trani raccontano il timido approccio con cui lui, giovanissimo, si è fatto avanti chiedendo di ascoltare una sua cassetta. Qui è proprio Micioni a parlare: “uno, due dischi e mi tolsi le cuffie…senti, se hai intenzione di prendermi in giro hai sbagliato: io questi giochetti li facevo quando ero piccolo!”. Marco Trani è talmente bravo da far sembrare ogni suo mixaggio in quella registrazione come frutto di qualche trucchetto studiato ad arte, ma alla fine quello che poi diventerà il suo maestro si convince, chiaramente solo dopo averlo messo alla prova dal vivo, dando inizio quella che può essere considerata a tutti gli effetti come una delle storie più avvincenti della scena disco e house italiana. Non importa di quale epoca.
Parliamo di un’epoca diversa, lontanissima. Anni in cui per ciascun dj a contare erano sì la popolarità e il seguito di pubblico, ma si trattava di traguardi raggiungibili solo col tempo e col lavoro. Senza sotterfugi, senza campagne marketing mirate e studiate a tavolino, senza agenzia di booking e management a confezionare il pacchetto-artista, senza storie su Instagram e senza sponsorizzate su Facebook. Se volevi diventare un dj di successo, se volevi aspirare al mito di certi fenomeni d’oltreoceano (che poi erano fenomeni prevalentemente nella testa di noi europei, come racconterà Laurent Garnier nel suo libro “Electrochoc”), allora dovevi passare per forza di cose dalla gavetta, ovvero ore e ore spese a ricercare la musica più interessante in circolazione e a mettere i dischi in battuta.
Prima che internet portasse le nostre vite all’omologazione, era decisamente più semplice individuare (e apprezzare) la personalità di ciascuna persona. Come dice il detto? Lasciate un uomo solo e solo allora conoscerete veramente la sua natura. Provate a togliere dalle mani di un vostro amico il suo cellulare, liberatelo dalla curiosità di sbirciare cosa stanno facendo i suoi contatti e dal bisogno di approvazione sotto forma di like-interazioni. Solo allora potrete vedere realmente chi è. Per gli artisti vale più o meno lo stesso.
Tempo fa non fui molto tenero con Four Tet quando ammise candidamente di ascoltare pochissima altra musica oltre alla sua, come se i dischi dei suoi colleghi lo distraessero. “Che presuntuoso”, pensai, “chi ragiona in questo modo, come farà a crescere?”. Ma a ben vedere, si tratta semplicemente dell’estremizzazione di un concetto che in realtà, almeno per quanto riguarda la musica, ora come ora sposo a pieno: chi meno entra in contatto col prossimo, più resta autentico.
E Marco Trani autentico lo era sul serio. Non perché fosse una persona snob, supponente e scevra da qualsiasi forma di autocritica, anzi!, ma perché per primo tra i dj “moderni” aveva capito che per lasciare davvero il segno era indispensabile tracciare un solco chiaro, unico con i propri dischi e i propri dj set. Allora guai a farsi influenzare dalle classifiche dei brani più suonati, guai ad esser schiavi delle hit e a lasciare che il gusto del pubblico condizioni la sua selezione; impensabile, in quest’ottica, fare propri i cavalli di battaglia degli altri dj, soprattutto se più navigati e affermati.
Ma se della tecnica abbiamo già parlato – non vi sarà sfuggito, tra l’altro, il post su Facebook di Corrado Rizza che riporta un mini-estratto di un set in cui Marco Trani mixa, in modo magistrale, Lionel Richie e Phil Collins – un altro aspetto a rendere unico Marco Trani è il gusto unico che rendeva ogni suo set un’autentica scoperta, un orgasmo per le orecchie degli amanti della black music.
Per questa e per mille altre ragioni, oggi siamo fieri ed orgogliosi di darvene un assaggio, celebrando il suo talento inarrivabile col podcast numero quattrocento del nostro catalogo: sessanta minuti abbondanti di musica estratti da uno dei suoi introvabili mixtape che ci rispediscono direttamente al centro del dancefloor dell’Histeria, nel cuore degli anni Ottanta.
Signore e signori, Marco Trani.
Le illustrazioni sono a firma di Filippo Gabelli, amico di Soundwall da sempre, come da sempre è un amante della buona musica. Marco Trani è uno dei suoi dj preferiti.