“Lo scopo è quello di condurre l’ascoltatore in un viaggio visionario attraverso la materia e tutti i paesaggi immaginari in vetro che abbiamo tentato di evocare”
Ci sono progetti che nascono perché alla base di essi c’è un rapporto di amicizia e di stima tra i musicisti coinvolti, oltre che un’idea, magari singolare, da sviluppare incrociando competenze che provengono da esperienze differenti ma non per questo inconciliabili. “Glasstress” è proprio questo, un lavoro di ricerca – ma attenzione, non noioso e nemmeno spocchioso ma anzi proprio godibilissimo – che ha visto collaborare due produttori, Max Casacci e Daniele Mana, che da Torino hanno saputo sfumare coordinate geografiche e riferimenti stilistici in nome di un eclettismo lucido e consapevole (che si tratti dei Subsonica, deproducers o Vaghe Stelle il risultato è sempre una musica aperta a contaminazioni eterogenee).
Il singolo apripista, “Like A Glass Angel”, che potete ascoltare in anteprima su questa pagina, è un ottimo biglietto da visita per entrare in “Glasstress”, lavoro dove Max e Daniele hanno elaborato i suoni provenienti dall’ambiente di una fornace di Murano, rendendo musicale il crepitio dei vetri, il soffio del forno, il rumore degli utensili di lavoro, di fatto dando un’altra voce alla fabbrica del vetro. Come se non bastasse i due produttori hanno creato un legame diretto con il mondo dell’arte e lo stesso nome dell’album riprende quello della mostra di arte contemporanea inserita nella cornice della biennale di Venezia. “Like A Glass Angel” nella fattispecie, è ispirata all’opera “Inside Out” che Pharrel Williams ha realizzato ed esposto proprio in occasione della mostra “Glasstress” del 2011; in copertina c’è la sua opera, concessa solo dopo l’ascolto dell’intero lavoro.
Questi sono solo alcuni dei temi affrontati nell’esclusiva intervista che segue e che vi porta, non solo dentro la fornace di Murano, ma anche nei ragionamenti sull’oggi musicale di due straordinari artisti.
Max Casacci e Daniele Mana, come vi siete incontrati? Immagino che il fatto che entrambi abitiate a Torino abbia facilitato le cose.
DM: Ci siamo incontrati in giro nei locali di Torino, abbiamo sempre parlato di musica, influenze ed esperienze in studio e live. Abbiamo colto al volo la prima occasione per poter collaborare.
Avete unito le forze per dare forma ad un progetto molto particolare, chiamato Glasstress, dove avete utilizzato esclusivamente i suoni campionati nell’ambiente di una fornace di Murano. Come ci avete pensato e qual è il significato di tale operazione? Siete riusciti a fare un lavoro di ricerca ma anche apprezzabile se non si conosce il singolare processo di lavorazione.
MC: I suoni provenienti dalla fornace, dove il vetro utilizzato per le opere d’arte della mostra omonima è stato lavorato, sono la base di tutte le ritmiche dell’album. Per la cassa e le pulsazioni basse, abbiamo utilizzato il potente rumble del forno che cuoce a 3.000 gradi. Per le componenti più acute, il timbro cristallino del materiale, per il resto i rumori degli utensili, dell’ambiente e delle macchine che molano e rifiniscono il vetro. Abbiamo prodotto un’opera sonora che ha come componente fondamentale il vetro. Glasstress è stata quindi “esposta” in una mostra di arte contemporanea – presso la biennale di Venezia – mediante diffusori, unitamente alle opere di Thomas Schutte, Jan Fabre, Barbara Bloom, Patricia Urqiuola. Successivamente abbiamo deciso di focalizzare tutta questa esperienza in un album dando più compattezza ai brani e scrivendo nuovo materiale, pur seguendo rigorosamente l’impostazione iniziale. Lo scopo è quello di condurre l’ascoltatore in un viaggio visionario attraverso la materia e tutti i paesaggi immaginari in vetro che abbiamo tentato di evocare.
Come vi siete divisi i ruoli in fase di registrazione/produzione dell’album e quanto è durata la lavorazione?
DM: Abbiamo due approcci diversi al lavoro in studio e due tipi diversi di esperienze. Max ha dietro di sé anni di produzioni ad altissimi livelli ed ha sapientemente smussato ed alleggerito le mie sperimentazioni, a volte un po’ estreme. Siamo andati tutti e due a Murano a registrare i suoni della fornace usando il prestigioso parco microfoni dell’Andromeda Studio di Max, che poi ho inserito nelle mie macchine per creare tutte le basi che caratterizzano il disco.
Mi è piaciuta molto una vostra descrizione, quella che dice che le tracce dell’album aprono le porte di una casa di vetro, come quella auspicata dal surrealista André Breton nel romanzo “Nadja”. Mi dite qualcosa in più su questo affascinante parallelismo?
MC: Nadja di Breton fa parte del bagaglio della mia adolescenza. Quella frase mi è sempre suonata come un’esortazione ad accettare ogni tipo di confronto a braccia aperte, senza barriere, senza nascondigli. Come abitanti di una casa di vetro, in grado di rivelarti al mondo ma soprattutto a te stesso. Credo che io e Daniele siamo accomunati dalla medesima urgenza di realizzare musica senza barriere, senza mezze misure. Insomma senza la paura di mettersi a nudo.
Gli otto brani dell’album sono assai evocativi e sostenuti da una ritmica di base in costante evoluzione, ho immaginato che potrebbe essere il battito del cuore dell’addetto alla fornace. Sto lavorando troppo di fantasia?
DM: Direi che non c’è troppa fantasia in quello che dici. La fornace si muove con un suo ritmo, ben scandito, vive e pulsa come una stella incandescente. Abbiamo utilizzato la sua pulsazione, i bassi ricavati dal drone che avvolge il laboratorio, per costruire le casse e le tessiture ritmiche le disco.
Come dicevate prima, il titolo dell’album è lo stesso della mostra d’arte contemporanea nata nel 2009, evento collaterale alla Biennale di Venezia. Ha ospitato grandi artisti, che si sono cimentati con le possibilità offerte dalla manipolazione del vetro. Qual è il vostro rapporto con l’arte e con l’architettura?
MC: La musica rischia costantemente di indebolirsi, di stereotiparsi, in questo senso ogni decontestualizzazione, ogni riferimento o relazione con altre discipline rappresenta uno stimolo, una sfida, una tensione positiva. Nel caso della musica elettronica, il contesto architettonico urbano rappresenta inevitabilmente una delle principali suggestioni di riferimento. Rapportarsi ad un’opera visiva aiuta ad aggirare le consuetudini, ad esaltare equilibri differenti, a ricercare tridimensionalità.
“Like A Glass Angel” è il primo singolo estratto dall’album ed è ispirato all’opera “Inside Out” che Pharrel Williams ha realizzato ed esposto proprio in occasione della mostra Glasstress del 2011. Sappiamo che ha ascoltato il vostro progetto e che è rimasto entusiasta. Ci raccontate com’è andata?
Prima di concederci l’utilizzo dell’opera in copertina del singolo “Like A Glass Angel” gli abbiamo dovuto far ascoltare tutte le tracce dell’album, abbiamo avuto immediatamente un feedback positivo!
Quando un progetto ha un’idea forte alla base, non è facile tenere sotto controllo sia il concetto scelto che l’intrattenimento, fattore comunque fondamentale della musica. Vi siete posti questo quesito oppure tutto è venuto fuori in modo spontaneo?
MC: Imporsi delle limitazioni può essere un metodo per concentrare le energie sui tratti espressivi essenziali. Nel campo della musica elettronica la scelta di strumenti e soluzioni a portata di mano rischia di diventare disorientante e dispersiva. Partire con un numero limitato di sample ritmici, da noi realizzati e quindi unici, dà un immaginario molto ben definito e una “funzione” di base, nel nostro caso la mostra, che costringe a mettere subito tutto a fuoco. Infatti, nel caso di Glasstress, non ci sono stati scarti o esperimenti falliti.
Diteci qual è la qualità che maggiormente apprezzate dell’altro? Magari ci sono aspetti che non conoscevate e che sono venuti fuori in occasione di questa collaborazione.
DM: Di Max ammiro l’ampissima visione musicale, sa quando e come dare il giusto respiro ad una traccia ed a renderla inevitabilmente più musicale senza mai snaturarne la forma originale.
MC: Apprezzo e ammiro molti aspetti di Daniele. Abbiamo passato settimane, mesi, chiusi in studio senza mai scaricare, neppure un attimo, la tensione. E’ un samurai della musica. Per lui è questione di vita o di morte. Tutto il resto passa in secondo piano.
Ci sono dischi che vi hanno influenzato mentre lavoravate a Glasstress? Intendo di ogni periodo storico, oppure vi siete concentrati esclusivamente sulla vostra musica.
MC: Per quanto mi riguarda, pur ascoltando voracemente e con soddisfazione molte recenti produzioni elettroniche, finisco per fare idealmente riferimento al Brian Eno del periodo E.G. Records, a Steve Reich, John Cage, ad artisti del secolo scorso. Quello che trovo lì è un senso di compiutezza. Appartengono ad un’epoca nella quale l’album era una dimensione di riferimento imprescindibile. Oggi, per fare un esempio, adoro i live set di Four Tet, ma non ritrovo la stessa completezza in un suo album. L’ambizione di Glasstress è anche quella di proporre un percorso compiuto, non una raccolta di tracce.
Qual è lo stato della musica elettronica in Italia oggi? A noi sembra un buon periodo, con molte produzioni non scontate e meritevoli d’attenzione.
La musica elettronica in Italia gode ora di ottima salute, c’è tanta musica di ottima qualità che si muove dall’Italia all’estero, e molta di più nel limbo dell’anonimato. Siamo molto orgogliosi di come si sta evolvendo la scena e siamo sicuri che non ci sia niente da invidiare a quello che accade in altri paesi come Inghilterra, Francia o Germania.
Qual è, invece, secondo voi un fattore che andrebbe tenuto più in considerazione nel nostro Paese? Magari anche solo un atteggiamento che notate in alcuni vostri colleghi e che reputate controproducente.
MC: Parlando di atteggiamento posso dirti, dopo 30 anni di musica, che la scena attuale mi pare quella migliore mai incontrata, in termini di attitudine, di rispetto per gli altri e per la musica stessa, di sensibilità, per ciò che è realmente essenziale. Quello che forse un po’ manca ad alcuni ventenni o trentenni di oggi è il coraggio di spingersi oltre, di ricercare una propria universalità, oltre ai codici ed ai dettami estetici. Come se non credessero fino in fondo di essere in grado comunicare con mondi più ampi.
Un disco a testa, di quelli che mettete su spesso quando siete a casa e volete ascoltare qualcosa di buono.
MC: Quest’anno, in casa, ho ascoltato molto l’album dei concittadini Niagara.
DM: Io ho ascoltato tanta musica giapponese, il mio disco preferito è stato “Through The Looking Glass” di Midori Takada.
Un disco come Glasstress può essere portato in giro con esibizioni dal vivo?
MC: in termini di live-set elettronico certamente si, stiamo anche ipotizzando l’inserimento di alcuni degli strumenti utilizzati nell’album, con l’ausilio di looper o altre possibilità. Anche l’idea di un dj set che prenda forma dalle suggestioni di Glasstress è nei progetti.
Continuerete a collaborare insieme? Magari avete già in mente qualcosa per il prossimo futuro.
DM: Direi proprio di sì, anzi stiamo lavorando proprio in questi giorni ad progetto speciale per il Torino Jazz Festival insieme a Emanuele Cisi e molti altri musicisti del panorama musicale italiano (Enrico Rava, Putrella, Boltro Di Castri, Ensi) in cui, esattamente come con Glasstress, usiamo i suoni della nostra città (tram, rumori di strada, stadi, fabbriche) per dare forma a qualcosa di condiviso.