Si pensi alle due sponde di un profondissimo strapiombo: una è quella del pop rock, l’altra è quella dei groove da dancefloor. È possibile, ora, pensare ad una giovane band italiana in grado di mantenersi in perfetto equilibrio sulla fune tesa tra le due sponde? La risposta è sì: l’etichetta INRI – Il Nuovo Rumore Italiano – ci presenta Hermit, un progetto elettronico a quattro teste con le radici nell’indie rock e lo sguardo alla scena club internazionale. La band esordisce oggi con il video di “Going Under” – brano che da il titolo all’EP in uscita – che diventa manifesto di un modo di far musica basato su atmosfere notturne, ritmo deciso e un cantato ozioso; per l’occasione abbiamo rivolto ai quattro ragazzi qualche domanda, per conoscerli un po’ meglio e per indagare sulle loro ispirazioni.
Il video di “Going Under”, una live studio session, è la dichiarazione pubblica del vostro approccio alla musica elettronica, che è quello strumentale. In che cosa pensate si differenzi davvero questa maniera di intendere l’elettronica rispetto alle produzioni contemporanee più comuni? Che cos’ha in più, per voi, l’elettronica “suonata” rispetto a quella totalmente “sintetica”?
Bob: Come band che ha alla spalle un passato rock, l’esecuzione live è sempre stata un aspetto fondamentale per noi. Mi ricordo l’estate scorsa, eravamo all’Home Festival a Treviso e suonava Kalkbrenner. Non riuscivo a smettere di pensare a quanto sarebbe stato figo vedere Paul accompagnato da un paio di strumentisti con synth e drum machines. E’ un pensiero molto personale, ma credo che il live sia un momento in cui lo spettatore stabilisce un contatto diretto con il performer, sopratutto quando ha la possibilità di vederlo suonare uno strumento, perché può seguirlo e farsi trasportare molto di più nello show. Forse è questo quello che rende l’elettronica davvero interessante per noi, ed è quello che stiamo cercando di fare con il progetto Hermit.
Non è difficile percepire nella vostra musica alcune suggestioni molto in voga in questo momento; penso al cantato dei Bob Moses ma anche agli arpeggi sognanti dei Chromatics, il tutto metodicamente scandito da una costruzione ritmica molto vicina a quella tipica di Kompakt. Sbaglio?
Sono tutti artisti che ascoltiamo e apprezziamo moltissimo, i Bob Moses sopratutto: hanno unito l’aspetto del songwriting di matrice blues-folk al mondo club, fantastici! Nel nostro mondo di ispirazioni però c’è anche molto altro: HVOB, Moderat, Whomadewho, Howling e Ry X, sono tutti artisti che hanno avuto lo spunto di portare nel contesto di live band le sonorità tipiche dell’elettronica.
Qual è il vostro background? Venite da percorsi simili oppure avete quattro storie molto diverse?
Il nostro background è molto complesso, ognuno di noi ha una storia diversa: Bob (voce + chitarra) ama moltissimo il rock anni ’90-2000, dai Placebo agli Smashing Pumpkins agli Strokes, Leo (octapad – batterista) è partito dai Metallica e dai Clash ed è arrivato a Stephan Bodzin, Gio (synth, ableton push) è cresciuto ascoltando Notorious, NWA, Eminem per arrivare poi a Mark Houle e tutto il mondo della techno. Pol (bass station + synth) invece è cresciuto con i Queen e adesso quando entri nella sua auto ascolti Extrawelt e Infected Mushrooms.
Continuo a pensare ai Chromatics, anche quando decidete di divertirvi stravolgendo un pezzo rock come “Lonely Boy” dei The Black Keys e facendolo completamente vostro. Come nasce l’idea di destrutturare un pezzo del genere e di dargli una nuova vita?
Abbiamo sempre amato l’esperimento “prendi una hit e stravolgila portandola nel tuo mondo”, perché come nel caso di Lonely Boy puoi arrivare a risultati decisamente inattesi: abbiamo estrapolato da un pezzo di matrice hard rock la componente malinconica e sognante nascosta al suo interno. Speriamo vi piaccia.