Mi piace considerare Speaker Cenzou, o Vincenzo, o Enzo, uno dei padri fondatori del rap e dell’hip hop italiano. Enzo ha una carriera più che ventennale che passa attraverso collaborazioni con i 99 Posse, dischi con i Sangue Mostro e un disco fondamentale per la storia del rap in Italia come “Il Bambino Cattivo”. Proprio il ventennale dell’uscita di quest’ultimo viene celebrato con un re-edit dell’album. Un’idea complessa e “folle” che Cenzou ci ha raccontato nel corso di un’intervista-fiume, passando per Napoli, “Star Wars”, il rap e come esso sia cambiato nel corso di questi tanti anni.
“Il Bambino Cattivo” ha compiuto ormai vent’anni, faccio partire l’intervista proprio da qua, con una domanda che è anche una provocazione: ti senti un sopravvissuto, un vecchio saggio, o ti senti solo vecchio?
Mi sento un vecchio sopravvissuto…
Non ti senti saggio?
Dirmelo da solo sarebbe già sintomo di poca saggezza. Penso, spero, che il mio operato dia dimostrazione di una raggiunta saggezza, piuttosto che – come spesso fanno tanti miei coetanei – auto-proclamarmi saggio o super partes rispetto a tanti aspetti, a maggior ragione se partiamo dal presupposto che mi sento un vecchio sopravvissuto. Avverto la necessità di rimettermi in gioco come fosse la prima volta: nonostante percepisca il peso di tutti questi anni, sento il bisogno e la voglia di dimostrare ancora tante cose a me stesso, più che agli altri o al rap game, o alla scena o come la vogliamo chiamare.
In che cosa ti senti sopravvissuto? Ci conosciamo da ventidue anni, in effetti, e credo che di acqua sotto i ponti ne sia passata, magari sopravvissuto non è nemmeno il termine adatto rispetto alla tua storia…
Allora, sopravvissuto/zombie mi verrebbe da dire. Sono sopravvissuto a miliardi di tendenze, di cambi di rotta, di cambi di vento e di bandiere compiuti da persone, collettività, comunità, artisti, addetti ai lavori. Mi sento sopravvissuto a una serie di tsunami culturali, mettiamola così. Mi sento zombie perché una parte di me è sicuramente morta rispetto a quel ragazzo del primo disco. Di contro, un’altra parte di me è sicuramente risorta da quelle ceneri, ma è risorta come uno zombie perché avevo solo bisogno di mangiare i cervelli delle altre persone e di nutrirmi dei loro corpi, come spirito di quella sopravvivenza di cui parlavamo prima.
Tu hai iniziato nel ’90 più o meno: quanto sei cambiato rispetto a quel periodo? Dico tu e non il rap, perché il rap nel mentre ha fatto in tempo a nascere, cambiare, morire, risorgere e morire di nuovo. Ti chiedo anche se questo cambiamento possa essere andato di pari passo con la sete di crescita che ha avuto Napoli proprio in questo arco di tempo. Io credo, e lo dico da non napoletano ma vedendo la cosa da fuori, che questo splendore culturale che ha Napoli in questo momento sia dovuto soprattutto agli anni di lotta per una controcultura che avete fatto tu, 99 Posse, Almamegretta e molti altri che magari predicavano nel vuoto…
Non so se predicassimo davvero nel vuoto, comunque c’era quel seguito culturale, di ideologia. Sono stati buttati semi in lande enormi e magari qualcuno ha preso piede, alcuni hanno creato una cultura freak musicalmente parlando, altri hanno germogliato e sono cresciuti in maniera rigogliosa. È stata sicuramente una crescita disomogenea, quella di questi semi che all’epoca furono piantati.
Semi cresciuti tra l’altro con enorme difficoltà perché un conto era piantarli nel Nord Italia o a Milano, un altro conto a Napoli. Mi capita spesso di pensare a persone come te o Esa o Bassi, persone che definisco scherzando “quelli che ci hanno sempre creduto” e che, a furia di crederci così tanto, hanno rinunciato anche a camparci, o meglio a camparci bene. Nel tuo caso credi sia stata una scelta d’orgoglio, quella di rinunciare a qualcosa per il tuo essere così integerrimo nei confronti dell’hip hop? Ci sono scelte che non rifaresti o tutto sommato è giusto così?
Questa è una bella domanda, molto vera, andiamo per gradi. Sicuramente essere, nascere, crescere in questo contesto, con meno opportunità rispetto a uno che voleva fare rap a Roma o a Milano o a Bologna, aumenta l’ingegno e ti rende più determinato, perché ti devi scontrare con una mancanza che è oggettiva, reale. A Milano c’è la grande industria discografica, a Roma c’erano vari locali, Bologna era la mecca di un certo tipo di rap. A Napoli non c’era nulla, eravamo la provincia di questo impero, se così si può definire. Io però, già da allora, sapevo che eravamo i diretti discendenti del neapolitan power. Su questo credo di aver fondato, non so se a torto o a ragione, il mio tipo di ricerca e percorso. Non so se sia stato per orgoglio che mi sono trovato a dire: “No certe cose non le faccio, non le voglio fare”. Non so se sia giusto definirlo orgoglio, non lo definirei così. Ho sempre pensato fossimo un’altra cosa e che questa unicità andasse valorizzata. Per questo motivo a questa soluzione penso che il 90% delle persone ci sia arrivata due anni fa, al massimo tre.
Anche perché probabilmente la mancanza di queste soluzioni, di facilità, ha poi obbligato a metterci il messaggio, nel senso che non potevi parlare dei vestiti o dei primi bling bling…
Perché non era la nostra cosa! Magari alcune persone potevano identificarsi nell’ostentazione del marchio, di una vita piena di comfort, donne, soldi. Non io, non noi. Questo quartiere (l’intervista è stata fatta in pieno centro storico di Napoli, in un bar di una traversa di via dei Tribunali, n.d.l.) vent’anni fa era degradato tanto quanto Scampia, alle 8 di sera c’era il coprifuoco. Ciononostante, la mia prerogativa è sempre stata quella di offrire un modello comportamentale diverso. Ho sempre pensato che fosse importante distaccarsi da un certo tipo di dinamiche, piuttosto che creare dell’ambiguità sul ruolo di persona più o meno vicina a certi ambienti. Mi sono sempre rifatto al modello culturale e comportamentale della Zulù Nation, o comunque di un determinato tipo di hip hop che nasce e cresce per togliere le persone dall’emarginazione, da certe dinamiche della strada, per trasmettere la possibilità di comunicare attraverso le proprie velleità o skills. Sono nato e cresciuto con questa idea, forse oggi è uno sbaglio perché ti prendono quasi per sfigato in un ambiente dove tutti fanno a gara a chi è più gangsta o più esibizionista.
Anche perché, per il luogo da cui vieni tu, eri davvero l’unico che il gangsta poteva farlo avendo anche una certa street credibility…
Assolutamente, ma non era la mia scelta. Anche nella mia famiglia, o nelle mie amicizie più strette, avevo attorno persone che hanno fatto questo tipo di scelta. Per me era più importante offrire un modello comportamentale differente. Sin da piccolo, ho sempre creduto che noi che abbiamo un microfono in mano abbiamo una grande responsabilità: ci sono ragazzini che ascoltano, che prendono esempio. Ce ne accorgiamo oggi quanto un certo tipo di fascinazione possa creare danni, è sulla bocca di tutti. Tornando alla bella domanda di poco fa, questo era il motivo per cui ho preferito mantenere puro il mio messaggio, che viene da una tradizione culturale e musicale di un certo tipo, che oggi anche a Napoli magari viene data per scontata, ma tu che vieni da un altro posto in questi giorni trascorsi a Napoli hai potuto vedere quanta fame e che tipo di offerta culturale questa città offre al momento.
Diventa naturale legarsi al discorso dei centri sociali. Tu a un certo punto della tua carriera hai legato molto il tuo messaggio a quello dei 99 Posse, dell’officina a Napoli, che sono stati importanti perché se è vero che il contenuto de “Il Bambino Cattivo” non era politicizzato, è anche vero che il contenuto si avvicinava – per non dire che era lo stesso – a quello che passava dai 99 Posse o comunque da quella parte lì.
Certo! Mi piaceva differenziarmi, io vivevo quelle realtà, lanciavo quel messaggio anche se non ero un centrosocialaro al 1000×1000. Comunque sono un ragazzo del quartiere San Gaetano, molto sensibile a un certo tipo di tematiche, soprattutto quelle dell’oppressione, dell’ingiustizia, che oggi ci sommergono totalmente. Vivendo tutta una serie di contraddizioni, mi è impossibile non notare certe cose e poi farle diventare parte della mia espressione.
Poi hai deciso di fermarti, di prenderti una pausa. Uno cattivo direbbe: “Ci credo che si è preso una pausa, a quel punto lì il rap non lo cagava più nessuno“. Io tendo invece a pensare che fosse una pausa quasi per dire: “Mi fa schifo quello che sto vedendo, la strada che viene intrapresa. Mi fermo e, quando avrò qualcosa da dire, lo rifarò“. Ti chiedo se l’analisi è corretta oppure no.
Corretta per tre quarti, ma il discorso principale era questo: era morto mio padre da poco, una perdita che mi aveva scioccato in modo profondo e mi aveva portato a mettere in discussione molte cose della mia vita, proprio dalla base. Avevo anche avuto una delusione cocente rispetto al fatto che Pino Daniele dovesse produrmi un album, ma la cosa naufragò e non se ne fece più nulla. Fu l’insieme di queste due enormi delusioni ad atterrarmi e farmi decidere che dovevo prendere del tempo per Enzo, fare delle valutazioni su di me, sull’universo, su quanto fossi cambiato io e quanto fosse cambiato tutto quanto intorno a me. Arrivando quindi alla tua analisi, mi sono chiesto quanto mi sentissi in grado di poter dire o fare qualcosa. Ero molto depresso, come più o meno ti ho detto prima, quello che veicolo alle persone che mi stanno a sentire rappresenta il 95% del mio scopo. Dare un messaggio triste e cupo non rispecchiava quello che volevo trasmettere alla gente. Ho dovuto ripulire il mio karma.
Quanto il rap può aiutarti a combattere una bestia strana come la depressione? Mi spiego meglio: quanto il messaggio che hai sempre veicolato agli altri può essere veicolato verso te stesso e – soprattutto – quanto può essere utile? Perché non è detto che uno che sia maestro nel dare un messaggio ad altri sia altrettanto bravo a farlo per se stesso…
Si è trattato di rieducarsi, di ricaricarsi. Ho dovuto riformattare il mio hard disk e riprogrammare il mio sistema operativo. Ho dovuto anche cullarmi nelle influenze che mi avevano formato all’inizio – Enzo Avitabile, Pino Daniele – cercando di riaccendere una scintilla che non trovavo più. Finito questo processo, ho ricominciato a fare musica più che altro strumentale, da quel momento in poi hanno cominciato a ricollegarsi tutti i puntini con gli altri. Come succede ai maestri Jedi di grande portata (Enzo è un fanatico di “Star Wars”, ndl), a una cocente delusione è seguito un periodo di esilio. È proprio alla fine di questo percorso che ho cercato di ritrovare in me una parte luminosa, attraverso J Dilla, attraverso l’incontro anzi il re-incontro con i Sangue Mostro che mi hanno detto: “Senti, forse ti sei dimenticato di come facevi rap“. Ho ricominciato piano piano a prendere contatto con quella parte di me che dopo le tragedie si era chiusa nella propria emotività. Il mio vero problema è che non so fingere, forse è anche per questo che non mi so “vendere”. Non sono mai stato in grado di fakare le cose.
(come per l’immagine di copertina, foto del bravissimo Gaetano Massa; continua sotto)
Arriviamo ai Sangue Mostro, che sono la dimostrazione per cui ti eri solo preso una pausa. Quindici anni fa si diceva: c’è il flow di Speaker Cenzou e poi ci sono gli altri. Con Sangue Mostro si è subito ripreso a dire la stessa cosa, anche se poi questa esperienza si è fermata.
Abbiamo fatto due dischi con Sangue Mostro, il secondo coincideva con i dieci anni della crew, poi i ragazzi hanno cominciato con i loro dischi da solisti. Quando ho cominciato io a pensare al mio disco da solista, ho avvisato i ragazzi che avrei potuto tranquillamente metterci tre o quattro anni. Ci siamo fatti questa promessa: terminati i nostri vari progetti, ci troveremo per fare un nuovo disco come Sangue Mostro. C’è anche da dire che Uncino è diventato il DJ di Luchè e va da sé che l’impegno sia molto diverso rispetto ad appena tre anni fa.
Luchè tu lo hai visto crescere, tanto quanto Ntò. Si può dire che sono i tuoi figliocci o è esagerato?
Non lo so, sicuramente se hai fatto il rap a Napoli dopo il 1996 ti devi confrontare con il fatto che il primo disco rap uscito a Napoli è “Il Bambino Cattivo”. Vuoi o non vuoi, purtroppo o per fortuna, questa è una cosa con cui ci si deve confrontare, c’è chi non ha problemi a relazionarsi con questa cosa, tipo Clementino che avrò sentito dire in cinquanta interviste diverse: “Ragazzi, il mio maestro di rap è Speaker Cenzou“. Si tratta di un riconoscimento che mi fa piacere, ma non sento il bisogno viscerale di avere questo tipo di legittimazione. Ricevere credito dalle nuove generazioni è ovviamente una cosa che ti inorgoglisce.
Anche perché non ricordo di averti mai sentito impelagato in qualche dissing. Hai saputo guadagnarti veramente il rispetto da parte di tutti. Credo tu possa considerati tra i padri fondatori del rap italiano.
Ci fu una mezza cosa con Othello, una roba di metà anni Novanta ma non ricordo beef nei miei riguardi. Sì, sono contento di questa cosa del rispetto, anche da parte di quelli con cui magari non ho mai collaborato tipo Bassi.
Arriviamo all’edizione dei vent’anni de “Il Bambino Cattivo”, un’edizione che ha subito un ritardo immagino dovuto anche al tuo perfezionismo.
C’è da dire una cosa rispetto al ritardo dell’uscita. Mi sono ammalato, sono stato operato e ho perso un anno sulla tabella di marcia, inoltre ho avuto grossi problemi con la vecchia label per cui doveva uscire il disco. Credo sia stato anche un vantaggio perché tutti hanno avuto la possibilità di consegnare le loro strofe, del resto se vai a vedere la lista dei guest ti accorgi che non è proprio gente che non fa un cazzo tutto il giorno. Per me mettere su una traccia Egreen e Ntò, mettere su una traccia Clementino e Rocco Hunt, è stata un’idea folle e bellissima.
Avresti potuto fare una ristampa, aggiungere dei remix, ma sei stato talmente matto da utilizzare le stesse rime di vent’anni fa cambiando però le parole. Mi racconti di questa follia?
Uno psicologo direbbe che questo è un esempio di dissociazione da tirar fuori in una terapia. Considerando che io non sono più quello di venti anni fa, ho cercato di distaccarmi dalla mia emotività rispetto a quelle canzoni e ho immaginato un disco di tributo all’artista che ero.
Fammi capire: ti sei fatto un disco di tributo da solo?
Per certi versi sì, ma più che un fatto di ego trip devi vederlo come un tributo a quei tempi, a quella vibrazione, a quella energia e spensieratezza. È un tributo a quel tempo che ovviamente non è più. Era giusto mettere delle parole nuove che suonassero adatte a questi tempi. Le metriche bene o male sono ancora giuste e ho deciso di lasciarcele e di valorizzarle con parole diverse.
Il flow suona ancora in maniera pazzesca, forse il problema è che in vent’anni è cambiato il rap. Per assurdo ti sei trovato a chiudere le rime in un periodo dove nessuno le chiude più. Come vivi il confronto con un rap così cambiato?
Nella stessa maniera in cui puoi vivere il confronto tra quello che puoi comprare all’Esselunga e quello che puoi comprare al cibo biologico o in una boutique dei sapori.
Non te la cavi così facilmente. Ti saresti mai aspettato che quello che facevi venti anni fa in una piazza a San Gaetano sarebbe diventato il rap che gira oggi? Ho letto un articolo qualche giorno fa, in cui si affermava che ormai il rap è diventato più importante del rock and roll sia nel mondo sia in Italia.
Certo! Ma siamo sicuri che quello che in questo momento è più importante del rock sia davvero rap? Questa roba non sappiamo se possiamo definirla rap, sicuramente non possiamo definirla hip hop e questo è un distinguo importante da fare. Non è Krs One o i Public Enemy o Nas, l’ultimo che riesce a fare qualcosa di giusto è Kendrick Lamar, però se ci pensi quello che sta sulla bocca di tutti non è più nemmeno Kendrick ma sono i Migos o quel genere lì. Questo distinguo se ci fai caso è ambiguo: quando sento che il rap è più importante del rock and roll, mi chiedo ma quale rap?
Di certo non parliamo dei The Roots…
Esatto, ma nemmeno di Redman o del Wu-Tang. Mi fa piacere che un sacco di gente legittimi una cosa che magari vent’anni fa, quando andavi a suonare a una jam session, veniva presa in giro e sfottuta da chi non ci era dentro. A Napoli ai tempi ti dicevano che quella non era musica dal vivo, ma “musica dal morto” perché non c’era il chitarrista con lo strumento. Mi fa piacere che questa cosa sia di moda, che ci siano i soldi, mi fa piacere che i giovani possano brillare di luce propria. Io non mi sento di essere anti-cronologico da questo punto di vista, è la musica di questa generazione, ma non riesco a credere a chi mi dice che la trap sia l’evoluzione del rap. Dove sono le barre? Dove è il flow? Dove sono le rime? Per come la vedo io, questi sono concetti imprescindibili. Ho visto recentemente un illuminante video in cui c’è Talib Kweli che risponde a delle domande e da lì ho creato un pensiero mio: quello che penso è ok, questa gente fa bella musica, ma se parliamo di rime, di rap o di flow, questa gente non mi tocca perché gli do la biada, anche tra vent’ anni, e questo lo dobbiamo sapere tutti. Possono essere di platino, multi milionari, va benissimo non c’è problema, però se parliamo di flow, o di barre, gli diamo la biada e lo dico pacificamente. Questo rap non è lo stesso sport, non è la stessa cosa che facevo io, o i Colle, o Neffa e Deda quando facevano i Sangue Misto.
Eminem con i suoi pregi e i suoi difetti nell’ultimo disco li ha bastonati parecchio…
Ecco, vedi, quando uno come Eminem torna e fa una cosa di questo genere – e sono certo che molti di loro ci avranno rosicato sopra – qualcosa vorrà pur dire. È quasi politically correct dire che quelli del periodo prima, per non dire della vecchia scuola, non vanno bene più, sono rosiconi perché ora bisogna fare largo al nuovo che avanza. Sono loro che si stanno autolegittimando di un qualcosa che non esiste. Quando parliamo di Eminem, Rap God, considera che di lui, uno come Rakim dice che ha rivoluzionato il mondo del rap, un bianco che fa rap meglio di un sacco di neri. Non lo dico io, lo dice Rakim, e forse sarebbe il caso di dar retta sia a lui sia a quello che dice Eminem.
Voi fotografavate parte di una generazione che credo sia morta il 20 luglio 2001, con Carlo Giuliani e i fatti di Genova. Tu credi che questo nuovo rap, mumble rap, soundcloud rap, sia la foto di una nuova generazione totalmente decadente e priva di interessi?
Assolutamente sì, la vacuità culturale e intellettuale è purtroppo lo specchio di questi giovani e di questa generazione, delle loro chat, del loro snapchat, dell’abuso di psicofarmaci. Sai, è una cosa che mi riempie di dolore: se penso – come ti ho detto prima – che mi sono fermato, ho smesso di fare le mie cose, pur di non dare un messaggio negativo alle persone e invece vedo il trionfo del triste, dell’abuso di Xanax pur di non pensare a niente, mi fa male, mi fa male da morire.
È una generazione che sta crescendo a Xanax e risatine anche se poi da ridere non c’è un cazzo di niente. La domanda è: tu o gente come Danno, Esa, Fritz, Tormento e tanti altri della vecchia scuola, non vi sentite in obbligo di tornare a mettere le cose in chiaro? Non per dire noi siamo i più bravi, ma più che altro per dire: “Attenzione perché qui manca il messaggio“. Moralmente, sia chiaro, non c’è nessuno che vi obbliga a farlo. Te lo chiedo perché secondo me tra dieci anni non ci troveremo a piangere solo il cadavere del povero Carlo Giuliani, ma molti, molti di più.
No, infatti ci troveremo a piangere tanti ragazzi morti nelle loro stanzette. Per me il discorso del messaggio è quotidiano. Il problema è diverso, dare questo messaggio a una generazione di trenta-quarantenni, che sono il nostro bacino di utenza, non so che tipo di utilità possa avere e quanto questa gente abbia voglia di starci a sentire. Quelli più giovani non hanno invece nessun interesse a un messaggio del genere, vogliono contenuti superficiali, leggeri.
Per questo il messaggio di Esa in cui annunciava il suo ritiro io l’ho vissuto come una sconfitta, mi sono cascate in parte le braccia. Ripeto, non c’è nessun obbligo morale, ma in questo momento in cui c’è così bisogno di una controcultura, vedere che uno che ci ha sempre creduto, fottendosene del business o dei soldi, molla il colpo, mi fa male. Secondo te ci sta che mi caschino le braccia, oppure pensi che sia una scelta anche condivisibile?
Personalmente quel video mi ha provocato un’enorme tristezza. Non entro nel merito delle scelte di una persona che prima di tutto è un fratello, dopodiché è un artista per cui ho una stima infinita. Certo, è un segnale importante rispetto al discorso che facevamo un attimo fa. Sicuramente è importante voler lanciare un certo messaggio, fare della controcultura, però non puoi ogni volta trovarti a parlare a un muro, stare da solo in una stanza. Tu puoi veicolare dei messaggi laddove c’è qualcuno che li sente. Se oggi non ci sono le persone che ti stanno a sentire, fisicamente intendo, perché magari a trenta-quarant’anni sono immersi nella propria vita e dai propri pensieri e i ragazzini vogliono solo sentire trappare, allora il problema su cui puntare i fari è: dove sono le persone a cui veicolare questo messaggio?
Però proprio in una zona come Napoli, dove i problemi ci sono, la paranza dei bambini esiste, non è pericoloso trasmettere vacuità invece che un messaggio ben preciso, visto il tessuto sociale che assorbe questo tipo di messaggio?
Purtroppo per noi, i ragazzini da sempre subiscono un certo tipo di fascinazione. Ora siamo nella posizione di dire cose a livello di ammonimento, ma più di dirlo una volta non ha tanto senso, non credo possa servire fare al lupo al lupo in una fase come questa. Credo che piuttosto che a me o a quelli della mia generazione questo sia un interrogativo che dovrebbero porsi i trap boy, quelli che sono più in connessione con i ragazzini. Forse potrebbero pensare meno al fatturato e più a qualcosa che possa rimanere nel tempo. Potrebbe essere anche una buona idea a livello economico, visto che vai a fidelizzare ragazzini che da qui a tre anni potrebbero essere morti di Xanax o di sparatorie.
Ti provoco ancora un po’: è vero che forse sei troppo grande per un certo tipo di messaggio ma non lo era anche KRS-One quando in “Soul Assassins I” va a chiudere la guerra tra East e West Coast? Perché a quel punto non è più una questione di giovane o vecchio, ma conta il messaggio che viene passato.
È vero, però io posso lanciare tutti i messaggi del mondo ma conta chi ascolta. Non posso fare come Topolino che canta le serenate a via Atri giù nel vicolo. Se ci pensi Topolino che canta le canzoni è il Facebook della vita reale: quello canta, la gente passa da sotto e ascolta. A questo punto che faccio? Prendo un megafono e dal balcone comincio a lanciare il mio messaggio? Al massimo ci guadagno un t.s.o., capisci, non si va oltre.
Nell'”Odio” di Kassovitz c’era un’immagine simile però, te la ricordi?
Me la ricordo benissimo, ma c’erano altri valori se lo fai adesso qualcuno da sotto ti urla qualcosa di brutto: xxxxxxxx (intrascrivibile n.d.l.), che cazzo stai facendo? Il problema è questo. Credimi, se potessimo ragionare come si ragionava ai tempi dell’odio lo staremmo facendo già da tre anni. Tu non hai visto “Star Wars” e non lo sai, ma noi siamo la ribellione che combatte l’impero.
C’è qualcuno a Napoli pronto a raccogliere la tua eredità o comunque la strada che avevi indicato? C’è qualcuno con cui vorresti collaborare?
Sicuramente Pepp Oh, con cui già da qualche anno stiamo collaborando e per cui sto producendo il nuovo disco che spero uscirà presto. Per ciò che riguarda invece collaborazioni future, anche nell’ottica di un eventuale nuovo disco, magari sempre su Napoli, la nuova follia, la nuova grande idea sarebbe quella di mettere insieme una serie di cose appartenenti a momenti temporali differenti. Penso a un ponte che unisca idealmente Liberato, Nu Guinea, Enzo Avitabile e Andrea Sannino.
Ultima domanda, siamo arrivati alla fine, quando ascolti le cose dei Nu Guinea o di Napoli Segreta, quando vedi le cose di Liberato, cosa provi?
Sono contento si parli di Napoli in questi termini. Sono contento dei progetti di questi ragazzi, che raccontano diverse facce di questa città. Come ti dicevo, spero di creare un ponte che le unisca tutte.