Con Alessandro Cortini ci siamo rincorsi per un po’: avremmo dovuto incontrarci di persona a Berlino, dove Alessandro si è appena trasferito dopo aver vissuto quasi venti anni a Los Angeles, e siamo finiti a chiacchierare via Skype un giorno che era a Forlì, la sua città notale, alle prese con un pranzo di famiglia. Tutto quello che c’è nel mezzo abbiamo provato a riempirlo parlando di “Avanti”, uno dei migliori album del 2017 per noi di Soundwall, di quello che è stato, di quello che sarà. Nell’attesa di vederlo fra pochissimo – il 23, 24 e 25 marzo – in Italia per due concerti speciali: quello al Monk di Roma durante il festival Manifesto (molto consigliato), il giorno dopo al Locomotiv di Bologna e infine al Circolo Magnolia di Milano.
Ciao Alessandro, finalmente ce l’abbiamo fatta! Quindi sei ufficialmente berlinese adesso?
Sì, lo sono ormai da un paio di mesi!
Los Angeles e Berlino non sono solo due città ma due modi di vivere quasi opposti. Posso chiederti perché hai deciso di cambiare?
Sì, il motivo principale è perché in questa fase della mia carriera la maggior parte dei concerti che faccio, praticamente un buon 95% della mia attività dal vivo, si svolge in Europa. Per cui dal punto di vista logistico è stata sicuramente una scelta sensata, anzi, quasi obbligata; poi devo dire che io e mia moglie negli anni ci siamo proprio innamorati di quella città e ci siamo ritrovati a frequentarla molto. Prima magari per un festival poi per concerti vari e altre cose, abbiamo cominciato a passarci diverso tempo e a un certo punto si è fatta strada in noi l’idea di provare a venire a viverci. La prova poi è diventata un vero e proprio piano: ora siamo qui, abbiamo tutto qui, la nostra casa è qui. Ci siamo dati un anno o due per vedere come va e capire se fa per noi, o se è il caso che ci spostiamo di nuovo. Non ti nascondo che avevo anche l’esigenza di riavvicinarmi all’Italia, visto che i miei familiari non sono più tanto giovani. Dal punto di vista strettamente personale, invece avevo proprio bisogno di venire in un posto in cui è possibile intrecciare delle relazioni sociali spontanee e che non nascondono secondi fini.
Cosa che immagino fosse quasi impossibile a Los Angeles, una città dove essenzialmente si va a vivere per lavorare. Giusto?
Los Angeles, essendo una città che è sviluppata in lungo e in largo e non verso l’alto come per esempio New York, già prevede che per spostarti tu sia sempre costretto a prendere la macchina e affrontare una mole di viaggio giornaliera consistente anche per fare le cose più essenziali. Mettici poi che passando tanto tempo lontano da casa per suonare, quando torno non è che sono poi così motivato a uscire per incontrare gente. E quindi alla fine ti muovi solo quando sai che è necessario e devi farlo. A Berlino invece la vita è completamente diversa: trovi tutto nel quartiere, puoi girare senza macchina, ci si sposta tranquillamente – a parte il freddo allucinante – e rappresenta meglio la dimensione di cui ho bisogno adesso che ho quarant’anni e ovviamente ho esigenze diverse rispetto a quando ne avevo venti.
E allora perché non tornare in Italia? Non ci hai pensato neanche per un minuto?
Sinceramente? No. Non ho un bel rapporto con l’Italia, non ne sono innamorato. Chiaramente ho amici e famiglia qui, però l’unica cosa che mi piace della mentalità italiana è che mi ha spinto ad andarmene da lì. Ovviamente ho la mia famiglia, come dicevo prima, gli amici, gli affetti, ma il legame che mi unisce a loro non c’entra niente con la nazionalità. Poi di sicuro ha i suoi lati belli, ma è una percentuale di mondo talmente minuscola che prima di tornarci voglio vedere come si sta in un altro paio di posti. D’altronde i miei anni in Italia me li sono già fatti – praticamente una mezza vita. Anche perché a livello professionale non avrei nessun vantaggio: non è un paese che mi ispira, non è un paese che mi permetterebbe di fare quello che voglio e anche come luogo in cui vivere per poi spostarsi per fare concerti non è comodissimo.
Molto meglio venirci solo a suonare, immagino…
Certo, infatti ora non voglio che passi l’idea che non piaccia venire a suonare in Italia. Anzi: mi ci sono sempre trovato bene da quel punto di vista. E poi ora con uno spettacolo come quello di “Avanti” noto proprio un’empatia che non riscontro altrove. Io sono nato nel ’66 e i filmini che proietto durante lo spettacolo ovviamente colpiscono in modo più potente chi è in grado di riconoscere quelle suggestioni, perché magari appartengono a una memoria collettiva, o anche certi luoghi. Non che altrove non succeda, però qui posso evitare di dover spiegare il concetto che c’è dietro quel disco e quello show, perché lo comprendono tutti immediatamente. E infatti forse al momento è il posto dove preferisco venire a suonare, anche perché a volte sono capitato pure in location che altrove non sono neanche immaginabili. Poi, vabbè, non è che normalmente mi trovo a dover fronteggiare un pubblico che si pone nei miei confronti in maniera antagonista; ma, con un progetto come questo che è molto privato, personale, e che essenzialmente ho fatto perché dovevo soddisfare un’esigenza mia, è bello percepire di essere compresi dal pubblico anche a livello emotivo e non solo musicale.
L’emotività mi sembra la parola chiave per comprendere “Avanti”, ma forse anche i lavori che lo hanno immediatamente preceduto. Sarà che con questo disco sei andato a toccare corde, quelle dell’infanzia, che sono personali ma anche universali e che si riflettono nel connubio tra musica e immagini proprio per il modo in cui arrivano a colpire l’inconscio…
Vero, e infatti quando capita che mi chiedono “Ma non ti sei scoperto un po’ troppo con questo disco? Non ti senti esposto?“, rispondo sempre che in verità mi sento compreso proprio perché so che vado a scavare in una memoria che è condivisa e che quindi da privata diventa collettiva. Il connubio tra musica e immagini è pensato proprio per evocare una certa nostalgia che non è intesa in modo negativo. “Avanti” non parla del rimpianto, ma del guardare al passato e al ricordo con affetto con però la consapevolezza di essere andati oltre, portandoci quelle memorie dietro proprio come si trasporta un bagaglio che magari non ti serve ma che ti fa stare bene, solo per il fatto che c’è, è lì.
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Parlando proprio di questo, del tuo background personale, tu se non sbaglio ti sei trasferito a Los Angeles nel 1999 proprio per studiare musica, giusto?
Sì, sono arrivato a Los Angeles, al Musician Institute, per studiare la chitarra…
I sintetizzatori quindi non facevano ancora parte della tua vita…
Ma non è che ci sia stato proprio un passaggio del tipo prima una cosa e poi l’altra. Già quando ero ancora a Forlì avevo cominciato a suonare con Franco Naddei, che è ancora attivissimo. All’epoca aveva questo progetto chiamato Autobeat dove, appunto, era andato a prendere questo giovane chitarrista (ride NdI) fissato col rock, mentre lui era molto più sull’elettronica e da lì abbiamo cominciato a scambiarci nozioni ed esperienze. Per cui quando sono andato a Los Angeles in qualche modo era già abituato a programmare e comporre principalmente al computer, usando degli strumenti virtuali che non erano certo come quelli di adesso. Tipo Unity e Retro, che erano un campionatore e un synth; poi già sapevo usare Logic che, appunto, avevo scoperto suonando con Sandro e poi facendo l’obiettore al Centro Musicale di Forlì. La vera rivelazione avvenuta a Los Angeles riguarda più quello che succedeva quando tornavo a casa piuttosto che quello che accadeva mentre ero a scuola. Perché, insomma, a scuola suonavo tutti i giorni, con i migliori insegnanti del mondo a disposizione, poi però arrivavo a casa e invece di mettermi a studiare assoli con la chitarra mi veniva sempre più spontaneo prendere una tastiera e provare a comporre, arrangiare, usare i synth, programmare le batterie… Poco dopo è successo che a scuola ho messo su un gruppo, si chiamavano Gift, e i miei insegnanti sono stati stupendi perché hanno capito che il mio interesse non era per un solo strumento ma molto più a 360 gradi. Più da songwriter che da chitarrista, ecco. Quindi hanno smesso di chiedermi di esercitarmi a fare le scale e mi hanno dato dei compiti tipo: “Prova a scrivere un ritornello in tre chiavi diverse“. Finita la scuola ho cominciato a fare audizioni in giro, poi sono tornato lì come insegnante e ho fatto quello fino a che non è arrivata l’audizione coi Nine Inch Nails che ha cambiato tutto.
Visto che hai nominato tu i Nine Inch Nails mi viene spontaneo chiedere che rapporto hanno i fan della band con la musica che proponi tu ora e che forse è molto lontana dalle loro corde. Ti vengono a vedere dal vivo? Immagino di sì…
Beh, per come li conosco io devo dire che una gran bella parte dei fan dei Nine Inch Nails ha una visione della musica molto libera e aperta e comunque sono portati ad approcciare con curiosità tutto quello che in qualche modo ritengono connesso a Trent o sotto la sua ala. Quindi sì, ci sono dei fan dei NIN che seguono la mia musica, la comprendono, e vengono molto spesso. E alla fine quello che sto facendo io adesso è sì musica sperimentale, ma sperimentale nel modo in cui lo erano anche i Beatles, cioè in maniera orecchiabile, e non come un album che ho fatto in passato con Merzbow, per esempio. Io devo dire che ho un pubblico misto: c’è gente che mi segue perché ho pubblicato per Hospital e quindi ascolta tutto quello che arriva da lì, così come dalla Important; e altri che invece arrivano dalla famiglia Nine Inch Nails. Poi, ok, magari ci sono i fan più hardcore di Trent, quelli che amano solo i primi tre dischi e vanno in giro ancora con le borchie, che non ascoltano per niente quello che faccio, ma insomma mica è obbligatorio ascoltarmi, non è che ci sto male (ride ancora, NdI).
Senti, una cosa che mi ha colpito molto e mi ha colpito anche per via di quanto se ne è parlato in giro: appena uscito “Avanti” hai messo in vendita molti degli strumenti che hai usato per fare il disco e non solo. Immagino che tu l’abbia fatto per via del trasloco che stavi per affrontare, però non riesco a non vederci una correlazione col tipo di disco che avevi appena terminato. Tipo che dopo avere indagato nella memoria si può ripartire solo facendo tabula rasa. Ma dimmi se sto dicendo una stronzata, eh!
No no. Cioè, ovviamente c’entra il trasloco, è inutile che te lo neghi: sapevo che non avrei avuto tutto lo spazio che avevo a Los Angeles e quindi portarmi tutti gli strumenti dietro era fuori discussione. Poi avevo anche bisogno di contanti, perché organizzare un trasloco da un continente all’altro ha dei costi davvero allucinanti e quei soldi mi avrebbero fatto stare tranquillo per un po’. Alla fine erano pure tutti strumenti che in qualche modo non avevo problemi a vendere perché magari sono doppioni di altri. Io poi ho questa filosofia: se non uso una cosa per una bel po’ vuol dire che me ne posso disfare. Non sono un accumulatore. È una regola che seguo in maniera religiosa: se compro una cosa e per sei mesi la tengo lì vuol dire che posso lasciarla andare senza problemi. Posso vendere tutto, tranne i Buchla, ma lì c’è prima di tutto anche una questione affettiva. Gli strumenti per me sono come giocattoli, se non c’è una connessione e non mi ci trovo preferisco lasciarli andare, non sto lì a perderci tempo. È come un noleggio per me, e mi è sempre andata bene così. Comunque quando ho deciso che avrei messo in vendita delle cose sono stato contattato da Reverb, e visto che io lì su ci ho speso miliardi di lire (ride, NdI), conoscevo benne la piattaforma e ho pensato che potesse essere il luogo giusto per i miei strumenti.
Una volta ho letto un’intervista ad Aphex Twin che raccontava che ha sempre trovato molto più divertente e stimolante costruire lo studio di registrazione per realizzare un nuovo disco che realizzare il disco. È una cosa in cui ti ritrovi?
Sono d’accordo. Anche per me è più divertente organizzare il set up che incidere un album. Che poi la cosa bella di quando fai un set up è che poi magari non lo usi, e il disco viene fuori in un altro modo. Per esempio per “Forse” è andata proprio così, avevo messo tutte le macchine in sync, preparato tutto, ma poi mi ritrovavo sempre a scrivere seduto sulla moquette, vicino al terrazzo, col Buchla. Adesso, qui a Berlino, non mi sono ancora organizzato con lo studio, non ho ancora fatto un nuovo set up. Un po’ perché fra davvero poco partirà il tour dei Nine Inch Nails e poi perché in realtà il seguito di “Avanti” è già finito: l’ho chiuso prima di partire da Los Angeles perché, appunto, sapevo che poi qui non avrei avuto tempo e per non sentirmi inutile ho sistemato tutto prima. Anche perché, come ti dicevo, fra poco partono i NIN e non uscirà finché sarò in tour.
Fino a fine anno, quindi…
Penso più all’inizio dell’anno prossimo, in realtà. Anche perché “Avanti” è uscito a ottobre e ci saranno ancora delle uscite legate a quel progetto come concept e contenuti. Per cui sì, il nuovo disco e il nuovo show arriveranno nel 2019.
Hai già il titolo?
No, non ce l’ho.
Tanto sarà una parola sola!
No, stavolta no! Stavolta sono due…
Allora non è vero che non ce l’hai! Ho capito che non me lo vuoi dire eh…
Certo, è ancora presto (scoppia di nuovo a ridere, NdI). No dai, una cosa te la dico: sarà diverso da questo, sia come tematiche che come approccio. Forse questa volta invece di usare un solo strumento come se fosse uno studio, ho provato a usare lo studio come se fosse un strumento solo. Che è una cosa nuova per me, perché è come ritrovarmi in mare aperto – mi creava proprio angoscia. Io sono sempre così: più possibilità ho e più mi sento angosciato, stacco tutto e vado a giocare con l’Amiga. Non mi va proprio di fare musica.
Credo sia comune a molti musicisti. Sono in tanti, per esempio, a dire che quando si compone è importante darsi dei limiti oltre i quali non andare e…
Io non mi do dei limiti, è ancora meglio: sono le macchine che scelgo a darmeli. Fare musica con le macchine è come giocare a scacchi: ci sono mosse che puoi fare e mosse che non puoi fare perché è la macchina che non è stata progettata per fare tutto e io mi sono sempre sentito a mio agio in un sistema del genere. Mentre con il nuovo album ho provato a fare una cosa diversa, ma senza esagerare: diciamo che se “Sonno”, “Risveglio” e “Avanti” sono dischi caratterizzati da un solo colore e dalle sfumature di quel colore, nel nuovo ci sarà una tavolozza più ampia a livello di iride. Sono molto contento di come è venuto e non vedo l’ora di farlo uscire.
Fare musica con le macchine è come giocare a scacchi: ci sono mosse che puoi fare e mosse che non puoi fare
Ultimamente si parla tanto di emotività associata alla musica elettronica. Tu cosa ne pensi? Ti senti parte di una scena o credi sia una forzatura giornalistica?
Entrambe le cose. Da una parte credo che chi ha il compito di dover raccontare la musica ha sempre bisogno di storicizzare e dare un nome a quello che accade, anche se poi magari chi la musica la fa non ci si ritrova in certe definizioni (…e potendo darebbe un braccio per beccarsene di altre, e invece niente). Dall’altra credo che ci sia sempre più gente che sta utilizzando le forme e le strutture della musica elettronica per provare a raccontare se stesso anche negli aspetti più intimi, che è quello che faccio io e non credo di essere il solo. Come avrai notato parlo spessissimo di ansia e angoscia, che sono cose che ho e con cui faccio i conti ogni giorno: e col tempo ho capito di fare musica essenzialmente perché mi fa stare bene e senza pensare a cosa penserà chi l’ascolterà. Non ti nascondo che certi dischi li ho fatti perché parte di un percorso terapeutico e personale e con l’idea che non sarebbero mai dovuti uscire. “Sonno”, per esempio, per me non era un album ma una serie di composizioni che io avevo fatto per aiutarmi a dormire. Poi è stato Dominick Fernow (cioè Prurient, Vatican Shadow, eccetera eccetera) a insistere perché venissero pubblicate, ma io proprio non riuscivo a considerarlo come un prodotto discografico perché per me, fino a quel momento, dover fare un album significava – e non lo dico nell’accezione positiva – dover affrontare un travaglio. Un disco si poteva fare solo dopo un certo tipo di lavoro, avendo un certo numero di canzoni, con una certa produzione. “Sonno” invece mi ha dimostrato una cosa: se faccio musica per me stesso, poi finisco per entrare in connessione con un un numero maggiore di persone proprio perché è palese l’onestà e la sincerità che c’è dietro. Ho capito di essere fortunato perché facendo le cose per me riesco a comunicare con gli altri; non tanti eh, ma comunque abbastanza per farmi capire che ho un privilegio. Alla fine si dice che per comunicare si è costretti a seguire delle regole che sono state scritte un sacco di tempo fa, quelle della forma canzone strofa-ritornello-strofa-bridge-ritornello, regole che non è che sono sbagliate – io stesso le uso e a maggio uscirà un altro mio disco di canzoni a nome SONOIO – ma al momento mi sento più a mio agio con la musica strumentale e credo che faccia più per me.
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Quindi basta? A maggio esce SONOIO e poi per il futuro solo Alessandro Cortini e Nine Inch Nails?
Ma no, secondo me ci saranno sempre altri progetti, nuovi nomi e nuove collaborazioni. Che è una cosa che mi piace fare, anche se poi non succede tanto spesso. Quindi già solo quest’anno uscirà un nuovo lavoro con Lawrence English, che è una mia vecchia conoscenza e poi ancora con Daniel Avery. Il mio obiettivo è che al nome Alessandro Cortini venga sempre associata musica che faccio perché mi serve a stare bene, e quella è la linea che voglio continuare a seguire. SONOIO per certi versi è stato un passaggio naturale che mi ha portato poi a realizzare i dischi a mio nome. Anche se poi sono molto molto diversi.
Forse a legarli sono le modalità casalinghe con cui li hai concepiti…
Senza dubbio, ma d’altronde io non sono proprio un tipo da studio professionale. Magari per il missaggio, quello sì, però ho sempre preferito costruirmi il mio studio dentro casa, in campagna o in situazioni del genere. Lo studio vero e proprio mi capita più di usarlo per altre cose che faccio per lavoro nel mondo della pubblicità, ma non è mai stato per me il luogo dell’ispirazione. D’altronde come fai a rilassarti in un posto dove ogni ora ti costa un puttanaio di soldi? Poi adesso con tutti gli strumenti portatili che ci sono, tipo i Roland vecchi a batteria, puoi fare musica ovunque vuoi, come al parco, o in aereo: e la felicità che mi dà lavorare con uno strumento analogico, in cuffia, magari all’aperto, è davvero unica. E comunque, tornando al discorso di prima, io credo di sentirmi più a mio agio con la musica strumentale perché quando metti un testo su un pezzo è come se gli applicassi sopra una data, un argomento, una chiave di lettura obbligata, mentre fuori da certe gabbie è possibile trasmettere le emozioni lasciando però libera l’interpretazione del pubblico, quindi ognuno può farsi il proprio viaggio e non è neanche costretto all’ascolto attivo. Quando qualcuno mi dice che usa la mia musica come sottofondo in viaggio o mentre fa un lavoro ripetitivo, io davvero divento la persona più contenta del mondo perché mi sento parte delle loro vite”.
Musica strumentale vuol dire, in alcuni casi, anche musica da club. È una cosa che ti piace, ti ci ritrovi?
Io non sono proprio un tipo da club, ma mi piace che la mia musica abbia un ritmo e mi è capitato di fare progetti che poi potevano venire catalogati come techno. Diciamo che mi piace farla, ma non è un ambiente che frequento. Io sono uno che quando mi dicono che devo suonare dopo mezzanotte mi ammazzerei, per cui figurati…
Però in certi contesti a suonare ci sei finito!
Eh ma nei festival dove chiamano me di solito le situazioni sono separate. Come l’Atonal, per esempio. Di quello che succede al Tresor, la parte “club” del festival, non so praticamente niente, non mi interessa. Io non so ballare, non ho mai ballato, non posseggo un gran ritmo. Ma mi piace un casino fare cose che potrebbero far ballare gli altri.
Ti posso chiedere cosa stai ascoltando ultimamente? Beatles a parte, ovviamente,
Non ascolto tanta musica nuova, sarà che sto diventando vecchio. Mi piace molto Caterina Barbieri, che è di Bologna come me, e in generale credo che ci siano un sacco di donne che nelle musica elettronica stanno facendo delle cose egregie come Laurel Halo, Grouper, Holly Herndon, Sarah Davachi… ma ce ne sono davvero tante altre.
Io non so ballare, non ho mai ballato, non posseggo un gran ritmo. Ma mi piace un casino fare cose che potrebbero far ballare gli altri
Kaitlyn Aurelia Smith ti piace? La ascolti?
Sì, ho ascoltato la sua musica, è sicuramente molto interessante e lei è capace, ma non fa per me. C’è troppa roba lì dentro e a me la musica con troppa roba fa venire l’ansia.
E niente, mi sa che hai capito che l’ansia mi viene molto spesso (ride, NdI), però davvero quando sento dischi come i suoi è come se mi ritrovassi in una cucina gigante, piena di cibo, ad assaggiare cose che hanno talmente tante spezie che mentre la assapori pensi “Che buono questo sapore“, ma un minuto dopo te lo sei dimenticato perché è arrivato un altro sapore ancora più forte di quello prima. E poi dopo mezz’ora hai ancora fame. Forse ha anche un po’ a che fare col modo in cui la musica viene fruita ora, dove ti devi giocare tutto subito perché poi non ti torneranno più ad ascoltare. Io però sono ancora legato ai tempi in cui compravi un LP e te lo ascoltavi per tutta l’estate, e voglio che la mia musica venga ricordata allo stesso modo. Che entri nella testa di chi la ascolta. Forse è per questo che prendo una melodia e la ripeto fino a che non spacco il cazzo. Comunque, ci sono anche un sacco di maschietti che fanno cose egregie, ma loro sono di certo più esposti e non hanno bisogno delle mie parole. Invece non vedo l’ora di partire per il tour e suonare in alcuni festival con i Sunn o))) che non vedo da un sacco di tempo ed è sempre piacevole passare del tempo con loro”.
Quindi ti piace andare in tour?
Sì, mi piace. Poi quando sono in giro per suonare la mia musica è tutto molto rilassante, vedo le città. Adesso poi che sto a Berlino posso suonare la sera da qualche parte in Europa e essere comunque a casa per pranzo, che insomma per me è una grande conquista. I Nine Inch Nails, invece, è come se fossero la mia famiglia: quindi è sempre un piacere imbarcami in un tour con loro, anche se è molto diverso e potrebbe sembrare più stressante, ma lì basta riuscire a darsi un equilibrio e non viversela come un lavoro. Io so che suonare con Trent tutte le sere significa dover seguire delle regole specifiche, ma alla fine siamo talmente tanto tutti coinvolti nel processo creativo degli show, e ci conosciamo talmente da tanto, che in realtà per me è solo un piacere ritrovarsi ogni volta. E ok, è richiesta della professionalità, ci sono dei sacrifici da fare; ma non è un lavoro. Lavoro per me è quando torni a casa la sera, sfranto, dopo che per tutta una giornata hai fatto una cosa che sei obbligato a fare anche se ti fa cagare, quello che faccio io non è un lavoro. Io in quella situazione non mi ci sono mai ritrovato. E continuo a fare sempre e solo quello che mi piace.