Peggy Gou è un virus. Virale è stata la sua “Nanana” (esiste storia di Instagram o di TikTok in cui non sia finita?). Virale è la sua figura, che ormai è diventata quella che rappresenta il concetto e l’icona di dj nel 2023 (donna, cinica, sorridente, attenta alla moda, perfetta sui social, paracula col pubblico ma spietata nel business). Virale è il modo in cui cattura l’attenzione del pubblico più distratto e generalista, quello che l’elettronica la segue non più di tanto ma che se sente nominare “Peggy Gou” s’illumina e sente odor di festa. Insomma sì, Peggy Gou è un virus, ormai quasi un’entità ontologica e fastidiosamente madonnapellegrina; ma è anche un’artista che comunque il suo background ce l’ha non nel pop e nel mainstream, no, ma nella nicchia della club culture di un certo tipo: quella più ricercata e non quella meramente commerciale. Gli inizi sono stati lì, sempre attenta a fare la cosa giusta al momento giusto con le persone giuste. E di conseguenza, una gavetta comunque l’ha fatta: non è stata paracadutata dall’alto, ma è passata attraverso vari step di crescita.
È proprio grazie a questo che ci sono alcuni eventi che, come debito di riconoscenza e per rapporti ed affinità pregresse, oggi se la possono permettere anche se non se la potrebbero permettere, ottenendo cachet “di favore”. I festivaloni e gli sceicchi paghino, ma per qualcuno ci si può mettere una mano sulla coscienza. E meno male. Quando è nato Spring Attitude, chi avrebbe mai pensato che avrebbe portato in line up un artista capace di far vendere 10.000 biglietti, che in realtà ci fosse stato lo spazio potevano probabilmente pure essere molti di più?
Già sembrava un risultato incredibile e meraviglioso quando qualche anno fa lo Spazio Novecento scoppiava con 3.000 persone contando su ospiti di qualità immensa (ad esempio un Jon Hopkins in rampa di lancio, citandone uno per tutti): un miracolo per un festival nato come coraggioso spin off di una serata, L-Ektrica, un “Proviamo a vedere l’effetto che fa” in una città mai semplice come Roma. Roma che aveva cresciuto, nutrito e al tempo stesso divorato la sua creatura più bella, visionaria e coraggiosa nel campo, Dissonanze.
Un miracolo arrivare oggi a certe cifre ma, nel concreto, anche qualcosa di molto ingombrante e difficile da gestire. Spring Attitude l’ha gestita piuttosto bene, questa nuova dimensione: file sì ma mai eccessive, nessun problema particolare all’ingresso, nessun collo di bottiglia per quanto riguarda gli spostamenti del pubblico. Fidatevi: mica facile. Vuol dire che è stato fatto un lavoro di preproduzione a regola d’arte.
La soluzione principale e decisiva? “Copiare” il Primavera Sound, naturalmente con le debite proporzioni. Il doppio main stage, coi due palchi uno fianco all’altro, è infatti una soluzione tipo Uovo di Colombo: semplice, efficacissima, quasi da farti dire “Ma perché non ci abbiamo pensato prima”. In questo modo infatti si gestiscono perfettamente i cambi palco senza problemi di pause e si fa anche che ogni singolo palco abbia, per certi versi, una capienza “doppia” davanti a sé; quando proprio la gente è tantissimissima, vista la larghezza frontale del tutto, alla fine l’area è grande e ci stanno tutti, vedono più o meno tutti.
Il problema però è che il Primavera addotta questa situazione avendo comunque decine di altri luoghi di attenzione e palchi e zone che vanno avanti a getto continuo, anche durante i concerti nell’area main; Spring Attitude, no. A Spring i palchi erano solo due. Il risultato è che dalle 16 del pomeriggio fino alle 3 di notte la tua attenzione è, per quanto riguarda la musica, fatalmente direzionata verso un solo punto, si tratta giusto di vedere di volta in volta se guardare più a sinistra o più destra, ma sempre lì guardi, sempre da lì arrivano le cose.
Il tutto è un po’ statico. Soprattutto considerando che Spring Attitude è sempre stato un festival dinamico: con palchi diversi per dimensioni e/o per posizione. Una dinamicità logistica che si sposava perfettamente con la dinamicità “mentale” che da sempre caratterizza il festival romano: unico e molto personale nel combinare con gusto e competenza elettronica, indie rock, sperimentazione, funk.
Vale anche per la line up di quest’anno. Eccome. Molto indie rock (Verdena, Lucio Corsi, Tutti Fenomeni); parecchio trasversale per quanto riguarda la musica black (dal blues urticante dei Bud Spencer Blues Explosion fino al jazz-funk degli Studio Murena, passando per striature di elegantissimo hip hop come nel caso di Ele A o di jazz radioheadiano con la parecchio brava Maria Chiara Argirò); ottimo in quanto a talent scouting (ci sono ad esempio piaciuti Archivio Futuro ed Anna Carol). Ma pure l’elettronica ovviamente c’era, mica è scomparsa, ed anzi alla fin fine gli slot principali sono sempre i suoi: Acid Arab, Christian Loffler, la già citata Peggy, i Moderat di cui ora parleremo, ma bene anche HVOB e benissimo Meg, che sì, fa un set elettronico per quanto in parte björkiano e pop-cantautorale).
Quindi ecco: SA non ha assolutamente smarrito la sua anima.
Il problema è che in questo momento Peggy Gou è troppo più grande e più mainstream di tutti: per contenere lei, si è dovuto fare affidamento su un’area complessiva che è risultata troppo grande perfino per i Moderat, nonostante i loro 6000 e passa spettatori (stima ad occhio). Figuriamoci per tutti gli altri.
Per tutti i nomi citati finora, e pure per quelli non citati: sembrava si suonasse di fronte a poca gente. Quando invece per i Verdena di spettatori ce n’erano non meno di 3000, che sono tanti. Per Lucio Corsi un po’ meno, ma chissà se ha suonato mai di fronte a così tante persone. A scendere, tutti gli altri. Questo un po’ ha azzoppato l’atmosfera. Così come stonava che la musica venisse fuori da tutto l’impianto, anche nella parte in cui c’era il palco “spento”; poi ad area strapiena, per la dj coreana ma anche per i Moderat, capivi che era assolutamente necessario tutto questo dispiegamento di torri audio (anzi alla fine Spring Attitude 2023 per i nomi suddetti ha fornito una delle migliori diffusioni acustiche mai sentite in Italia: chapeau). Ma per tutti gli altri, vedevi un palco pieno o semipieno e, accanto, un palco con davanti il vuoto, ma che dalle torri audio sparava volume massimo. Straniante.
Era possibile fare altrimenti? Chissà. Mettere i due palchi uno di fronte all’altro avrebbe comportato difficoltà tecniche e logistiche non da poco. Scelta insomma probabilmente obbligata, a seguire il buon senso e il rapporto costi/benefici. L’alternativa per il futuro potrebbe essere immaginarsi un gruppo di artisti “grossi” su un palco principale, e due/tre isole sparse nell’area di Cinecittà ad offrire dj set e live set minori. Chiaro: in questa maniera sarebbero meno i live a tutto tondo e più le cose da console, e va detto che proprio la ricchezza e la robustezza della componente live è stata un gran bel sapore di questa edizione 2023. Davvero è il caso di rinunciarci? Insomma, la coperta è sempre un po’ corta.
D’altro canto la possibilità di avere Peggy Gou ad un prezzo umano è qualcosa di duro a cui rinunciare: la sua presenza a queste condizioni ti mette a posto tutti i conti, ti dà abbastanza cibo finanziario per guardare con più serenità sia al presente che al futuro. E poi oh: alla gente piace. Arriva in massa, paga il biglietto contenta di farlo, balla, gioisce. Il problema è che davvero la sua presenza è stata ingombrante rispetto a tutto il resto.
La dimensione perfetta la si è avuta invece con gli headliner della seconda giornata, i Moderat, che dal canto loro hanno fatto un lavoro enorme nel migliorare il live set legato al loro ultimo solidissimo album “More D4ta”. Visti l’anno scorso più volte, avevamo trovato un concerto un po’ slabbrato ed incerto sia come musica che come visual: delusione. Visto ora nel 2023, abbiamo ritrovato invece una delle band più emozionanti e meravigliose in assoluto nella dimensione live: visual con lo stesso impianto concettuale ma rilavorati e rifiniti, parte musicale più compatta, “intelligente” e lavorata, togliendo un sacco di pause inutili e passaggi un po’ affloscianti. In una parola: bellissimo.
Non ha assolutamente stonato che prima di loro ci fossero proprio due cose che sulla carta non c’entrano, ovvero Corsi e Tutti Fenomeni; Loffler infatti è stato un collante perfetto, introducendo la parte elettronica danceflooriana della serata in modo appropriato, calibrato, affascinante. I Moderat erano un culmine del tutto, di un tutto “in trasformazione”, non un asteroide fuori scala piovuto sulla serata (Chloe Caillet e soprattutto Acid Arab hanno fatto il loro prima della Gou, ma comunque percepivi in qualche maniera che erano vassalli che dovevano scaldare la pista prima della Regina: e questo va contro lo spirito dinamico+egualitario+curioso di Spring Attitude).
Non è certo colpa della Gou se lei è famosa e desideratissima: lei fa il suo, ed evidentemente funziona. È in realtà il pubblico che dovrebbe imparare ad essere meno monoteista, che dovrebbe imparare che ad un festival ci vai per sentire soprattutto quello che non conosci, non quello che conosci già (Studio Murena ed Ele A avrebbero meritato il decuplo delle persone che avevano davanti, chi li ha visti esibirsi lo sa). È vero che sono sempre gli headliner quelli che vendono i biglietti, ma stiamo attenti a non arrenderci definitivamente a questo luogo comune, evitiamo come pubblico di curiosi ed appassionati di rendere ineluttabile questa deriva. Spring Attitude dal conto proprio continua a mettere delle line up fresche, intelligenti, con un mix ben riuscito e che è suo e solo suo; e sta riuscendo nell’impresa meravigliosa di dare a Roma il festival che la bellezza e l’importanza della città merita, attirando sempre un pubblico educato e bello da vedere e da “vivere”. Non è poco. Anzi: è tantissimo.
Però ecco, proprio nell’edizione più partecipata di sempre e quella tecnicamente e produttivamente più solida, abbiamo sentito ogni tanto perdersi l’anima, il senso della comunità e del movimento, dell’”appartenenza di stile”. Ci piacerebbe ritrovarli. Senza però perdere la costante crescita e la consacrazione a livello di numeri e peso sul mercato, sulla società e sull’immaginario delle persone anche più “distratte” rispetto alla musica, che in questo 2023 abbiamo respirato a pieni polmoni e che ha dato l’idea di un festival che è uscito dall’adolescenza ed è pronto a giocare sul tavolo degli adulti. Con carte solide in mano.