Seguiamo da sempre lo Spring Attitude, da prima che fosse organizzato come un vero e proprio festival – è solo dal 2013 che è “orgogliosamente festival”, naturale evoluzione dei cicli di serate primaverili targate L-Ektrica – e quindi sentiamo di poterci sbilanciare nel definire la tre giorni di quest’anno come un segno di maturità che arriva forte e chiaro, come il sole (primaverile).
Difatti, crediamo che mai come quest’anno lo Spring Attitude Festival abbia puntato sulla fiducia che il pubblico ha nei suoi confronti, sul rispetto della critica maturato sul campo, sul marchio “SA” che trasmette alla platea buone vibrazioni e fa scattare l’attesa per quell’ultimo fine settimana di maggio in cui il MAXXI e l’Ex Caserma Guido Reni ospitano i suoni contemporanei (non solo) elettronici scelti con cura dagli organizzatori.
Si capiva già leggendo i nomi in calendario che quella di quest’anno sarebbe stata un’edizione non convenzionale, con ancora più consapevolezza di sé nel proporre una visione di modernità musicale diversa e senza compromessi, senza i soliti nomi che troviamo ad esibirsi un po’ ovunque e che – diciamolo espressamente – iniziano a rendere l’orizzonte festivaliero abbastanza monocorde. Perché sì, c’erano Nathan Fake, Jon Hopkins, Powell e Yussef Kamaal a rassicurare certo pubblico “presenzialista”, ma a nostro avviso la vera differenza l’hanno fatta artisti come Jenny Hval, Radian, Grischa Lichtenberger, Chassol e Romare, ovvero nomi buonissimi ma non scontati, di quelli che girano poco nei festival europei e ancora meno in quelli italiani.
Ma partiamo con ordine. Il giovedì arriviamo al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, una cornice splendida, che ogni anno rende onore ad un evento culturale come il festival in questione. Siamo lì giusto in tempo per assistere all’esibizione di Jenny Hval, giovane musicista norvegese che porta con sé un tormento interiore tale da trasformare la propria musica in una seduta collettiva di psicanalisi: tra neo-trip-hop ed avanguardia rumorista il suo sarà uno dei set più intensi del festival. Mentre sul palco giunge Max Cooper, ci spostiamo nella saletta-teatro dove si stanno già esibendo gli austriaci Radian. La loro musica supera le aspettative: non è rock, non è elettronica, non è jazz, eppure suonano esattamente come una band di improvvisazione totale su questi tre paradigmi sonori. La band dà il cambio al tedesco Grischa Lichtenberger, pupillo di casa Raster-Noton – per chi scrive uno di quelli che meglio sta portando avanti le istanze dell’etichetta, assieme a Kyoka. Il suo set è potente e ipnotico, un suono multiforme tra abstract, ambient e industrial che viene accompagnato da video minimali che sembrano usciti da un vecchio Commodore 64. Quando torniamo nell’ambiente principale siamo lieti di trovare già in azione il dj tedesco Moscoman, che ci fa ballare a dovere fino al termine della serata con la sua disco-house tribale.
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Il venerdì sera ci accoglie il rock psichedelico dei SUUNS all’Ex Caserma Guido Reni. La band canadese è in gran forma e il flusso sonoro generato dagli strumenti e dalle macchine è incessante, come se stessero eseguendo un singolo brano, che vira da atmosfere drone/kraute all’art-rock, senza soluzione di continuità. E’ passata da un po’ la mezzanotte ed è la volta di Nathan Fake, per un set incentrato soprattutto sul suo ultimo lavoro “Providence”. I video alle sue spalle prendono spunto proprio dalla grafica del disco più recente, combinando assieme varie forme geometriche grezze dai colori pastello, mentre la musica è sempre impeccabile; ecco, forse troppo, avremmo preferito qualche sbavatura in più anziché un’esibizione così controllata/addomesticata. Prende il suo posto Jon Hopkins, che ci mette la grinta che cercavamo prima, per un dj-set energico di quasi due ore; i momenti migliori sono quelli tratti dall’accoppiata di album imprescindibili “Insides” e “Immunity”. Peccato per l’assenza improvvisa di Forest Sword a causa di un lutto, con le sue vibrazioni la giornata sarebbe stata perfetta. Ci accontentiamo – si fa per dire – della chiusura di Powell. L’inglese, co-fondatore dell’etichetta “Diagonal”, esegue dal vivo il suo ultimo disco “Sport”, rendendolo ancora più urticante: techno, EBM e industrial frullati assieme in un set rumorosissimo che lascia di stucco la platea.
E’ già sabato e decidiamo di saltare l’appuntamento pomeridiano ad ingresso gratuito, per arrivare in forma alla lunga serata conclusiva. Chassol anticipa l’apertura a causa dello slittamento dell’esibizione di Elephantides e mostra un talento incredibile: interagisce con i suoni/rumori dei video proiettati alle sue spalle, che diventano parte integrante dell’esibizione, che profuma di jazz e ha i contorni di una colonna sonora electro-pop: ammaliante. E’ il turno di Yussef Kamaal e per i noti motivi che vi abbiamo già raccontato sale sul palco il solo Yussef Dayes, che prende posto dietro la batteria. Ad accompagnarlo, ci sono due sodali: uno al basso/chitarra e l’altro alle tastiere. Il loro suono è magnetico e si spinge oltre ciò che è stato registrato nell’ottimo album di debutto “Black Focus”; sarà un’esibizione free-form tutta sudore ed espressioni concitate di fatica/estasi. Tocca a Romare salire sul palco e lo fa con la sua band, lui è al centro, piegato sulle macchine, mentre ai lati si piazzano due musicisti che si alternano alle percussioni, ai fiati e alle corde. Lo show è il giusto compromesso tra ritmi per ballare e atmosfera, ma abbiamo la sensazione che tutto termini troppo presto, in appena cinquanta minuti. Probabilmente non ne sarebbero bastati nemmeno il doppio: il talento dell’inglese è cristallino. Decidiamo di goderci un po’ il distretto Guido Reni uscendo all’aria aperta, prima di immergerci nuovamente nella musica: prima quella di Sailor & I – non male, insolitamente robusto rispetto a quello che ci si poteva aspettare – e poi quella della cricca “GQOM” – si esibisce il patron dell’etichetta Nan Kolè assieme ai Mafia Boyz in un dj set tutto orientato al grime più rigoroso. Il gran finale spetta a Clap! Clap! e Cristiano Crisci porta lo Spring Attitude in Africa. Con la sua band – due percussionisti che in molti casi doppiano l’incedere della cassa elettronica – fa scatenare il pubblico in una danza che arriva fino alle prime luci dell’alba.
Anatomia di una maturità, dicevamo nel titolo, ed è bello pensare che lo Spring Attitude Festival 2017 potrebbe essere stato diverso, ma ugualmente stimolante, per una persona che avesse scelto di assistere ad altre esibizioni, non citate in questo report; è il caso dei cosiddetti sbagli di percorso o set inaspettati, quando ci si ritrova sotto al palco di un artista che nella nostra mappa mentale non aveva la priorità e che invece ci tiene lì, sotto il palco, a scoprire musica nuova.
Al prossimo anno, caro Spring Attitude. Continua così.
(foto di Giovanni De Angelis)