E’ mancato il fuoco d’artificio finale, forse. E’ mancato lo Spazio Novecento pieno fino all’orlo, con le luci dell’alba che filtrano in sala e Apparat a chiudere in modo trionfale l’edizione 2015, tra felicità e commozione collettiva. Ed è mancato un po’, sempre allo Spazio Novecento, anche il pienone continuo (e, all’epoca, sorprendente) per gran parte della serata garantito in primis da Four Tet e Jon Hopkins. Quindi ecco, non è stata magari quella del 2016 la “rassegna del punto esclamativo”; è stata però di sicuro quella dell’ulteriore slancio verso il festival dal respiro europeo che il suo direttore artistico Andrea Esu ha in testa e insegue sin dalle prime edizioni. Nulla da invidiare agli entusiastici clamori del passato, in ogni caso: delle decine e decine di eventi a cui c’è capitato di partecipare nel corso della nostra vita pochi, anzi, pochissimi possono vantarsi di aver regalato al proprio pubblico degli show tanto efficaci e d’impatto; esibizioni in grado di ribaltare letteralmente le più rosee previsioni e surclassare le più ottimistiche premesse, oltre a mettere d’accordo per l’ennesima volta sia gli amanti della musica dal vivo che i ballerini più insaziabili, due etnie che ormai si sovrappongono sempre più spesso ma che a lungo tempo si sono guardate quasi in cagnesco e non hanno mai coltivato orticelli in comune. Questo meglio non dimenticarselo. E sarà bene non dimenticarsi il lavoro fondamentale che ha svolto Spring Attitude per pensionare definitivamente questo steccato. Lavoro, dicevamo, ottimo anche quest’anno.
Riflettori puntati prima di tutti sugli Air: sono stati fighi, eccome se lo sono stati, ma fra gli highlight di questa edizione, o comunque fra i momenti più “significativi”, ci piace mettere dentro prima di tutto altre cose. Quindi non ce ne voglia la loro musica, il loro blasone e la loro immensa storia (rispettati a dovere da un concerto in cui sono stati un po’ ingessati all’inizio e si sono via via sciolti, fino a una fenomenale “Femme D’Argent” finale, non gliel’abbiamo mai sentita suonare così bene dal vivo), ma se dovessimo scegliere una decina di istantanee da custodire gelosamente nel nostro personalissimo album dei ricordi, beh, probabilmente punteremmo su quelle scattate agli israeliani Red Axes, che col loro suono semplice ma mai scontato sembrano davvero ben avviati lungo la strada del successo, oppure a Krystal Klear, a Young Marco e a MA Spaventi, che con la loro musica hanno fatto vibrare il Rizla Stage sotto il caldo sole di Roma. Menzione d’obbligo anche per gli italiani Cosmo, Clap! Clap! e Go Dugong, che coi loro rispettivi show hanno fornito l’ennesima prova di quanto i protagonisti della scena italiana abbiano tutte le credenziali per fare la voce grossa in cartellone (Clap! Clap! ha suonato di fronte a un main stage pieno zeppo, Cosmo ha dato vita ad uno dei concerti più infuocati dell’anno), grazie a un prodotto di livello e a una presenza scenica invidiabilissima, e per i live di Dorian Concept, Pantha Du Prince e Jessy Lanza, in grado di emozionare, prima ancora che divertire, il pubblico dell’Ex Caserma Guido Reni tra la notte del venerdì e il pomeriggio del sabato. Se a tutto questo aggiungiamo un Hunee in grado di spaziare con gusto, coerenza e naturalezza tra “Let’s Make It Up” e “Higer State Of Consciousness” in soli novanta minuti, capite bene che il peso specifico della proposta artistica, sulla carta già alta, ha raggiunto livelli in grado di soddisfare anche il pubblico più esigente e ottenere un plebiscito di consensi, mettendo in campo delle vere e proprie sorprese e rivelazioni: l’elenco che vi abbiamo fatto per quanto riguarda gli stranieri non è composto dai “soliti” nomi, per quanto riguarda gli italiani difficilmente li si vede con questa rilevanza in line up, spesso e volentieri sono giusto il riempitivo ad inizio giornata, quando in giro ci sono ancora quelli della security che si stanno organizzando e ai bar i baristi si stanno ancora concedendo il cicchetto pre-lavoro.
Altra instantenee musicali, megari meno luminose delle precedenti ma comunque significative: nella prima giornata la “baracconata” invero molto gustosa e divertente degli Acid Arab (come Omar Souleyman, ma cinque volte meglio e con molta più competenza “elettronica”), il live nuovo buono anche se ancora non perfetto di Gold Panda, i visuals davvero fighissimi approntati da :absent. (se un live comunque solido anche musicalmente), il monumentale per atmosfere live a/v di Giorgio Gigli tratto dal suo album (immagini molto suggestive, virate però ogni tanto su colorazioni e saturazioni un po’ eccessive), l’ambient pervasiva ed avvolgente di Rafael Anton Irisarri – tutte cose che hanno contribuito a rendere buona una giornata partita malissimo, con un acquazzone furibondo, che ha in (minima!) parte penalizzato le presenze e ha (leggermente) raffreddato l’atmosfera complessiva della serata, visto che anche al momento del mapping sulle superfici del MAXXI molto ben fatto la pioggia ha ripreso a farsi sentire. Del venerdì si è in pratica già parlato diffusamente, per quanto riguarda il sabato prima di tutto citazione d’onore per Iosonouncane, finalmente in formazione band dal vivo e non più solo lui col laptop, autore di un concerto molto potente, molto suggestivo, molto ben costruito.
Degli Air abbiamo già parlato, Herbert ha fatto il suo (facendo il suo tipico dj set, forse pure troppo, tra pezzi suoi e pezzi che quando fa da dj non manca mai di mettere – diciamo che non c’è stata nessuna evoluzione, anche se il tutto resta gustosissimo), al Rizla Stage giù dabbasso è stato notevolissimo il footwork “multicolore” di Dj Paypal (altra scelta molto illuminata e non scontata di Spring Attitude!), è stato ok ma non eccezionale il live di Matilde Davoli (molto neworderiana in alcuni passaggi), un po’ deludente il back to back tra Max Graef e Glenn Astro – ma più che altro perché ci aspettavamo le scintille, invece abbiamo avuto un set buono e niente di più.
Ma sarebbe un errore considerare Spring Attitude un semplice “contenitore musicale”: se c’è una cosa che abbiamo imparato nel corso delle edizioni della quattro-giorni romana, maturandone la convinzione anno dopo anno, è che il festival può e deve rappresentare il punto di svolta cruciale per il clubbing di casa nostra, mettendone in mostra le attitudini più nobili e “sane” e dando il giusto risalto a quelli che non possono non essere considerati i suoi valori aggiunti, quelli che abbiamo noi e solo noi. Tra questi ci sono le meravigliose location, da sempre un punto forte di Spring Attitude, che quest’anno hanno visto l’Ex Caserma Guido Reni sostituirsi al Macro di Testaccio con inaspettati effetti benefici per la rassegna, soprattutto per quanto riguarda la serata di venerdì; e c’è una caratteristica veramente significativa del festival romano, presente da sempre, ovvero un pubblico educato ed estremamente sorridente, smentendo così qualsiasi stereotipo sull’impossibilità di far conciliare civiltà e musica elettronica dalle nostre parti.
“Cazzo, ma allora è stata una figata quasi tutto e non ci sono state vere pecche”, direte voi. Nì, perché qualcosa è comunque mancato: come già detto un anno fa la notte a Spazio Novecento vide Apparat chiudere di fronte a un pubblico in estasi, con il salone ancora gremito dalla consolle fino in fondo, mentre questa edizione è stata caratterizzata da un finale un po’ troppo scarico (nonostante Not Waving non sia andato troppo per il sottile a partire dalle quattro di mattina: un vero attacco sonico, il suo). Il perché? Probabilmente per la natura “poco festaiola” del pubblico dell’headliner di quest’anno, gli Air, che ha fatto sì che il locale si riempisse prestissimo – basti pensare che l’act di apertura, appunto Iosonouncane, si è esibito a pista pressoché imballata – salvo poi vederlo dirigersi in alta percentuale verso l’uscita troppo presto, poco dopo la fine del concerto. Va comunque dato atto che, tenuto conto di tutto, si è trattata di un’inerzia che non ha intaccato minimamente il flow musicale o l’empatia instauratasi tra tutti gli artisti che si sono esibiti dopo il duo francese e il pubblico: chi c’era con Herbert dava proprio l’aria di divertirsi, chi si sottoponeva ai bombardamenti acidi e percussivi di Not Waving era proprio contento di farlo.
Tutto questo non fa che alimentare la consapevolezza che sì, anche da noi possono esistere dei festival ambiziosi e ricchi di contenuti, realtà che non hanno nulla da invidiare a quanto abbiamo avuto modo di ammirare (e invidiare) all’estero nel recente passato. Per questo Spring Attitute, al pari di roBOt, Club To Club, Siren, Ypsig e Dancity, andrebbe preservato e supportato in quanto bene comune ed esempio di intraprendenza e spirito di iniziativa: se la scena italiana vuole davvero conquistare il ruolo che merita grazie allo spessore dei suoi artisti, alla bellezza delle sue venue e al calore del pubblico, allora deve cominciare a credere in se stessa e a fare squadra. Per davvero.