Parto da due presupposti: uno. Io sono tra quelli che Squarepusher l’hanno infamato molto. Ho iniziato a storcere il naso su “d’Demonstrator” e ancora di più su “Ufabulum”. Con tutte le attenuanti possibili sono andato avanti, ma sull’ascolto di “Music for Robots” non mi sono dato nessuna scusante e ho caricato il mio giudizio in modo netto: un disco definitivamente brutto.
L’ultimo “Damogen Furies” è come se, in qualche modo, raddrizzasse le cose, ma non ancora al livello di ciò che gli ha permesso di entrare nell’Olimpo. Mi riferisco a roba come “Do you know Squarepusher?” e tutte le prime cose datate anni ‘90, compreso il meraviglioso progetto sotto il moniker di “Chaos A.D.”. Questo è il mio pensiero rispetto all’artista, se dobbiamo isolare “Damogen Furies”, la cosa cambia: è indubbiamente un disco bello. Molto bello. Un lavoro che abbandona le pippe mentali che avevano contraddistinto le ultime produzioni di Jenkinson, per dedicarsi a qualcosa di più concreto, in qualche modo diretto.
Due. Riguardo al suo attuale live: molti ascoltatori, fan, giornalisti ed esperti, si sono detti dubbiosi. Insomma, ho percepito forse più giudizi critici che positivi. Più pregiudizi che giudizi.
Poi l’ho ascoltato al Berghain.
L’evento è andato sold out quasi immediatamente, l’aspettativa era altissima, la mia soprattutto, perché Squarepusher è uno dei motivi che mi hanno spinto ad innamorarmi della musica elettronica e, trasversalmente, lavorare anche attraverso e grazie ad essa.
Comprendo il motivo del tutto esaurito nel momento in cui metto piede al Berghain, il palco è stato spostato e montato verso il centro del dancefloor, mangiandosi letteralmente una decina di metri di sala. Due consolle unite, due computer, schermi ad angolo di 60°. Un basso a sei corde.
Prima di lui suona Rob Clouth, sistemato in “piccionaia”, nella zona solitamente presidiata dal tecnico luci, ovvero in cima alle scale che conducono al Panorama Bar, chiuso per l’occasione.
Rob Clouth suona bene e dispiega la giusta atmosfera, quantomeno quella presupposta. Perché io non ho idee di come sarà il live di Squarepusher. Ok forse ce l’ho, ma ho anche timore. Perché Squarepusher è imprevedibile.
Poi comincia il concerto, Thomas Jenkinson è vestito di scuro, indossa quella che sembra una maschera da scherma leggermente rielaborata, un cappuccio.
Dal primo all’ultimo minuto di live, per il sottoscritto, è stata pura gioia. Sono scappati i timori, i dubbi, le paranoie della settimana, la stanchezza, ogni altro rumore che non fosse emesso dalle Funktion-one del Berghain.
E’ rimasta l’atmosfera e quella la fanno essenzialmente tre cose: l’artista, la location, la gente.
Provo ad articolare: diciamo subito che, sicuramente, il Berghain è un luogo che esteticamente parlando, soprattutto con certe sonorità, ha poco da invidiare. Diciamo che si presta bene, ecco. Diciamo anche che il pubblico, composto ma non noioso, ha fatto la sua parte. Diciamo che l’impianto di diffusione e le visual, non prepotenti ma autoritarie, hanno aiutato molto. Diciamole tutte queste cose, poi arriva l’artista e, in questo caso specifico, divengono secondarie. Abbiamo davanti un maestro. Non possiedo altri termini per definirlo.
Quello che penso mentre lo ascolto è che quel signore dal volto celato sta insegnando qualcosa, a chi ascolta e a chi suona.
E’ un live, quello della presentazione di “Damogen Furies”, in un crescendo vorticoso, non impiega che una ventina di minuti massimo per raggiungere l’intensità ritmica perfetta che poi manterrà fino alla fine. Quasi alla fine. Scorrono le tracce, una dietro l’altra e scivolano alle sue spalle, lampi di visual. Immagini glitchate e da videogame vintage – una piacevole particolarità: ad ogni fine-traccia, la parte visuale stacca con una breve pausa di screenshot estrapolati da patch di Max/MSP.
Lui non è più lo Squarepusher concettuale/intellettuale di un tempo e anche l’ultimo disco ne è la dimostrazione, si è spostato ormai inevitabilmente verso un angolo ben più ampio. C’è un però: ascoltando con attenzione – nemmeno molta – e ancora di più seguendo il live, si può chiaramente notare come il suo genio, perché di questo stiamo parlando, del genio, riesca ad innalzarlo a lavori quasi impossibili, passaggi compositivi al limite dell’umano, in cui ci si ritrova a domandarsi, ancora una volta: ma come cazzo fa?
E’ chiaro che, un live riuscito così bene è figlio di un album altrettanto bello. Difatti, le tracce sono suonate in modo quasi identico dallo studio alla performance.
Dentro c’è tutto; c’è la drum n bass, c’è l’IDM (Do you know intelligent Dance Music?), ma c’è anche l’electro, soprattutto l’electro, quella più complessa e “rivoluzionaria”. Ci sono passaggi jungle e virtuosismi – immancabili – jazz. Sento, annusso, percepisco addirittura, suoni balearici e trance.
E’ un lavoro meticoloso sui synth e sulla complessità delle trame ritmiche, un ritorno alle origini più crude, ma con meno filosofia e più foga.
E non ho ancora parlato di quel basso a sei corde rimasto al suo fianco per tutto il live senza mai essere sfiorato.
Squarepusher termina, saluta tutti, grandi ovazioni, ancora l’adrenalina nelle gambe, luci sul palco. Poi torna senza maschera. Ed imbraccia il basso.
Alcuni dei feedback che mi sono arrivati dagli amici e dagli utenti che hanno visto questo stesso live in altre parti del mondo, si riferiscono proprio al finale, al “bis”, considerato troppo pretenzioso ed evitabile.
la paura della rottura di coglioni l’ho avuta anch’io, per ventidue secondi, ovvero il tempo in cui ha accordato, ha ammiccato al pubblico e poi ha appoggiato quelle sue dita magiche sulle corde. Se qualcuno mi chiedesse che tipo di emozione ho provato in quel momento, credo che non riuscirei a descrivergliela, quantomeno non in due parole. In quell’ultimo quarto d’ora di evitabile non c’è niente. C’è un uomo che suona il basso come pochi altri in questo mondo affollato, con una cura che rasenta la tenerezza tratta ogni suono come un oggetto prezioso, inestimabile. Noi ce lo prendiamo tutto, immobili, ad occhi chiusi, mangiando ogni istante che ci divide da una nota ad un suono ad un loro simile, con la voracità di chi non ne sarà mai sazio.
Questo è stato, per chi scrive, il live di Squarepusher al Berghain, in una sera fresca di un maggio bizzarro a Berlino.
Probabilmente potrei, forse dovrei, concludere con due parole sul perché, a mio parere, c’è così tanta discordanza di pareri su questo live. Sicuramente lo farò con una banalità, ma tanto vera in questo caso: ogni concerto è un concerto a sé, anche se è lo stesso artista e lo stesso tour, perché le variabili sono talmente tante e diverse che è quasi inutile farne un fascio.
A maggior ragione se stiamo parlando di genialità.
Mattia Grigolo
Ha iniziato a scrivere quando viveva quattro metri sotto il livello della strada, in uno scantinato di Milano. Ora sopravvive a Berlino e scrive ancora, di musica e di gente che vive quattro metri al di là di ogni cosa, utilizzando un nome di donna come pseudonimo. Ha lavorato per dieci anni nella discografia italiana ed è fondatore e trainer de Le Balene Possono Volare, laboratori creativi nella capitale tedesca. Sogna di finire i suoi giorni in in un bosco a tagliare la legna, ma ancora è presto.
Share This
Next Article