La comunicazione è precaria, il vivavoce da Londra un po’ si sente un po’ no; ma questo non impedisce che con Squarepusher salti fuori una intervista stupenda, intensissima, come potete leggere subito qua sotto. Sarà il fatto che già guadagnammo di persona la sua fiducia, qualche anno fa in un composto pub dietro Liverpool Street a Londra, per parlare del disco del 2012, “Ufabulum”; sarà il fatto che Tom Jenkinson è una persona che mette una concentrazione feroce in qualsiasi cosa faccia, scomponendo qualsiasi frase o situazione sotto un approccio gelidamente analitico (ma spesso, come leggerete, caldamente umano ed autocritico). Sia come sia, questa è una intervista di quelle rare: davvero potente nel rendere le misure di un uomo che ha disegnato e sta disegnando traiettorie davvero potenti e ancora oggi molto personali, nel campo delle faccende di elettronica. Uno dei grandi degli ultimi vent’anni.
Guarda, te lo dichiaro subito, anche se magari non è la mossa più astuta o più professionale da parte mia: trovo che “Damogen Furies” sia con ogni probabilità il disco migliore tu abbia mai fatto. Posto che il mio giudizio conta per quel che conta, quello che ti chiedo è se mentre lo facevi avevi l’impressione che sì, ti stava venendo fuori qualcosa di valido…
Una cosa è certa: appena un mio disco è fatto e finito, nel momento in cui lo riascolto ho la ferma convinzione che sia di gran lunga il mio lavoro peggiore. Avverto in modo chiarissimo tutti gli errori, tutti i problemi.
Beh, allegria.
C’è un lato positivo in tutto ciò: è questo malcontento a spingermi a lavorare al disco successivo.
Cosa c’è che non va in “Damogen Furies” allora, e soprattutto cosa c’era che non andava nel lavoro precedente, in “Ufabulum”?
Di “Ufabulum” non mi piace il lavoro eccessivo, ossessivo nel rifinire i particolari. E’ iper-prodotto, perché spunto dalla voglia di una cura perfetta della qualità. Ecco che quindi al momento di approcciarmi alla lavorazione di “Damogen Furies” avevo un obiettivo: dare vita a qualcosa di meno preciso, meno controllato… per certi versi anche meno professionale, ecco. Qualcosa insomma che avesse un senso di abbandono, di “vada come vada”.
Un minimo ti conosco, e mi sa che non è stato facile per te. Giusto?
E’ stato difficilissimo. Questo è il punto. Perché questa maniacalità è un problema contro cui combatto da anni. E’ nella mia natura, essere meticoloso: ma inevitabilmente se vuoi perseguire la perfezione e la cura di ogni particolare in quello che fai finisci col perdere spontaneità e, di conseguenza, anche entusiasmo ed energia al momento della scrittura. La grande sfida di “Damogen Furies” è stata tentare di mantenere un decente livello di cura del dettaglio senza però togliere alla musica l’attitudine ad essere aggressiva, a sfidare letteralmente l’ascoltatore.
La mia impressione, ascoltando l’album, è che era un pezzo che non ti divertivi così…
(ride, NdI) Quando si crea della musica, si ha sempre a che fare con un range piuttosto vasto di sensazioni interiori. Una di queste è il divertimento – non ci fosse, probabilmente non sarei ancora adesso un musicista. Alla base di tutto quello che creo c’è sempre un senso di divertimento: ma non è scontato che esso appaia nel risultato finale. Io mi diverto, sì, ma che si diverta anche l’ascoltatore, beh, questa è un’altra domanda.
Alcune scelte melodiche sono proprio “aperte”, “felici” quasi. Fanno pensare quasi a certo happy hardcore primi anni ’90.
“Felicità”… Se la musica appare “felice” all’ascoltatore, non significa che che qui questa musica l’ha creata sia per forza felice. Forse invece vuole solo ricreare artificiosamente il senso di “felicità”? E’ un’opzione. Che magari percorri perché vuoi bilanciare una momentanea mancanza di felicità nella tua vita.
Che poi appunto, prima accennavo al revival di certo “hardcore continuum” primi anni ’90: quando ci incontrammo a Londra l’altra volta, per l’uscita di “Ufabulum”, il fatto che tornasse così pesantamente di moda – anche e soprattutto tra artisti ed ascoltatori di nuova generazione – non era lontanamente immaginabile.
Vero.
Certi anni ’90 sono tornati di moda.
Sì.
Come mai?
Devi dirmelo tu. Io in quell’era ci sono nato artisticamente, l’ho vissuta in modo intenso, e vederla rivivere così – per quanto sotto forma di revival – è bizzarro ed affascinante. Ma, ecco, non è un mio problema il perché questo stia accadendo. Io non sono preoccupato del passato, o del suo ritorno: io sono preoccupato esclusivamente del futuro. Mmmh, mi rendo conto che questa può sembrare una frase un po’ “facile”, tanto per fare colpo, e chiaramente la cose non stanno in modo così netto – così come non nascondo di lanciare spesso dei riferimenti e cose e periodi passati, nella mia musica; ma ti posso assicurare che la mia priorità sostanziale resta sempre e comunque esplorare, in musica, possibilità che non sono ancora state esplorate. Credo che non esista al mondo, o quasi, una composizione che si possa dire completamente “originale”; ma il senso del muovere verso idee apparentemente inesplorate o comunque poco esplorate è un qualcosa di reale, qualcosa che si può individuare e riscontrare, e di sicuro è ciò che ancora oggi mi fa andare avanti nella mia attività di musicista. Non trovo nessun godimento particolare nel tirare fuori il passato: soprattutto se diventa il modo per enfatizzare l’attenzione attorno a quello che fai. D’altro canto, nella musica ci sono momenti che vanno e vengono, ma perché per forza devono scomparire? Perché certe idee, certe soluzioni e certe attitudini un periodo vanno bene, poi no, poi di nuovo sì? A me pare che tutto questo prefiguri un approccio ipercapitalista alla musica: prima una cosa va benissimo, poi no, poi dopo un po’ può essere recuperata ammantata di una nuova patina di valore e desiderabilità… Tutto questo discorso mi fa pensare alla musica folk: curioso che lei sia in qualche modo eterna, portata avanti da generazione a generazione. Perché non dovrebbe accadere lo stesso con l’elettronica? Perché? Onestamente, non trovo una risposta. Ma tornando al mio personalissimo ed egoistico punto di vita, queste discussioni sul ritorno o non ritorno del passato non mi toccano: il mio focus principale è fare cose nuove. E’ evidente che questa mia scelta non è dettata dal desiderio di fare più denaro, di massimizzare il riscontro attorno a quello che faccio. Anzi, spesso è vero il contrario. Ma va benissimo così. Agisco nel modo in cui agisco perché trovo sia il modo più saggio di impiegare il tempo a mia disposizione. Non trovo peraltro molto interessante, come attività, il mettersi a rimpiangere il passato.
C’è un eccesso di retromania, oggi? Avrai presente tutto il dibattito che si è scatenato negli ultimi tempi sulla faccenda, il libro di Simon Reynolds, eccetera eccetera…
Non ho tempo per mettermi a leggere cosa scrive e cosa dice la gente attorno alla musica. Ma credimi, ti prego: non è arroganza – è proprio non aver tempo. Perché di tempo già non ne ho abbastanza per fare io tutto quello che vorrei fare, come artista… lo sviluppo della mia musica, la conoscenza dei nuovi mezzi tecnologici che mi permettono di svilupparla… figuriamoci se lo utilizzo per altro. Ma anche se ne avessi, onestamente credo che non ci darei troppo peso: i trend vanno e vengono, è sotto gli occhi di tutti, e se veramente come mi dici c’è una grande “retromania” in giro, beh, trovo la cosa triste. Questo è quello che ti potrei dire. Magari quando sentirò di aver esaurito le mie idee attorno alla musica mi dedicherò meglio ad affrontare tutto ciò che è il ragionamento critico su di essa; ma ora proprio non posso. Davvero, non per arroganza. Io vedo la mia vita come una banda temporale limitata: devo fare le cose che ritengo più pertinenti, ritengo di avere ancora molto da esprimere ed esplorare, ci sono molte cose ancora che devo tirare fuori da me stesso e, vista la limitatezza della banda temporale, è a questo che devo e voglio dare assoluta priorità. Tuttavia, non voglio lasciarti senza una risposta…
Vai.
Un tempo c’era molta più fiducia nel futuro. Oggi invece, nel futuro, la gente ha smesso di crederci: crisi, disastri, cambiamenti ambientali potenzialmente drammatici. Il futuro come posto dove immaginarsi il meglio, il progresso, l’avanzamento dell’umanità, è un posto che non esiste più. Oggi il futuro pare evocare solo immagini potenzialmente negative: qualsiasi cosa cioè sia legata al termine di estinzione, crisi, apocalisse, termine. Ecco che quindi in tutto questo la “retromania” può diventare una specie di coperta di Linus: vediamo ora le cose del passate come positive, come cioè belle e rassicuranti. Ma è una sonora illusione, sono balle: io negli anni ’80 ci sono cresciuto e, anche a livello globale, lo ricordo come un periodo di terrore ed angoscia – la Guerra Fredda, la minaccia nucleare, la possibilità di saltare tutti quanti per aria. In generale, sono convinto che non sia mai esistita un’epoca realmente felice e realmente tranquilla. Mai.
Sei cresciuto negli anni ’80, sei diventato famoso negli anni ’90: epoche in Inghilterra contrassegnate prima dalla Thatcher e poi da Blair. Ognuno dei due, a suo modo, molto improntato allo spaccio di ottimismo e fiducia verso il futuro.
Beh, io ottimista non lo sono mai stato. La mia musica è nutrita da un persistente senso di ansia e pessimismo. Da un lato magari è sì la mia immaginazione ad immaginare pericoli là dove non ce ne sono, dall’altro invece c’è una cosa che è concreta e tangibile e in nessun modo ingigantita dalla mia immaginazione: avere a disposizione solo un determinato lasso di tempo per fare tutto quello che vorrei fare. Questo è quello che è, e questo mi rende continuamente teso, per nulla rilassato.
Suona un po’ maniacale. Non stacchi mai?
Non ne sono capace. E non è questione di essere pessimisti o di dubitare delle proprie capacità: è che voglio fare quello che ho in mente di fare e questo, credimi, è tanto. Certo, in tutto ciò sarò anche influenzato dal contesto culturale, chi lo nega: perché il nostro è un contesto culturale in cui vantarsi, tirarsela, far vedere di far “tanto” è diventato normale, anzi, socialmente accettato e addirittura incoraggiato. Guarda Facebook: la stragrande maggioranza delle conversazioni nasce dalla volontà di vantarsi di qualcosa che si è fatto o di una propria opinione. Però mentre mio fratello (Andy Jenkinson, alias Ceephax Acid Crew, NdI) ama esporsi al confronto, io invece non sento l’esigenza di convincere nessuno su quanto sono bravo, geniale, talentuoso: penso solo al mio lavoro. Senza contare che, estremizzando il concetto, ho troppo rispetto per la gente per pensare di imporre loro cosa devono pensare di me e di quello che faccio. Insomma, non cerco attenzioni. Per me è merda inutile. Immagino che questo sia un atteggiamento ormai fuorimoda, tuttavia continuo a non vedere in quale modo il fatto di essere attivo sui media, sui social, coi fan o con gli addetti ai lavori possa far crescere la qualità della mia musica, facendo alzare il livello delle mie creazioni. Che sarebbe l’unica cosa che conta.
Tanto per peggiorare le cose, tu per giunta sei uno che non collabora mai, o quasi mai, con nessuno.
Vero. La spiegazione forse sta nel fatto che io tendo a quantificare le mie abilità secondo una scala di parametri che è molto personale, che utilizza criteri radicalmente diversi rispetto a quelli che sono di solito usati in un contesto di gruppo. Magari, non so, fossi più in contatto con altri musicisti le cose cambierebbero… E’ che mi sembra proprio ci sia questa incompatibilità di criteri, ecco. Cosa ci posso fare? Cerco di lavorare nel modo che mi sembra, che sembra a me!, più sensato ed efficace. Stop. Senza contare che se lavorassi con altra gente forse, paradossalmente, diventerei più incline a farmi guidare dall’ego: perché sarebbe un modo per affermare la propria personalità e i propri spazi all’interno del gruppo. Potrebbe essere peggio, insomma.
Questo mi fa dire: se tu non fossi diventato un musicista, cosa saresti diventato?
(ride, NdI) La mia materia preferita a scuola era scienze. Credo, ancora oggi, che il mondo delle scienze sia per me molto più significativo ed adatto rispetto al mondo dell’arte. Io non mi sento un artista. Mi sento invece uno che investiga le cose. Il modo in cui creo musica magari non è propriamente scientifico, c’è in ogni caso della creatività dentro e non è che mi metto lì a fare esperimenti empirici di laboratorio, ma credo abbia molto in comune in ogni caso con l’investigazione scientifica – una investigazione applicata per una volta alla musica e all’arte più che agli oggetti ed ai fenomeni. Il modo in cui sono interessato ad imparare e progredire nasce sempre attraverso una spinta all’indagine, più che alla creatività pura. Chiaramente ho ben presente il fatto che ciò che produco non è né scientifico né oggettivo, non è misurabile secondo parametri univoci e non può essere messo alla prova né dimostrato. Però ecco, mi diverto molto a fare come faccio, mi piace. Ma per rispondere alla tua domanda: sì, non fossi diventato un musicista magari ora sarei uno scienziato.
E per uno “scienziato” come te deve essere abbastanza seccante avere a che fare col “contorno” dell’essere musicista: penso alle interviste, alla promozione attorno alle nuove uscite…
Dopo tutti questi anni ho imparato a scendere a patti e a trovare un modo accettabile per farlo. Per anni ho evitato di sottopormici: mi sembra che nulla di quello che potessi fare o dire in sede promozionale potesse aggiungere alcunché né al mondo, né a me stesso. Recentemente mi sono trovato a cambiare opinione, prima di tutto perché a me piace molto parlare con la gente. Ci provo, insomma. Il problema è che spesso i giornalisti non dimostrano di avere la voglia di entrare in sintonia con l’intervistato: pensano più a quello che vorrebbero dire loro piuttosto che a quello che sta dicendo la persona che stanno intervistando. Tuttavia esistono anche altre facce della medaglia: succede spesso che ti vengano fatte domande che non sono mai state fatte prima e che ti spingono a riflettere su aspetti di te e della tua musica su cui tu non hai mai riflettuto. Questa è una esperienza molto arricchente. Comunque sì, se mi parli della trafila più becera legata alla promozione, quella sì, quella può essere davvero deprimente… Il problema è che l’industria ti dà dei mezzi, ti dà delle comodità, ti mette nelle condizioni di sviluppare quello che hai in testa; ma il punto è che contestualmente ti chiede di diventare anche un “brand”, il “brand” di te stesso. Il dato di fatto è che in quest’ultimo processo tu ti abitui a vedere prima quello che fai e poi te stesso come un oggetto: e questo non va bene per un essere umano, è qualcosa che ti frigge il cervello e l’entusiasmo nei confronti della vita. Diventi parte di “pacchetto”, cosa oggi ancora più triste vista la tendenza a non lavorare più sul lungo termine. Non c’è più un lavoro di “sviluppo dell’artista”, infatti: e “sviluppo” per me significa non solo dargli i mezzi per andare avanti, ma anche stargli vicino umanamente. Perché sai, noi che creiamo musica – esattamente come tutti gli altri esseri umani – siamo volubili, cambiamo idea, abbiamo dubbi, problemi. Non è una cosa che si può escludere o ignorare, anche se ormai si tende a farlo. Io sto disperatamente tentando di fare tutto quello che faccio come musicista in un modo che, prima di tutto, sia umanamente salubre. Guardando nel mio back catalogue, ci sono uscite che sembrano inutili o incoerenti: in realtà sono tutte perfettamente coerenti, perché rappresentano quello che volevo fare in quel preciso momento, anche quando qualcuna di queste cose poteva essere nociva per il “brand” Squarepusher. La domanda è: è possibile oggi, nell’arte, esistere senza essere un “brand”? La risposta è: probabilmente no. Anche perché la gente ormai non solo è condizionata a vedere gli artisti come oggetti, appunto come marchi di se stessi – ci è proprio abituata. Io non dico di sfuggire completamente a questo meccanismo; ma almeno ci provo. Tento di restare umano.