Qualche giorno fa, per un evento realizzato dalla rete di festival Solido (bellissima cosa, questa: tre festival – Acieloaperto, Arti Vive, Ferrara Sotto Le Stelle – che si mettono in rete e condividono eventi, pratiche e conoscenze), siamo stati in un posto assolutamente clamoroso. Clamoroso per gli standard italiani, ovviamente, ma in generale proprio notevole, anche ad avere degli standard scandinavi o centroeuropei: Habitat. Si tratta di un centro polivalente costruito a Soliera (abitanti: 15.000 e poco più), dove si è costituito un corto circuito virtuoso tra Comune, fondazioni bancarie, associazioni locali – a partire da quella che organizza il festival Arti Vive, guardate qua che gusto e qualità, ma non solo loro – e si è dato vita ad uno spazio architettonicamente di pregio che è sala concerti, club, sala prove, uffici per incontri, bar, ristorazione, tutto questo insieme. Una specie di “cittadella della musica” in grado di fare da base e da attrattore per tutte le forze musicali del comprensorio.
Per arrivare a tanto, chi opera sul territorio ha dovuto organizzarsi. Non è stata una regalia caduta dall’alto a qualche figlioccio più fortunato e col papà banchiere, è stato l’approdo di un percorso che non sarebbe mai arrivato al traguardo – e, anzi, non avrebbe forse proprio avuto senso – se non avesse avuto la capacità di coinvolgere persone e realtà in maniera trasversale e transgenerazionale. Dalla banda di paese alle sperimentazioni estreme industrial-noise, con tutto quello che ci sta in mezzo. La prima cosa che abbiamo pensato, vedendo il posto, è stata: wow. Davvero, wow. La seconda, invece: “Dovrebbe esserci uno spazio così in ogni città italiana”.
Cos’è di preciso, che dovrebbe esserci? Dovrebbe esserci in ogni città italiana (e in quelle grosse, uno per ogni macroquartiere) un posto dove grazie alla musica – che resta un grandissimo collante sociale da un lato, ed una delle più immediate forme di arte e comunicazione dall’altro – le persone imparano ad esprimersi, ma anche a parlarsi, a organizzarsi, a prendersi la responsabilità di gestire un bene comune, ad avere un palco dove far vedere ciò che si è, ciò che si impara, ciò che fa sognare, ciò che fa divertire. Un posto dove la politica entri in campo solo per consegnare le chiavi all’apertura e fare da garante nei rapporti fra associazioni, oltre magari a dare un minimo di supporto finanziario (…ma sappiamo quanto i Comuni siano, finanziariamente, alla canna del gas, anche per precise scelte governative a livello centrale).
Perché il punto è: vogliamo davvero lasciare tutto in mano ai privati? Farlo sarebbe tra l’altro un ricatto verso i privati stessi: loro, in quanto tali, in quanto privati, hanno il diritto e il dovere di pensare al profitto prima di tutto, o comunque considerando molto rilevante per la propria esistenza questo fattore. Il benessere di una società si misura però solo ed unicamente da quanto fattura e crea gettito fiscale? O da quanto invece è inclusiva e coinvolgente, da quanto fa sentire felici e “ascoltati” i propri cittadini, da quanto permette alle persone di sentirsi soddisfatte e di poter uscire dalla routine casa-lavoro sentendosi vive?
Tutta una serie di domande che, guarda un po’, ci si dimentica sempre di porsi quanto ci sono gli attacchi rabbiosi ai centri sociali (nel titolo, abbiamo infatti rovesciato ironicamente una invettiva diventata virale contro i fascisti). Perché i centri sociali occupano ciò che non è loro, esercitano senza pagare le tasse, aprono senza rispettare le norme di sicurezza, fanno esibire senza versare i contributi agli artisti, danno da lavorare pagando i lavoratori in nero e non regolarizzando niente e nessuno. Ciò che fa più indignare molte persone addette al settore è: “Fanno quello che facciamo noi ma senza rispettare le leggi, e senza sostenere le spese necessarie per rispettare le leggi”. Allo stesso modo, anche l’uomo della strada con un certo orientamento esclama deciso “Stronzi, criminali, fanno concorrenza sleale, fanno il cazzo che gli pare, delinquono e ci guadagnano pure sopra”. Una critica di stampo prima di tutto economico. Anzi: di stampo meramente economico, in ultima analisi.
Non abbiamo nulla contro l’economia di impresa che entra nell’industria culturale e dell’intrattenimento. Nulla.
Anzi, sapete che c’è? Ci piace. Ci piace parecchio. Crea concorrenza. Spinge a migliorare. Crea anche crescita, posti di lavoro, in modo endogeno. È abituata a camminare con le proprie gambe, non ad aspettare che piovano dall’alto solite e solide prebende apparecchiate da questo o quell’altro santo in paradiso. Ma nel dire tutto questo, sosteniamo con forza che dovrebbero sempre e comunque esserci degli sfoghi dove ciò che è arte “sociale” ed aggregante – in primis musica, quindi – possa operare e svilupparsi in tranquillità anche senza essere guidati dall’obiettivo primario del lucro. L’arte ha (anche) tempi diversi rispetto alla finanza ed all’economia di mercato: tempi diversi, ed obiettivi diversi. Per un ecosistema socio-cultural-antropologico sano, c’è insomma assolutamente bisogno di avere spazi dove arte e creatività sono nel sistema del profitto puro o semi-puro, ci mancherebbe, ma c’è anche bisogno al tempo stesso di spazi dove invece si sia in parte o del tutto slegati da questo sistema e si abbia la facoltà di vivere, respirare ed interrogarsi su se stessi in libertà, senza obblighi, senza legami – se non quelli delle comunità che determinati suoni o determinate forme d’arte creano in modo naturale e spontaneo.
L’abbiamo messa già difficile e verbosa? La riassumiamo in modo semplice e sloganistico: cazzo, va bene tutto e va bene l’industria così come l’impresa, va benissimo, per carità; ma ci vogliono anche luoghi di libertà, totale o parziale, rispetto a tutto ciò, rispetto all’industria, rispetto all’impresa, rispetto al produrre finanziariamente sancito. Accidenti se ci vogliono.
Non capirlo è stupido, ed è stupido in primis da parte di chi ha scelto di lavorare nell’arte stando nel campo proprio dell’impresa: perché sono esattamente i luoghi di libertà (quelli spontanei, sotterranei, fuori da ogni logica commerciale…) a creare più e meglio di altri i nuovi linguaggi e codici d’espressione, i linguaggi e codici che diventeranno in un secondo momento sfruttabilissimi dall’industria e dal mercato. Il proprietario del club che si scaglia contro i centri sociali e i rave ignora che proprio centri sociali e rave hanno contribuito più di altri a rendere forte ed affascinante quella cultura del ballo-in-quattro-quarti su cui il club in questione sta oggi lucrando, e su cui oggi mantiene la sua operatività (…e il guadagno di proprietari, soci e dipendenti).
Abbiamo e avremo sempre bisogno di “laboratori” di idee che possano operare in santa pace mettendo al primo posto l’espressione, non il quadrare i conti. Sempre. Anzi: più ne abbiamo, più in futuro potremo avere una industria della musica e dello spettacolo in grado di dar da mangiare e stare bene ai professionisti del settore. Già: avere questi “laboratori” a-economici è un buon investimento (anche) per l’economia e la produttività.
Questo in Italia lo si è sempre capito abbastanza poco. E se la voglia di esprimersi liberamente oggi si gioca soprattutto nella rete e nel farsi le cose in casa grazie allo sviluppo di internet, negli anni ’90 la drammatica mancanza di contesti “al riparo” dal mercato dove creare cultura nuova, ascolti nuovi, pubblici nuovi e contemporaneamente capacità di socializzazione (oppure la sana voglia di averne di più, di tutto questo), ha creato il fenomeno dei circoli ARCI e dei i centri sociali. I primi permettevano di stare nella legalità ed avere un mare di agevolazioni fiscali, che ti permettevano di rischiare un po’ di più nella programmazione, di sperimentare, di innovare; i secondi erano e sono illegali e non pagano nulla in tasse.
Ma se anche le pagassero, le tasse, i centri sociali, dove andrebbero a finire questi soldi? Ce lo siamo mai chiesti davvero?
Sono mai esistiti dei programmi istituzionali convincenti per promuovere nuova cultura, nuovi suoni, nuovi codici, nuove forme di aggregazione in musica? Sì, ne sono esistiti e ne esistono, sia onore a loro!, ma sono una goccia nel mare. E il mare è rappresentato dalle macro-scelte che continuano a privilegiare le musiche cosiddette “adulte” (classica, jazz, opera), lì dove invece gusti ed aspirazioni di chi ha diciotto, venti, venticinque, trent’anni sono semplicemente assenti da ogni mappa a livello di politiche culturali. “Che se la cavino da soli”, tipo. “Sono giovani. Manco votano, ormai, e manco ci ascoltano: pensano solo ai cazzi loro. Sì, se la cavino da soli”.
E allora, se bisogna “cavarsela da soli”, ma meno male che sono esistiti ed esistono tuttora i centri sociali, con tutti i loro difetti, tutto il loro essere politicamente schierati. Meno male che ci sono stati loro, negli anni ’90: sì, perché ad esempio è grazie a loro – e non certo grazie alle istituzioni o alle impolverate e provinciali dinamiche dei centri di potere cultural-imprenditoriale – che si sono diffusi nel nostro paese musiche e codici nuovi come techno, house, hip hop, drum’n’bass, trip hop, ma anche nuove forme di teatro, di cinema, di letteratura, tutte cose che hanno reso la nostra società più avanzata, più interessante, più desiderabile, più sincronizzata con l’Europa migliore. E si sono diffusi in maniera pura: con movimenti guidati cioè da appassionati. E non dalle major dell’industria dello spettacolo, che devono rendere conto del loro operato nelle trimestrali.
La differenza si vede. Ci lamentiamo tutti tanto di quanto sia “decerebrata” la trap, ma la trap fa benissimo ad essere quello che è, ovvero molto spesso materialista, cinica, tamarra, orientata all’ostentazione vuota e crassa: è stata nutrita ed è cresciuta in contesti schiettamente orientati all’exploit capitalista, senza nessuna influenza altra ed alternativa, e ci sta sia così. Oh se ci sta. Proprio la mancanza di contesti in cui il profitto non è importante ha portato le nuove generazioni (e, da decenni, le generazioni di giovani americani…) a credere che la rilevanza di un genere musicale e di una espressione culturale si misurino a seconda del fatturato che generano, e del potere economico che ostenta, non di altro.
Però poi il paradosso bellissimo qual è? È che i primi a rompere i coglioni su quanto siano stupidi e materialisti i giovani-di-oggi, di solito in primis le istituzioni e le persone di destra-destra e di centro “moralista”, sono proprio quelle che hanno fatto di tutto per impedire ai giovani-di-oggi di essere educati all’espressione artistica non solo materialista, e non solo di facile uso e pronto consumo: lo hanno fatto togliendo lì dove possibile ogni finanziamento ed ogni appoggio a centri culturali, centri giovanili, luoghi di aggregazione non convenzionali ed alternativi. E scagliandosi infine contro i centri sociali, grumi di illegalità ed immoralità, “covo di comunisti e di drogati”. Ci sono i “comunisti”, vero (ma se è per questo, ci sono anche i fascisti nella nostra società, più tutto quello che ci sta di mezzo: c’è spazio per tutti); ci sono i anche “drogati” (quelli peraltro ce ne sono anche in Parlamento, nei ritrovi esclusivi e nelle case dell’alta borghesia, oltre che in qualsiasi strato della società: solo che ipocritamente non si dice); ma intanto nei centri sociali è stata elaborata molta cultura e molta voglia di fare che hanno reso l’Italia un paese intellettualmente e socialmente (ed anche imprenditorialmente) meno arretrato. Altrove? Che cultura ha prodotto la destra conservatrice più gretta, il (post) fascismo, il razzismo di ritorno? Che musica? Che suoni? Che cinema? Che letteratura? È tutta colpa di un eterno complotto para-gramsciano, di quello e solo di quello?
Ma poi, sapete che c’è? In un modo ideale, in una Italia ideale, sarebbe talmente tanto pieno di posti come l’Habitat di Soliera che no, non ci sarebbe bisogno di centri sociali politicamente schierati per creare cultura “nuova”, alternativa al già consolidato, o anche solo delle pratiche di aggregazione sane, costruttive, dinamiche; e se ci fossero, questi tanti Habitat sparsi per la Penisola, visto che non soggiacciono a leggi di mercato gli sarebbe pure indifferente se i centri sociali gli facessero concorrenza “sporca”, cosa da cui invece ancora oggi molti club e discoteche sono ossessionati, non capendo che se sei messo in crisi da un rave o da un centro sociale (luoghi scomodi, complicati, spesso freddi, spesso logisticamente difficoltosi e fatiscenti) vuol dire che stai offrendo qualcosa di davvero loffio e stantio, come proposta d’intrattenimento.
Per quanto riguarda le istituzioni: invece di sgomberare e sentirsi fighe nel farlo annunciandiolo ai quattro venti come fosse una conquista, invece di progettare nuovi fantomatiche strutture sociali tipo studentati che chissà se mai si faranno da mettere al posto dei centri sociali, dovrebbero magari imparare proprio dall’economia di mercato.
Sì.
Proprio da quella.
E mettersi in concorrenza sana coi centri sociali suddetti. Avere cioè anche loro dei posti, tanti posti!, dove la cultura sia libera, non sia legata solo al profitto, abbia lo spazio temporale ed ideale per essere creativa, per pensare “diverso”.
Finché questo non avverrà, viva i centri sociali. Anche i più scalcagnati. Anche i più ormai svuotati di significato (ce ne sono: molti si trascinano avanti per inerzia, difendono giusto le mura e gli spazi, e culturalmente portano avanti solo una stanca ombra di ciò che molti decenni fa fu invece nuovo e dirompente). Anche quelli dove la gente va solo a farsi le canne.
Sono comunque degli spazi dove possiamo sfuggire alla pervasiva isteria dell’essere produttivi ad ogni costo ed in ogni momento, ed al ruolo di essere costantemente dei polli da spennare il più possibile (perché oggi i social servono a tracciare le nostre abitudini e i nostri gusti, ed essi vengono tracciati solo ed unicamente per indurci a consumare di più, sempre di più: è davvero la soluzione perfetta, questa? È davvero un meccanismo neutro ed innocuo?).
Mettiamo “a terra” tutti questi discorsi: ecco perché ci fa piacere che una realtà al 100% legale, ufficiale e non antagonista come Liguria Transatlantica (che ha dato vita ad un bel festival l’anno scorso, e che è legata a doppio filo a Jazz:Re:Found) abbia unito le forze con la crew di Genova Hip Hop Festival (che porta avanti la passione per l’hip hop nelle sue forme più pure ed oneste), ed entrambi siano andato a scegliere proprio il centro sociale Zapata per l’evento del prossimo 10 febbraio. Ovvero, un luogo sotto esplicita minaccia di sgombero da parte dell’amministrazione cittadina, pur essendo un luogo storico del quartiere ed anche un posto dove negli anni sì, sono state fumate molte canne, ma è stata anche prodotta molta cultura e si sono formate moltissime professionalità, oltre ad accogliere suoni e persone che, per vari motivi, venivano impietosamente e/o sprezzantemente “espulse” dalla società standard.
I centri sociali non avranno probabilmente più la forza propulsiva ed innovatrice della grande stagione degli anni ’90, saranno diventati forse in più di un caso dei luoghi stanchi e residuali, ok; ma il problema del creare dei luoghi di aggregazione e di creazione che siano liberi e che siano “aperti” nel vero senso della parola, dovrebbe essere al primissimo posto nella agende di tutte le amministrazioni locali e nazionali. Primissimo. Invece, non lo è. Non lo è per niente. Continua a non esserlo. Anche se, come abbiamo provato a dimostrare, nel caso lo fossero sarebbero invece un investimento assai lungimirante anche dal punto di vista economico ed imprenditoriale (come hanno capito in molte metropoli europee, e lo hanno capito proprio sulla loro pelle), non solo sociale.
Il capitale che vuole abbattere ogni forma di non-capitalismo e pensare e concepire solo l’”impresa”, beh, è cieco, miope, ragiona con poca visione: non capisce che a fare così sul lungo periodo affossa se stesso. Ma ecco: cazzi del capitale. Ci pensasse lui a risolvere i suoi limiti. Anche perché non mancano invece esempi di capitalisti e capitalismi illuminati, a migliorare le cose, a creare le condizioni per progresso e sviluppo. Noi, da semplici cittadini, intanto iniziamo invece a rivendicare gli spazi. Spazi per esprimerci. Spazi per non essere dei numeri, delle bestie da batteria da ingrassare e poi, successivamente, da spennare.
Non è destra, questa. Non è sinistra. È, credeteci, lungimiranza e buona senso.