“He is the Black Saint who suffers for his sins”: così scrive nel 1963 Edmond Pollock, psicoterapeuta, nelle note di copertina di un album di un suo paziente. Il paziente si chiama Charles Mingus e l’album è “The Black Saint And The Sinner Lady”: meraviglioso e struggente esempio di come la musica possa essere un canale privilegiato di espressione di disagio, di una profonda e umana sofferenza e di una disperata ricerca di pace.
Sul romantico binomio di genio e follia la psichiatria colleziona studi che ora affermano ora negano l’esistenza di una correlazione, in termini statistici, tra malattia mentale e creatività – attitudine quest’ultima già molto difficile da definire di per sé. Certo è però che chi lavora nell’industria culturale corre il rischio di dover affrontare sollecitazioni psicologiche a volte molto forti, tanto da scardinare l’equilibrio di chi non sa porsi dei limiti o è semplicemente più vulnerabile; ogni ambito lavorativo ha i suoi lati oscuri o comunque più complessi e problematici, sia chiaro, ma se si è collegati alla sfera artistica e creativa è inevitabile – per mille motivi – che certi lati “sensibili” della proprio personalità siano messi maggiormente alla prova. Se poi ci riferiamo alla vita attuale di un producer di fama mondiale, fatta di iper-esposizione mediatica, tour estenuanti per corpo e mente, orari sregolati e, in alcuni casi, uso di sostanze stupefacenti, non è difficile immaginare l’impatto che questa routine lavorativa possa avere su una psiche fragile. Se poi questa vita inizia a quattordici anni, la possibilità di non reggere è decisamente più alta: questo sembra essere il caso di Benga, produttore inglese classe ’86, esordio discografico datato 2002, figura fondamentale della scena dubstep e parte del fortunato progetto Magnetic Man insieme all’amico d’infanzia Skream e ad Artwork. Dopo aver annunciato il suo ritiro all’inizio del 2014 con l’intenzione di dedicarsi al crescer su una sana famiglia per poi scomparire da tutti i radar, Benga adesso rompe il silenzio e afferma via Twitter di soffrire di disturbo bipolare e schizofrenia, associando tra l’altro in modo esplicito le due condizioni all’uso di droghe e a tour troppo intensi.
È noto che possa esistere una corrispondenza biunivoca fra certe malattie mentali e tendenza all’uso di sostanze psicoattive, ma non è certo una disamina psichiatrica o un’anamnesi l’oggetto di questo articolo. Ci interessa piuttosto sottolineare quanto sia importante, e per nulla scontato, parlare apertamente di questi temi: discutere di salute mentale senza tabù e pregiudizi è un grande passo di civiltà e soprattutto è un nodo cruciale perché chi soffre possa chiedere aiuto senza vergogna. Troppi pregiudizi ed etichette aleggiano ancora intorno a certe parole, siamo ancora intrappolati nel vecchio bipolarismo tra compassione buonista e condanna ignorante, specie riguardo l’associazione con le droghe. Se disturbi nevrotici come quelli di ansia o panico sono stati apparentemente sdoganati, esiste una paura ancora troppo radicata della malattia mentale di natura psicotica, associata ad una sua pericolosa stigmatizzazione; pericolosa perché rende ancora più ardua la già difficile impresa di uscire allo scoperto da parte di chi soffre e ne ritarda la diagnosi e la cura.
Benga dice di non cercare compassione ma di voler sensibilizzare. Soprattutto, sembra voler urlare che stare meglio è possibile, che tornare è possibile: chi come lui sceglie di parlare di sé e della propria esperienza, facendo i conti con la propria immagine pubblica, compie un grande passo verso la demistificazione della malattia mentale e può lanciare un messaggio – espresso dall’hashtag #mentalhealthmatters – incredibilmente semplice e per questo molto più forte e capillare di mille campagne di sensibilizzazione. Torna in mente la bella intervista rilasciata da Dro Carey aka Tuff Sherm a XLR8R, in cui il produttore australiano, certamente non dotato della stessa visibilità di Benga, racconta con straordinaria onestà la sua lotta con il disturbo ansioso-depressivo che ha duramente segnato la sua carriera in quello che chiama “the undergound/esoteric/no repress dance music game”, in quel sistema che spesso non ammette debolezze e non lascia spazio a realtà che poco hanno a che fare con il divertimento. Ma al di là della fama e dello scintillio (apparente?) della vita notturna da clubber, è il coraggio di mettere a nudo la propria sofferenza ad essere davvero importante: la capacità di rischiare, di raccontare al mondo un vissuto così duro, di provare a spezzare la sovrapposizione tra persona e malattia, di raccontare che oltre a star male prima di tutto si “è” come essere umano, con pregi e difetti come tutti.
Tutto questo può diventare un esempio molto importante. Può diventare un’iniezione di forza e consapevolezza capace di raggiungere destinatari anche molto lontani, sostenendoli nella scelta di demolire il muro dell’isolamento e chiedere aiuto. Una scelta che sembra facile, vista da fuori, ma in realtà è difficilissima da giocare in prima persona. Una scelta che per essere quello che è – naturale, qualcosa di cui non ci si deve minimamente vergognare – ha bisogno del sostegno di tutti.