A volte capita di confrontarsi con qualcuno e avere la netta sensazione di aver fatto centro. Di aver trovato finalmente l’interlocutore giusto per andare a fondo nelle cose, per tirar fuori anche quelle sensazioni meno comuni, senza paura che chi ti ascolta la prenda male. Noi quest’intervista con Christelle Gualdi l’abbiam voluta fortemente, nonostante i rinvii e le difficoltà organizzative di cui si accenna a inizio conversazione. Perché avevamo intuito di avere a che fare con un personaggio diverso dagli altri. Perché dietro a colei che gran parte della stampa estera identifica come “l’autrice di uno dei migliori album techno dell’anno” si nasconde una visione complessa e affascinante, che sa essere piena suggestione (la dimensione esplorata fino a qualche anno fa e resa al meglio nella raccolta “Trilogy Secret“) ma anche energia e dinamismo (come appunto nell’ultimo album “Joy One Mile”). I fatti alla fine ci han dato ragione: parlare con Stellar OM Source è stato come disegnare insieme un mosaico rappresentativo dell’attuale stato di salute della club music. Si è parlato di techno e di house, di quella sensazione di frustrazione che avevamo rilevato qualche tempo fa su certa scena europea, di come ognuna delle due abbia un atteggiamento e un polso sul presente differente, di come i due generi abbiano vissuto in modo diverso la loro collocazione storica nel tessuto sociale. E sentire un’artista infiammarsi mentre invita tutti a “non perdere la visione globale”, a “pensare a cosa la musica dovrebbe comunicare alla gente”, è uno di quei momenti di piacere e catarsi che accadono raramente. Christelle è una di noi, che come noi ha una passione viscerale per la musica, si fa delle domande e si sente parte di un mondo in cui ci si identifica come entità collettiva. E se leggete bene quel che ci ha detto alla fine di questa chiacchierata, sulle sensazioni di chi resta in pista fino all’ultimissimo istante messo a disposizione dalla notte, capirete bene cosa vi stiamo dicendo.
È un periodo piuttosto pieno di impegni, vero?
Già, è un momento molto frenetico. Dopo l’uscita dell’album i live si sono moltiplicati e cerco sempre di preparare cose differenti per i diversi eventi.
Quanto sono cambiati i tuoi live negli ultimi anni?
Beh, rispetto a cinque o sei anni fa, sicuramente molto. La mia musica è cambiata e quindi è cambiato il tipo di show che propongo. Negli ultimi tempi però sto consolidando le performance. L’unica cosa diversa è che recentemente sto incorporando più spesso pezzi miei, invece di proporre un live al 100%, ma per il resto non è cambiato molto ultimamente.
Fino a qualche anno fa la tua musica era completamente differente. Un sound estremamente ambientale, quasi new age. Come sei arrivata nel giro di poco tempo a quella che ora possiamo definire tranquillamente techno?
Devo dire la verità, lo stacco che viene percepito all’esterno, tra la musica che facevo “prima” e quella che ho fatto “dopo”, per me non è così netto. La differenza principale è che adesso uso molto più le drum machines e i sequencer, ma per il resto gli strumenti che adopero adesso sono gli stessi di “prima”. È stata un’evoluzione graduale, come penso avvenga a qualsiasi artista che vuol mantenere viva ed eccitante la propria musica e per questo prova sempre a sperimentare nuove formule. Personalmente non definisco la mia musica techno! Uso strumenti che son tipici della techno e dell’acid house, è vero, e in effetti questo nuovo corso è cominciato proprio quando cinque anni fa volli giocare un po’ col sound acid. Ma è strano per me esser definita ‘techno’ solo perché uso quelle strumentazioni. Non vorrei che, se un giorno introducessi una chitarra, poi si dicesse che faccio rock’n’roll! (ride)
Però è strano. Tu ne sottolinei solo l’aspetto tecnico, legato agli strumenti usati, ma “Joy One Mile” è techno proprio nello spirito. Davvero non lo vedi come un album techno?
Ad essere sinceri, non sento l’urgenza di categorizzare la musica che faccio! (ride) Anzi, la cosa mi mette anche un po’ d’ansia, come se qualcuno dovesse per forza mettermi in una sezione ben precisa del database di iTunes e si aspettasse che io dicessi “oh, allora è lì che posso trovarmi, ok”…
Ahah. Beh capisco il tuo punto di vista. Ma sai, le categorie non nascono per inquadrare o assegnare etichette alla musica, sono più un modo per identificare quale tipo di pubblico possa apprezzare più facilmente quel tipo di musica, almeno nel mio modo di vedere le cose. Non so se hai fatto caso, ma tutta la stampa è abbastanza d’accordo nel definire “Joy One Mile” non soltanto un album techno, ma uno dei migliori album techno di quest’anno. Concordo però con te su una cosa: il tuo album ha qualcosa di diverso dalla techno che esce in questo periodo. Non ha l’ansia di dover per forza inseguire i bisogni della techno, ha un atteggiamento più spontaneo…
Ecco, “spontaneo” credo sia proprio la parola giusta. Una delle cose che amo di più nell’esibirmi dal vivo è che posso toccare con mano la reazione del pubblico a certi suoni. E voglio che la mia musica, oltre a stimolare me, tocchi il maggior numero di persone possibile. La spontaneità sta tutta qui. Anzi, penso che questa dovrebbe essere la base per chiunque voglia fare musica: trasmettere emozioni e muovere certi meccanismi. Ed è qualcosa di impegnativo. Serve tanto lavoro, tanta determinazione e sopra ogni cosa serve non pensare alle classifiche, a vendere, ecc.
Orientamento verso l’ascoltatore. È una differenza d’approccio che si nota molto rispetto alla media di produzioni techno del momento. Di recente mi son ritrovato a riflettere sullo stato attuale della techno, mentre si ragionava sull’ultimo album di Marcel Dettmann. Tu lo sai, la techno è un istinto che ha sempre inseguito il futuro, ha sempre voluto cercare nuove sensazioni, nuovi suoni. In questo momento sento che le direzioni che sta approfondendo non stanno soddisfacendo appieno questo bisogno di futuro, e questo mi dà la sensazione che sia un po’ frustrata, nervosa…
Sai perché accade? Penso che il motivo principale sia che molti hanno perso la visione globale. Insistono su un livello strettamente individuale, pensano a come quella musica può essere accolta, condivisa su Twitter o Facebook, e dimenticano il progetto più ampio, ossia cosa la musica dovrebbe essere, cosa dovrebbe dire alla gente. La techno è stata la colonna sonora di una rivoluzione, ha sempre voluto essere la migliore di tutti. Non bisogna mai dimenticare la sua funzione sociale, la sua natura di musica da suonare nei club e cosa essa significhi per la generazione giovane. Pensa ai Drexciya. O, se vogliamo andare più indietro nel tempo, a Sun Ra. Quella era musica estremamente attenta ai cambiamenti sociali del tempo, ed è questo l’unico modo per poter davvero agganciare il futuro, essere l’avanguardia. Se invece ti limiti a guardare lo schermo del tuo laptop e quanti followers hai… beh, la tua musica non provocherà visibili cambiamenti. Quelli però erano tempi diversi, in cui la musica era qualcosa di più vicino a una fede. Per quanto mi riguarda, quel che posso dire è che provo sempre a interagire direttamente col pubblico, spingo i giovani a chiedersi cosa stanno ascoltando. Tanta musica che sento oggi è poco più che un’imitazione di qualcos’altro, soprattutto adesso che si ha un accesso così ampio alle produzioni del passato. Non esattamente la cosa migliore, se si vuole essere creativi.
Quel che dici è molto acuto. Ultimamente rifletto spesso su un concetto analogo al tuo, ossia la differenza tra la musica che suona come la gente vorrebbe che suoni, e la musica che suona come genuinamente sente dentro di sé. Non trovi anche tu che oggi sia questa la prima differenza d’atteggiamento tra house e techno? Quel che vedo è che la house è sempre più a suo agio dentro ai propri tratti stilistici, non sente lo stesso bisogno della techno di inseguire una propria idea di evoluzione, e questo le permette di rispondere meglio alle esigenze dell’ascoltatore finale. Tu come la vedi?
È vero. E questa cosa la percepisci ancor più se pensi al ruolo storico che la house ha avuto all’inizio. Era la musica che rispondeva al bisogno di escapismo, e stava perfettamente a suo agio nell’isola felice che si era ritagliata. Stava semplicemente nel posto perfetto per lei. Chi andava a sentire musica house ci andava perché voleva esattamente quelle sensazioni. In questo senso la house non sente particolarmente il bisogno di cambiare, sicuramente non quanto la techno.
… e quindi può permettersi di calibrare meglio la propria efficacia, in termini di impatto e risposta ai desideri del tempo. Ecco perché la house ha una realtà come i Disclosure e la techno no.
Esattamente.
Tornando al tuo album: ascoltandolo ho avuto l’impressione che le sue tracce siano molto adatte alle performance dal vivo. È una mia impressione o questi pezzi sono stati pensati anche per potere rendere al meglio live?
Ancora di più: la maggior parte dei pezzi di “Joy One Mile” nasce proprio dai live set. Negli ultimi mesi ho voluto lavorare molto ai miei live set, e capitava sempre di tirar fuori qualcosa di nuovo. Poi quel qualcosa finivo per suonarlo più volte, e a un certo punto si erano accumulati diversi pezzi su cui si poteva lavorare. Sono entrata in studio e li ho raffinati, aggiungendo quegli strumenti che non avevo con me nei live, qualche synth più grosso, gli overdub, ecc. C’è una cosa che ho notato: tutti gli amici DJ che hanno ascoltato il mio album l’hanno apprezzato come ascolto, ma nessuno ha trovato quelle tracce adatte ad essere inserite in un dj-set. Credo siano tracce difficili da adottare per un dj.
Credo di sapere qual’è la ragione: i pezzi del tuo album non stanno mai fermi, sono continuamente differenti, anche nello sviluppo di ogni singola traccia. Non si arrendono mai alla classica circolarità di una sola soluzione, e questo per me è il lato migliore del disco. È molto dinamico, e ciò lo rende perfetto per un live stimolante ma poco adatto per un dj-set…
Sì, è proprio così. Vedi, questa è la musica che ascolto io per prima, e l’ultima cosa che voglio dalla musica è annoiarmi. Cerco sempre qualcosa di inaspettato, cerco la sensazione che qualcosa sta per accadere ma non so bene cosa. Se mi accorgo di sapere perfettamente come si svilupperà un pezzo, significa che quel pezzo non è poi così interessante.
Come pensi si evolverà il tuo sound adesso? Continuerà ad insistere in questa direzione o magari ti capiterà di tornare al formato beatless di qualche anno fa?
No, penso che continuerò a lavorare con le drum machines. Quando sono in studio compongo ancora qualcosa di beatless, tipo pezzi di solo piano, ma son cose che non credo pubblicherei mai. Per ora preferisco lavorare nell’ottica di cosa la gente vuol sentire in un mio live set. E vedo anche la differenza tra quando suono in tarda notte, alle 3 o 4, e quando suono alle 23. La percezione del pubblico è molto diversa, e mi piace preparare materiale diverso per entrambe le situazioni.
Quale orario preferisci?
Adoro la notte fonda. È il momento in cui posso entrare meglio in contatto col pubblico, mi sento più libera di sperimentare. Sai com’è, è molto tardi e la gente è ancora lì, significa che si sta divertendo e solitamente è più ricettiva. In quei momenti improvviso molto di più, è un’esperienza molto stimolante. È come essere in una dimensione senza spazio e senza tempo, entri in un rapporto di empatia particolare col pubblico.
Anche perché tipicamente a quel punto son rimaste le persone più appassionate, quelle che sentono davvero il rapporto con la musica…
Sì, è vero. È una sensazione molto particolare. Se sono le 5 o le 6, quello è il momento in cui molti si svegliano, danno inizio alla giornata. Ma se sei stato tutta la notte a ballare e sei arrivato fin lì… significa che c’è una carica particolare, qualcosa di molto forte. Si instaura una specie di sensazione spirituale di comunità. Ed è qualcosa che sento molto, è fantastico.