Sarò vittima dell’hype, ma ogni uscita targata PAN equivale per me ad un riflesso pavloviano “Metti le cuffie e premi play”. L’etichetta di Bill Kouligas è lo spazio in cui si propagano molte delle idee più coraggiose e innovative della musica contemporanea, in un continuum inesauribile e lungimirante di suono e immagine che – disco dopo disco – fotografa le tante facce del poliedrico mondo dell’elettronica e delle subculture che in esso si muovono.
Quasi al suo decimo anno di vita, il catalogo della label si è ora arricchito di quello che a mio parere è uno dei lavori più avventurosi e sorprendenti di questa prima decade di PAN: un incontro tra musica e storia, tra magia ed etnoantropologia, tra dancehall non convenzionale e ritmi computerizzati, tra voci primordiali e machine sounds. Questa incredibile miscela si intitola “I” e nasce dalla ricerca di Simone Trabucchi, che firma questo album con l’alias STILL (ILL): un crossover di generi, media e tradizioni che porta avanti il viaggio iniziato con “Negus”, documentario (nonché serie di sculture e istallazioni) realizzato da Trabucchi insieme a Simone Bertuzzi (aka Palm Wine) come Invernomuto e presentato l’anno scorso all’Unsound.
Hailé Selassié I – l’ultimo Negus Neghesti, re dei re d’Etiopia – è la figura intorno alla quale il duo ha sviluppato un itinerario non lineare che unisce Etiopia, Italia e Giamaica e che ha trovato forma sonora nell’album di Trabucchi. Durante la brutale invasione italiana dell’allora impero etiope negli anni ’30, Selassié diventò il simbolo del “nemico nero” per la propaganda fascista, proprio mentre in Giamaica nasceva il rastafarianesimo che nell’ultimo Negus vede invece la seconda incarnazione di Gesù. Una figura, due icone. L’affascinante opposizione tra questi eventi diventa materiale di ricerca e creazione per i due artisti italiani quando Trabucchi scopre che a Vernasca, sua città d’origine, al ritorno di un soldato dalla guerra di Etiopia, l’effige di Selassié fu bruciata in piazza in un rituale collettivo; “Negus” porta quindi a Vernasca – come sacerdote di un rito volto a rievocare lo spirito dell’Imperatore d’Etiopia – Lee “Scratch” Perry in persona, dopo averlo ascoltato raccontare il potere spirituale e rivoluzionario delle basse frequenze nella sua Kingston.
Volevo parlare di musica più che di videoarte, ma la produzione di Trabucchi è intrinsecamente multidisciplinare e credo che l’ascolto di “I” possa espandersi a più livelli se se ne conoscono le radici. Il triangolo – fatto di storia e di sogno – disegnato da Invernomuto tra Caraibi, Appennino ligure e Corno d’Africa è il perimetro elastico nel quale sorge la digital Babylon costruita da STILL. “I” è un disco ma è anche una riflessione sul colonialismo. “I” è un tributo alla sound system culture ma è anche un’opera linguistica. “I” fa muovere il sedere ma solletica il cervello e la memoria, individuale e collettiva.
Aggiungendo un importante tassello al mosaico costruito con il suo progetto Dracula Lewis e la sua label Hundebiss Records, in questo album Trabucchi sviluppa l’anima più ritualistica e purificatrice della bass music, riuscendo a realizzare un’operazione di decentramento culturale che fa di “I” un lavoro prezioso e genuino: STILL non attinge all’universo musicale afro-caraibico da un punto di vista eurocentrico, con un presuntuoso gusto “esotico”, ma fonde ed equilibra il suo personale approccio al riddim – un po’ hardcore, un po’ chiptune – con la voce dei sei cantanti ed MC italo-africani – Devon Miles, Keidino, Taiywo, Freweini, Elinor e Germay – che lo hanno affiancato nella realizzazione di “I”, eliminando ogni gerarchia compositiva.
La voce, nella sua duplice valenza di suono e parola, di vibrazione e contenuto, ora manipolata come pura frequenza, ora lasciata libera di urlare un messaggio, è forse l’elemento più forte dell’album, ma non crediate che “I” sia (solo) un manifesto politico. È un disco che non lascia fiato, possiede fisicamente l’ascoltatore fin dal primo istante, dal canto quasi religioso e dall’organo di “Haile Selassie Is The Micro-Chip”, e poi attraverso l’audace sincretismo di dancehall, grime, dembow, ragga, gospel e dub che Trabucchi declina nelle nove tracce dell’LP. Difficile catalogarlo in termini di genere, ancora più difficile definirne il mood: “I” racchiude misticismo ed energia, ha in sé uno spirito rivoluzionario e un’anima da party, è musica che cura, unisce, denuncia, purifica, muove, risveglia. È uno dei dischi più freschi e originali nella mia memoria recente. È tutto questo e molto altro, ma soprattutto ha qualcosa da dire e la dice senza chiedere permesso.