È possibile cambiare l’urbanistica di una città attraverso la musica? La risposta definitiva è nelle ultime righe di questo articolo, ma fin da ora vi diciamo che sì, è possibile; e il Genova Hip Hop Festival ci sta riuscendo anche molto bene. Lo testimonia l’ultimo evento nel centro della città, a Piazza de Ferrari, dove 18.000 persone hanno seguito la kermesse del pre-Capodanno (30 dicembre) in musica. A chiudere l’evento, con più di 20 artisti del panorama hip hop locale e nazionale, Noyz Narcos. Ma appunto: non c’è e non c’è stato solo lui.
(Noyz Narcos in azione, in una serata alla fine piuttosto epica – questa e tutte le altre foto dell’articolo sono opera di Cruo Studio; continua sotto)
Genova Hip Hop Festival è un progetto che nasce nel 2018 raccogliendo l’eredità di tanti collettivi hip hop della città. La prima edizione era già molto ambiziosa: totalmente finanziata dal Comune di Genova, si è svolta in 3 giornate all’RDS Stadium, con rap, deejaying e non solo. Per la breakdance è stato organizzato un contest internazionale, con artisti partecipanti da tutto il mondo: spessore vero, quindi. Poi, passando al rap: se in Italia negli ultimi 4-5 anni è stato facile trovare un concerto rap, trovare serate con decine di rapper che si esibiscono uno dopo l’altro è oggi davvero un’eccezione. In generale, viene da dire che non esista oggi un festival che tratti a 360 gradi questa cultura, con un approccio diverso da quello dell’industria del pop e del mainstream. Non che il mainstream mancasse: la prima edizione aveva infatti visto calcare il palco da artisti mainstream come Lazza e Bresh. Ma è proprio lì che il lavoro più difficile doveva ancora arrivare. Perché quando inizi con il botto, dopo tutti si aspettano quantomeno gli stessi risultati, senza mettere in conto gli imprevisti. A cominciare dai fondi prima aspettati, poi improvvisamente mancanti.
Come può continuare a vivere un festival senza dei finanziamenti, senza arrendersi, senza collassare? Per esempio, proponendo attività di freestyle e writing, oppure dipingendo un pilone della sopraelevata, la strada di scorrimento urbano che costeggia il centro storico.
(Sotto la iconica – e discussa – sopraelevata che taglia in due Genova ci può essere vita, colore; continua sotto)
Oppure organizzando rassegne per approfondire lo sguardo sulle periferie. Il Prû a Prà è stato un evento fra i più iconici: tre giornate di eventi nell’estremo Ponente della città metropolitana. Oppure M.U.R.A., manifestazione che nello spazio dei Giardini Luzzati annualmente si orienta su un singolo aspetto dei vari che compongono la cultura hip hop. All’hip hop tutto, infatti, è stato dedicato un festival di 3 giorni con esibizioni in tutto il centro storico: talk e concerti, dj set e laboratori per comprendere al meglio le periferie genovesi, da mezzogiorno fino a mezzanotte. Sempre nel cuore della città, andando ai Giardini Baltimora, uno spazio storico sotto gli uffici della Regione, si inizia ad entrare nella sezione degli eventi ad ingresso gratuito. Altro appuntamento da ricordare è poi quello di Villa Bombrini, a Cornigliano, che ha ospitato per la prima volta a Genova artisti hip hop americani come Masta Ace, Marco Polo, Apollo Brown e Philmore Greene, e in più nel pomeriggio numerosi talk su questa cultura che, come afferma Paola Zukar, è una sorta di fede laica che esiste, resiste. Un invito a guardare la realtà vera, più profonda, per chi svaluta e misconosce questo patrimonio artistico.
(Il talk con protagonista Paola Zukar, affiancata da Claudio Cabona, a parlare di “Testi espliciti”; continua sotto)
Il Genova Hip Hop Festival nasce infatti da una esigenza ben precisa. Genova ha avuto da sempre una storia legata alle discipline dell’hip hop. Per esempio, la città è stata una delle capitali del writing in Italia; e quando si parla di hip hop in Italia, si parla di Aelle. Aelle per 10 anni è stato scritto in Via delle Grazie, nel centro storico.
Ma dicevamo: che relazione c’è tra l’hip hop e l’assetto urbanistico di una città? Nel febbraio 2023 c’è stata un’ordinanza di sgombero di un centro sociale rilevante a Genova, lo Zapata. Ve lo raccontavamo qui: insieme a Liguria Transatlantica si sono radunate 800 persone e 40 artisti, e l’offerta libera è stata devoluta interamente al centro sociale. L’Hip Hop Festival con questo evento ha dimostrato di saper lavorare con un certo tipo di istituzioni, certo, ma quando serve non si dimentica da dov’è nato e da che parte stare. Una prova? È stato realizzato un documentario in 5 puntate in cui si racconta attraverso filoni tematici cosa ha spinto il team a portare avanti questo progetto. Gli episodi sono legati a Genova, al dialogo, all’identità, al sentimento di rivolta e all’attitudine.
(Recuperatevelo, il documentario – qui vi postiamo l’episodio d’esordio; continua sotto)
Nei primi anni 2000 Genova era piena di spazi occupati, onda lunga anche di quanto successo col G8, e hanno dato un contributo molto significativo. In confronto a Milano, dove il bacino d’utenza è decisamente più allargato e un qualsiasi evento può brillare di luce propria, Genova è un’altra storia. In un’epoca in cui i social dettano la linea, e in cui la potenza iconica del capoluogo lombardo – dettata in primis dal fatto che tutta l’industria discografica stia lì – pare rendere irrilevante tutto il resto, sembra quasi che si vogliano ridurre le persone a non uscire dal proprio schermo rettangolare, cercando conferme nelle proprie opinioni e nei vari luoghi comuni piuttosto che darsi invece una mossa e confrontarsi per davvero, sul terreno: in un contesto così, il Genova Hip Hop Festival ha dilatato i confini, intenzionalmente, rendendo gratuite le sue serate e aumentando la curiosità nel pubblico al di là dello zoccolo duro. È ossigeno puro. Ti spalanca gli occhi e ti fa uscire dalla zona di comfort. Nell’arco di un weekend ci si può esaltare per un collettivo come Genovarabe, composto da sette amici che rappresentano al meglio il rap della città più araba d’Italia sotto la luce della Lanterna: Sayf, Helmi Sa7bi, Marvin, Sossy, Willy, Vincè e Laboo, e allo stesso tempo ascoltare pilastri della scena come Kaos e i Colle der Fomento: tanta roba.
(Genovarabe in azione; continua sotto)
La mancanza di fondi non è stato l’unico problema, peraltro. Ad esempio: come si reagisce ad una pandemia globale? Risposta: cambiando la prospettiva. Paradossalmente, proprio in un momento in cui le relazioni erano più difficili è aumentata la connessione con il territorio, lavorando sottotraccia. Questo ha portato la collaborazione con una società di grandi eventi, e la creazione dell’evento Rap in Piazza in Piazza della Vittoria, dove 25.000 persone si sono radunate ad un live chiuso da Paky e Tony Effe.
(In Piazza della Vittoria la situazione era questa; continua sotto)
Un’altra strategia è stata sfidare la logica del mercato. Ovvio, anche con la cultura si punta a fare numeri, non è che non lo si faccia. È più facile chiamare un artista gigante e risolvere ogni problema problema, ma quello che si voleva trasmettere era diverso. E se a Milano vive un rap che segue prima di tutto le views, forse a Genova è nata la speranza che questo non accada. Senza identità si finisce per seguire quello che il mainstream propone, quello e solo quello. Chi ha un’identità, invece, cerca di inserirsi nel mainstream con la sua proposta. È un approccio diverso. Oggi il 95% di ciò che sentiamo, lo troviamo su YouTube o, ancora peggio, da un reel sponsorizzato di 20 secondi su Instagram. Forse Noyz, a quasi 7 anni dalla nascita dell’Hip Hop Festival, è stata davvero la “presa della Bastiglia” del rap a Genova. Ovvero, costruire qualcosa, ma con un contesto: il contesto hip hop. Fare del writing, del breaking, del rap a Prà gratis, conferisce più valore a questa realtà, rispetto che chiamare nomi altisonanti e basta.
Quale potrebbe essere il futuro dell’Hip hop Festival? Continuare la linea degli eventi ad ingresso gratuito. Questo darebbe la possibilità di fare cultura attivamente perché all’evento può venire anche la persona che non conosce, che non è già informata e motivata. Divulgare una cultura è importante, senza chiudere nessuna porta, quando possibile. In una piazza può passare chiunque: si ferma e ascolta. Un valore aggiunto è aver creato aggregazione, in forme che magari prima per molti non c’erano, non erano immaginabili.
Un limite? Genova ha l’impostazione di una città dove il dopo cena non è concepito. Spieghiamo meglio: i trasporti pubblici sono ancora pensati come negli anni 60-80, cioè come quelli di una città industriale. Anche i tragitti delle linee sono gli stessi di 40 anni fa, vuol dire che si è raggruppato la maggior parte del trasporto pubblico all’interno di un orario che non supererà la mezzanotte, e su traiettorie poco legate a dinamiche che non siano lavorative. Il 70% delle persone abita sopra la linea costiera e il trasporto è collocato lungo il mare, l’impostazione è esattamente come quella di una città portuale, di una città dormitorio. Il Genova Hip Hop Festival ha dato un cambio di mentalità nell’approccio alle cose: ha mostrato nuove geografie d’azione possibili. Cosa che non c’è nell’attitudine dei liguri e nella morfologia della città, apparentemente immobili e non scalabili entrambe.
Ecco che così assume ancora più senso e diventa meno generico il claim usato: “Uniti dalla diversità”. Le differenze sociali e culturali non devono essere (più) un ostacolo. Quelle territoriali, nemmeno. Che un festival si ponga tutti questi problemi invece di pensare solo a line up e alle voci di entrata e uscita relative ad un concerto o una serie di concerti, è una notizia bella per tutti.
Tutte le immagini sono a cura di Cruo Studio