E’ stata una delle rivelazioni dell’anno: onestamente, chi se l’aspettava che Cosmo si sarebbe guadagnato airplay pesante nelle radio mainstream, e intendiamo quelle veramente mainstream? Zero, dai. Potevamo sperarlo, potevamo augurarglielo, potevamo fare il tifo. E lo facevamo. Perché Cosmo lo abbiamo sentito “nostro” in tempi ancora non sospetti, esattamente come fece Spring Attitude a Roma: un’artista di estrazione indie (per il lavoro a guida dei Drink To Me, in parte anche per quanto fatto col primo disco solista, “Disordine”), magari atipica, ok, ma con l’elettronica apparentemente non c’entrava nulla, però in qualche modo a pelle si percepiva che c’era del potenziale. Potenziale che si è sviluppato tantissimo con l’album “L’ultima festa” (e l’omonimo singolo: quello del boom). E ora? Lui sul tutto, sull’elettronica, sul successo, su se stesso, beh, ha una visione chiarissima. Raramente negli ultimi tempi abbiamo passato del tempo con artisti con un’idea di se stessi così lucida ed affilata. Dopo il boom tra primavera ed estate, Cosmo riparte ora in tour – esattamente a partire dal 20 ottobre, a Milano – e questa intervista fatta un paio di mesi fa, nelle colline piemontesi al bel festival Apolide, diventa ancora più interessante e significativa, vista l’intenzione dichiarata di rendere questa seconda parte di giro dal vivo ancora più taglientemente “da club”. Cosa vuole lui dalla club culture? E cosa possiamo imparare noi da lui?
Insomma, qua stanno accadendo cose che vanno oltre ogni aspettativa. No? O invece in qualche modo te l’aspettavi?
Assolutamente no. Io su questo disco ero partito con delle aspettative davvero basse, credimi. Il titolo parla infatti anche di quello: nella mia testa era l’ultima volta che facevo un disco con un certo tipo di piglio, senza cavarmi il sangue per fare cose fatte in un certo modo a livello di produzione, di timing… Davvero, è stata una bella sorpresa.
Che poi tornando appunto sul titolo, “L’ultima festa”, a occhio era comunque un disco che doveva anche divertire, coinvolgere… No?
Sai cosa, quando ho lavorato a questo album ho ascoltato dischi che, insomma, apparentemente come mood non c’entravano nulla. Musica, come dire?, a bassa intensità emotiva: Mac De Marco, The War On Drugs, Kurt Vile, insomma, quelle cose lì, rock indipendente americano dal mood molto rilassato, hai presente… Dischi che puoi ascoltare e riascoltare al mattino, ecco. Senza quella “invadenza” emotiva che, per dire, aveva pure il mio primo disco solista. E questo è il mood che ho usato stavolta come stella polare: cantare, fare le cose tranquillo, senza andare a tirare fuori emozioni gigantesche, ma cercare più qualcosa di “quotidiano”, di tranquillo. E fare tutto questo divertendomi.
Non sono in contraddizione le due cose, scusa? Il divertimento, in teoria, può essere l’opposto della tranquillità.
“Divertirsi” nel senso di stare bene, rilassato, con la mente sgombra, senza pressioni. Tipo: devo fare un arrangiamento? Lo faccio come mi viene, anche da cazzone se necessario – senza stare lì a spaccarmi il cervello in quattro per rifinirlo in modo perfetto. Questo è il disco in cui mi sono “lasciato andare”. Vale anche per la sua vena pop: facciamo un cantato di un certo genere? “Massì, facciamolo, chi se ne frega”. O al contrario: metto in mezzo ad un brano due minuti di cavalcata solo strumentale? “Certo, perché no”. Tra l’altro quest’ultima cosa mi è venuta proprio dopo essere stato a Club To Club dell’anno scorso da spettatore: stavo lì, in ammirazione, ad ascoltarmi i vari set in line up, e ad un certo punto mi sono detto “Io voglio entrare in questo immaginario”. O almeno: inserire pezzi di questo immaginario nella mia musica. Una cosa che mi piace, nei festival di elettronica, è come l’artista spesso “scompaia”. Parla il suo suono, non la sua figura. Questo approccio poi l’ho tradotto pure come scelta scenografica dal vivo: poche luci, e noi praticamente sempre in controluce.
Beh, da un lato mi parli di Kurt Vile e di un certo tipo di indie statunitense, dall’altro di Club To Club: come sei riuscito a tenere insieme due ispirazioni così diverse fra loro, senza che il tutto franasse o si ostacolasse a vicenda?
Ma si può, guarda. Mood rilassato e stilemi techno: ci sta. Anche perché la techno che piace a me è quella, come descriverla?, “viaggiosa”; poi ok, nel disco sono venuti fuori dei pezzi effettivamente da party, tipo il singolone, ma se senti le parti strumentali vedrai che sono tutte abbastanza rarefatte. Io adoro The Field, Donato Dozzy, Giorgio Gigli, Abdulla Rashim – quel tipo di techno lì.
Come ti sei avvicinato a questi ascolti? In teoria il tuo background di provenienza è diverso, almeno a vedere la tua carriera…
In realtà è da molto che mi muovo in questi ambiti, come ascolti. Uno dei primi dischi che ho ascoltato in vita mia con intensità totale è stato “Geogaddi”, dei Boards Of Canada. Un altro è “Selected Ambient Works 85-92” di Aphex. Da un lato fondavo i Drink To Me, dall’altro però ascoltavo quella roba lì. L’ho sempre adorata. E il fatto di aver preso da un certo punto in poi a fare molti concerti in giro, ad essere spesso in tour, ha riportato tutto questo nei miei ascolti e non a caso, perché come musica da viaggio è perfetta. Il mio amico Alessio Natalizia (Not Waving, NdI) mi ha “tanato” subito: ascoltando “Regata 70” mi ha detto “Eh, ma qua c’è l’ispirazione di The Field per come hai usato il campionamento tagliato di voce in loop!”, e ha ragionissima, era proprio questa l’intenzione, era proprio questa l’ispirazione. Il tipo di elettronica che adoro è quella. Esattamente come nel rock mi piacciono band come i My Bloody Valentine: gente da “viaggio”. Poi oh la musica è strana, spesso succede che quello che ti viene fuori come musicista è molto diverso da quello che ti piace come ascolti, non c’è una regola in tal senso.
Mentre stavi registrando, ti sentivi di essere particolarmente ispirato, in forma, in stato di grazia?
Devo dire la verità: stavo bene. Stavo proprio bene. Era la parte finale del tour coi Drink To Me, ero felice, c’era una bella atmosfera, si era formata una gran squadra; in più, come ti dicevo su “L’ultima festa” non avevo proprio nessun tipo di aspettativa. Cosa che mi metteva addosso una leggerezza che mi portava a sperimentare, a fare quello che mi passava per la testa come mai prima. Ad un certo punto avevo registrato una parte di voce che era quasi un rap, una cosa che boh, io me ne vergognavo in realtà, per mesi non l’avevo fatta sentire a nessuno. Poi un giorno mi è capitato di farla sentire agli altri Drink To Me e loro “Accidenti, spacca ‘sta roba”. “Ah sì?”, gli ho risposto, “siete sicuri?”. E allora lì mi sono messo a fare le cose seriamente, iniziando a curare con attenzione vari aspetti, lavorando convinto, e fidandomi di me stesso, di quello che mi passava per la testa e delle intenzioni che avevo. Mi sono lasciato andare, mi sono concesso cose che mai prima mi ero azzardato a fare, davvero: e una volta fattele, mi sono accorto che mi piacevano. Io ho un modo molto preciso per capire se sono veramente sulla strada giusta quando scrivo delle canzoni: se quando le riascolto mi fanno piangere, allora è ok. Ecco, con le tracce di “L’ultima festa” mi è successo quasi con tutte. E ancora, che le sto suonando dal vivo, non mi hanno ancora stufato.
E sì che dal vivo stai pure suonando parecchio.
E’ che la gente in questa prima parte di tour legato all’ultimo album è andata in crescendo settimana dopo settimana, il feedback si è fatto sempre più potente, e questa cosa mi dà una spinta pazzesca. Ho ricominciato a scrivere. Mi sento libero. E mi sento come se avessi un potere sulle persone: per cui posso permettermi di portarle nel mio viaggio così com’è, senza mediazioni, senza pormi scrupoli. Per il prossimo disco, per dire, vorrei fare due o tre pezzi “forti”, che possano fare da singoli, ok, ma per il resto concedermi ancora più libertà. Cantautorato e techno sono due cose divergenti? Bene, io voglio spingere ancora di più su entrambe, estremizzare ciascuna delle due componenti! E non è che non si possa fare, prendi “Ci stiamo sbagliando” di Luca Carboni, un pezzo di trent’anni fa, è un pezzo che praticamente non ha un ritornello, è tutto un viaggio continuo, però è perfetto. Comunque sì, voglio andare sempre più in direzione di una immersività da club: non sarò magari mai uno al 100% da club culture, ma voglio che la gente arrivi ai miei live e alla mia musica e si becchi una bordata di casse, di frequenze basse…
Ok. Continui a sentirti quindi un “turista” della club culture?
Mmmmh. Sì. Non so se a torto, o a ragione; ma sento di dover imparare ancora tante cose, tecnicamente. E comunque io non sono un purista, non lo sarò mai. Più che altro, mi sembra di essere uno che sta portando un certo tipo di linguaggio – quello del clubbing – a chi finora non è stato abituato a sentirlo. Se sta funzionando, è perché probabilmente lo sto facendo in modo personale.
Che poi il mondo più legato all’elettronica non mi pare ti stia trattando con ostilità, ti guarda abbastanza incuriosito. Noi come Soundwall lo facciamo da tempo, ma penso anche alle tue partecipazioni a Spring Attitude, alla grande accoglienza che hai avuto – non era per nulla scontata, in teoria soprattutto la prima volta eri un corpo estraneo in line up, almeno sulla carta.
Sì, è così. A parte i puristi: ma quelli ci sono ovunque. Tipo Max Durante: ad un certo punto ci siamo ritrovati amici su Facebook, mi ha chiesto l’amicizia lui ma credo l’abbia fatto un po’ a caso, non per motivi musicali. Io però ad un certo punto l’ho contattato, volevo dargli in mano un mio pezzo per un remix. “No, io non faccio remix per canzoni italiane” è stata la risposta. Ha chiuso il discorso a priori, capisci? Subito. Proprio per principio. Persone del genere probabilmente mi sputano in faccia, se sentono la musica che faccio ora, che in qualche modo un po’ si avvicinano alla loro. Però nello stesso tipo di scena trovi comunque anche persone meno rigorose, più aperte – mi viene ad esempio in mente Whitesquare, lui dice di apprezzare quello che faccio, il modo in cui produco, e lui su certe cose ne sa.
E il mondo del pop mainstream, invece? Mondo che ora inizi a lambire…
Eh, quello è un mondo curioso. Tanto più che io sono un “animale strano” per loro. Anzi: qualcuno mi dice addirittura che sarei un “genio”: tipo Max Pezzali, c’ho passato un’intera serata assieme, e ad un certo punto mi spiegava come secondo lui io sarei un genio. Senza mettere assolutamente in dubbio la sincerità e la spontaneità di questa sua affermazione, la mia constatazione è che se veramente io oggi come oggi posso passare per qualcuno da genio, beh, vuol dire che in giro c’è veramente poco. Ma proprio poco. Se nell’ambito del pop mainstream uno come me viene visto come un “genio”, vuol dire che sono davvero poche le persone che hanno il piccolo coraggio di fare le cose a modo loro. All’estero ce ne sono, eccome, sono tantissime, partendo dai vari Timbaland, Diplo: tutta gente che è riuscita ad entrare nel grande pop mantenendo un tocco personalissimo. Ma in Italia? Nel mainstream italiano? Di gente brava ce n’è, ci sono persone che tecnicamente sono preparatissime, ma è come se in quell’ambito lì ci fosse una incredibile paura di osare. “Eh, sì, bello, ma sai, una cosa così in radio non la passano…” ti senti dire appena provi a fare un beat un minimo strano. Boh. Anche Sandor Von Mallasz, che ha curato la promozione radiofonica de “L’ultima festa” inteso come il singolo, all’inizio sentendolo era dubbioso: “Mmmmh, non so, non mi sembra un mixaggio che possa funzionare in radio…”. Poi però ha funzionato eccome! Quindi ecco: anche uno con la sua esperienza, e con tra l’altro una mentalità molto aperta, molto più aperta di quella di parecchi suoi colleghi, all’inizio era scettico. Figuriamoci come possono porsi i più ottusi.
Che sono parecchi.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti, da anni. Mah. Vediamo. Di sicuro ora hanno preso ad arrivarmi offerte di collaborazione, come produttore, da contesti mainstream…
A te interessa.
Sì che mi interessa. Mi interessa in generale, come sfida artistica e personale; mi interessa però anche perché se inizi a lavorare per il mainstream puoi contare su budget diversi e arrivi a maturare diritti diversi, come compenso finale. Perché anche il lato business attorno alla musica è importante, non mi vergogno assolutamente a dirlo, tantomeno arrivato a questo punto. Però ecco, pure dove c’è business non per forza devi rinunciare ad essere te stesso, io voglio entrare in queste cose facendo comunque roba dove ci metto del gran gusto, o almeno il mio gusto. E voglio osare, sì. Sempre. La fiducia delle persone è importante, si tratti del pubblico, si tratti di altri musicisti: ma la voglio ottenere essendo me stesso, perché solo così ho la certezza di poter continuare a fare il cazzo che voglio. Quindi sì, se si parla di pop la mia risposta è “Sì!”, ma la risposta completa è “Farlo, ma in modo non canonico”.
Un’altra tua caratteristica è quella di fare dei live davvero arrembanti, in questa prima parte di tour ogni volta che t’ho visto pareva fosse l’ultimo concerto della tua vita e dovessi dare tutto…
Massì, sennò sai che noia.
Non c’è il rischio di logorarsi anzitempo, in questo modo?
Fosse solo il concerto; poi c’è il dopo concerto, quando ancora l’adrenalina non scende, e allora ti spacchi, bevi… Guarda: era dall’adolescenza che non avevo brufoli in faccia, ora hanno preso a spuntarmi, mi sa che vuol dire qualcosa. Ma finché ce la faccio, oh, io vado avanti così.
Non è il caso insomma di iniziare a pensare ad amministrarsi un po’.
No. Perché io sono in una fase ben precisa, quella in cui ciò che può farmi emergere è proprio non amministrarmi, ma buttare fuori tutto. Poi oh, la scena musicale è piena di gente eccentrica. Poi guarda, io manco ho paura di passare ogni tanto per lo scemo del villaggio…
C’è questo rischio?
Beh, ogni tanto lo scemo lo faccio. Il molesto. Ma non me ne importa nulla. Che ne so, qualche giorno fa ero a Lecce, ad un festival dove c’erano un po’ di amici ma anche un bel po’ di gente del mainstream: ero ubriaco fradicio a fine concerto, andavo in giro così. Però sai che c’è, io non ho la minima paura del giudizio altrui. Io sono così. Il mondo della musica è pieno di gente disfatta, ripeto; e io poi sono ben lontano dal disfacimento vero e proprio. Quindi, dove sta il problema? Tanto, alla fin fine, quello che conta è il lavoro: e io quando si tratta di lavorare sono serissimo…
Oggi riparte il tour invernale de L’Ultima Festa, trovate tutte le date qui, in questo video invece potete scoprire come è stato il tour estivo.