Chissà perché sarà sembrata una buona idea a Dan Snaith fare tutto un disco dalla, uhm, “intensita pastello”: tutta leggera, tenue, anche pastosa ma al tempo stesso umbratile, fragile. In realtà, magari lo è. Magari è una buona idea. Sì. D’altro canto in Italia ne abbiamo un esempio perfetto: questa estetica indie, questo lo-fi voluto ed intenzionale imbevuto di nostalgismo da cameretta è passato da alfabeto di una setta orgogliosamente minore (quali i veri appassionati di indie sono stati a lungo) a verbo dominante di cui si abbeverano non solo i nuovi reucci del pop (Paradisi, Calcutti, Stati Sociali, Ultimi, ma tutto iniziò coi Cani, col secondo disco più ancora che col primo), ma perfino i i guitti dell’hip hop – perché chi ha avuto l’intuizione di uscire dal rap boom bap 100% per virare verso delicate melodie ed arrangiamenti educati ed inoffensivi ha sbancato e sta sbancando, facendo numeri pazzeschi.
E’ il trionfo dell’”educazione”, del carino: un tempo sfottevamo gli Zero Assoluto, oggi per avere successo devi fare come esattamente loro e, se ci riesci (a fare come loro, e ad avere successo), non ti sfotte mica nessuno. Anzi. Affascinante come cambi il mondo. Ora: non crediamo che Snaith abbia una profonda conoscenza dell’it-pop e; se anche per assurdo ce l’avesse, lo conosciamo troppo bene per sapere che non sarà mai un opportunista arraffa-occasioni, quindi non è che fa qualcosa “…perché funziona”. Ma è indubbio che una grande velatura indie sia calata sulla sua musica, con “Suddenly”. Oh, non che vi dobbiate aspettare i suoni dei Pavement, ma la scelta calibrata ed intenzionale del piglio fragile&delicato (sia nel cantato, presente come mai prima, che in moltissime scelte d’arrangiamento) e ancora di più il pesantissimo feeling da “nostalgia cameretta” anni ’80 rientrano – c’è poco da fare – nel grande Bignami della sensibilità indie degli ultimi due decenni (che ha spazzolato prima e poi proprio spazzato via poi quella, molto più urticante, degli anni ’90).
Perché l’abbia fatto, Snaith, sarebbe da chiederglielo. Se la cosa funziona a livello di risultato finale, possiamo invece provare a dare una risposta noi. E la risposta è: mah, insomma. “Suddenly” dà l’idea di una grande occasione sprecata: perché l’entità-Caribou mostra in più frangenti di essere ispirata, vogliosa tanto di prendersi dei rischi nei suoni che di scrivere canzoni, ritornelli, piccoli ganci preziosi. Sono cose, queste, che fanno solo gli artisti che sono in una fase positiva d’ispirazione. Gli altri, tentano di fare un po’ la copia di se stessi, minimizzando i rischi ed andando avanti col mestiere. Va dato atto a Snaith – e non è un merito da poco – di non aver provato a rifare né “Swim” né “Our Love”. Questo è un dato di fatto. Ed è un merito.
(Eccolo, “Suddenly”; continua sotto)
Ma ci sembra altrettanto un dato di fatto che questo album non affondi mai il colpo, non abbia realmente coraggio, spesso potrebbe essere leone ma – per evitare seccature?, per scelta ecosostenibile?, per voglia di una vita tranquilla? – si traveste da capretta. Che bisogno c’è di detunare il pianoforte in “Sunny’s Time” o la chitarra di “Like I Loved You”? E perché scegliere come traccia d’apertura qualcosa di così contrito come “Sister”? Perché “Lime” fa intravedere un potenziale che sarebbe come Thom Yorke e Thundercat messi insieme ma meglio, però fondamentalmente si rifugia dopo qualche colpo d’ala nell’iniziale funkettino à la Shakatak? Perché creare una “Never Come Back” che potrebbe superare a sinistra i Disclosure ma viene zavorrata da insiegabili voci pitchate? E a proposito di voci pitchate, perché usarle per rovinare una altrimenti bella “You And I”?
Oh. Sarà che le reference da pop rock FM anni ’80 ci provocano scarsa simpatia (a meno che non siano rese ipnotiche e pacchianamente insistite come nei primi, bellissimi lavori di Oneohtrix Point Never), e in “Suddenly” vengono sparse a piene mani un po’ ovunque; sarà che sappiamo il potenziale funk del progetto Caribou, che dal vivo infatti sa esplodere al momento e nei modi giusti; sarà che già “Can’t Do Without You” per noi era più contagiosa che bella; insomma, sarà tutto questo, ma per noi “Suddenly” se ne viene fuori con una sufficienza stiracchiata. Voto inspiegabile, considerando il talento intrinseco e l’intelligenza musicale di Dan Snaith e considerando ancora di più il fatto che comunque è un album dove, nonostante tutto, dimostra di essere in forma.
Si è un po’ rovinato la vita da solo. O magari invece ha proprio colto, senza volerlo e senza cercarlo, lo “spirito del momento” in musica, e questo diventerà di gran lunga il suo lavoro di maggior successo (anche perché in effetti “Suddenly”, per scrittura, è il suo disco più pop: ma non si intravede nessuna scelta calcolata o voglia di accorciare l’estinzione del mutuo in questo, deve essergli semplicemente venuto così), proprio perché ha evitato di “esagerare” come possono invece aver “esagerato” – con risultati bellissimi – Frank Ocean o Bon Iver, nel fare loro certi stilemi indie “fragili”. Lo scopriremo nelle prossime settimane, nei prossimi mesi. Ma di sicuro, a livello personale, ci sarà più voglia di rivederlo su un palco a darci dentro e a portarci nell’universo con le versioni “cosmiche” di “Sun”, piuttosto che il mettere nella lista degli ascolti quotidiani questo “Suddenly”. Ma di brutto, proprio.
O forse siamo solo noi delle brutte persone, che non si fanno mai sedurre fino in fondo dall’esile bellezza del pop in chiave indie, quello dove il clubbing o l’hip hop sono una rifrazione gentile. Siamo in pochi. Ma non siamo soli. Resistiamo, sottoterra. Ora il vero underground siamo noi.